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In via del Campo nascono i fiori: la storia di Rossella Bianchi, il ghetto e la comunità trans

Presentato il libro di Rossella Bianchi, “princesa” del Ghetto di Genova, dal titolo 'In Via del Campo nascono i fiori'. La sua storia si intreccia con i cambiamenti del quartiere genovese: le prostituzione, la droga, gli immigrati e infine l'incontro con Don Gallo


7 maggio 2014Interviste > Notizie

in-via-del-campo-nascono-i-fiori-rossella-bianchiL’abbiamo incontrata al Berio Cafè per la presentazione del suo libro In via del Campo nascono i fiori (edito da Imprimatur), lei è Rossella Bianchi, la trans presidente dell’Associazione Princesa fondata da Don Andrea Gallo. I lettori più attenti ricorderanno lo speciale di Era Superba sul Ghetto, chi scrive aveva già conosciuto Rossella in quell’occasione (qui l’intervista): mi era piaciuta subito, vedevo in lei grande dignità. Di poche parole, ma al contempo aperta e disponibile nei miei confronti, ha suscitato in me dal primo momento simpatia, ammirazione e curiosità. Rossella avrebbe tante storie da raccontare, mi dicevo. Adesso, quelle storie le ho trovate nel suo libro, un libro onesto, sincero e senza censure. E nel locale della biblioteca Berio, ho avuto la possibilità di approfondire con lei quello che all’epoca, per pudore e per rispetto, non le avevo chiesto.

“Sono nato il 14 novembre 1942 in un paesino delle colline lucchesi da una famiglia contadina. Da piccolo sentivo il desiderio di immedesimarmi in una identità femminile. Fino a quando ho creduto di essere l’unica mente malata sulla faccia della terra, avevo pensato a come aggirare l’ostacolo: farmi prete”. Così scrive nel suol libro Mario Rossella Bianchi. Poi sappiamo già com’è andata: ha deciso di non farsi prete ed è arrivata a Genova, nei vicoli, dove tutt’ora esercita il mestiere più antico del mondo.

L’arrivo a Genova, città in cui si è dovuta ambientare, le violenze, le amiche perse lungo la strada, la piaga della droga, poi l’arrivo di Don Gallo, come un angelo, come un amico, più di un padre.

La storia di Rossella e del Ghetto

 «Farvi sorridere, emozionare e riflettere, senza pretese letterarie era lo scopo che mi ero posta e penso di averlo raggiunto». È una storia difficile la sua, come quella di molte altre trans arrivate negli ’60 (e poi nei decenni a seguire fino ad oggi) nel Ghetto, quadrilatero racchiuso tra Via del Campo, Via Lomellini, Via delle Fontane e Via Balbi. È una storia anche orgogliosa: quella di una persona forte e determinata. È la storia di chi ha vinto: ha vinto la sfida più grande, quella con se stessa, non solo con gli altri.

«Fin dalle scuole elementari avevo capito che qualcosa in me non quadrava: ero attratta dai ragazzini. A 8 anni ho incontrato il mio primo (e unico: da grande mi sono rifatta abbondantemente!) amore platonico, che però non mi corrispondeva. Ho capito subito di essere “diverso” e le mie zie, quando lo hanno saputo, mi hanno mandata a Lourdes per chiedere la grazia alla Madonna e farmi tornare “normale”. Lì ho conosciuto una ragazzina di Milano che si è invaghita di me e mi ha invitata a trovarla nella sua città. Le mie zie mi hanno mandata a pranzo da lei, erano 7 tra fratelli e sorelle, il padre era un maresciallo della buon costume! Primo piatto servito a tavola, un vassoio di finocchi: oh Madonna, ho pensato, qui finisco nel piatto pure io!».

Una simpatia naturale e intelligente, che coinvolge il pubblico del Berio Cafè  e cela una personalità più complessa e riflessiva «Tra i 15 e i 20 anni, ho scritto una cinquantina di poesie, tutte un po’ cupe: percepivo le difficoltà del futuro. Facevo la “checca pazza” in giro, facevo un vanto del mio essere diverso e mi autos-puttanavo (non esisteva ancora la parola outing), ma alla sera mi guardavo allo specchio e capivo che qualcosa non andava ed ero triste, di una tristezza leopardiana». All’epoca Mario viveva ancora nella provincia lucchese e iniziava a frequentare le prime amicizie gay. In quegli anni il battesimo di Mario come ‘Rossella’, un omaggio alla protagonista di “Via col Vento”: «tutti i miei amici gay avevano un nome femminile, di un’attrice o comunque con riferimento mai casuale. Avevo paura che mi dessero un soprannome brutto: pensate che una di noi la chiamavano “Aiutami a piangere”! Alla fine mi hanno chiamata Rossella perché, in preda a sofferenze amorose, decisi di reagire pronunciando la frase del noto film: “Domani è un altro giorno”. Sono passati 50 anni e sono ancora Rossella, anche se i miei documenti non dicono la stessa cosa».

Nello stesso periodo le difficoltà a trovare un lavoro: la sua esuberanza non la faceva passare inosservata e, nella provincia toscana degli anni ’50-60, non erano molti quelli disposti a offrirle un lavoro. Da qui la decisione di emigrare a Genova. «Sono arrivata a Principe il 31 dicembre 1964: era la prima volta. Mi sono diretta in Vico delle Cavigliere, nel Ghetto, dove abitavano alcuni amici che mi aspettavano per festeggiare il capodanno: il tassista nemmeno voleva portarmici. Non nego che l’impatto sia stato brutto. Era sporco, pieno di prostitute e brutta gente, ma dopo pochi giorni me ne ero innamorata perdutamente e mi sono trasferita qui. C’era un’atmosfera nuova: qui non ti facevano sentire diversa, ero una come tutti. Così ho deciso di restare, ma non è stato facile, mi sono successe tante cose negative. Alla fine però non mi sono mai arresa».

rossella-princesa-trans-ghettoLa sua vita privata, da questo momento, si intreccia con la storia del ghetto di Genova, segue le sue trasformazioni sociali e urbane. Il quartiere inizia a trasformasi, arrivano i ragazzi, travestiti, truccati e colorati. Anche Rossella così decide di tagliare i legami con la vita di prima… All’epoca era illegale: vigeva il reato di mascheramento, retaggio fascista (decaduto più tardi con una sentenza della Cassazione), così c’erano frequenti incursioni e arresti da parte delle forze dell’ordine. «Eravamo non transessuali ma travestiti: uscivamo la mattina pronte a tutto, anche ad essere arrestate e passare la notte in cella. Quando ci prendevano, ci rilasciavano la mattina dopo, con la barba che aveva vinto la battaglia con il fondotinta. Una lotta continua con la polizia fino agli anni ’70, ma siamo ancora qui».

Molte di noi, nei primi tempi, non erano nemmeno troppo attraenti: sembravamo uscite da un film di Fellini e se il regista avesse fatto una capatina nei vicoli avrebbe trovato del bel materiale!

Arrivano gli anni ’70, scompare la polizia ma sopraggiunge la piaga dell’AIDS, la droga, la morte per overdose, i suicidi: una peste. Era il 1975, era arrivata l’eroina e si era portata via l’entusiasmo e la gioia di vivere. «Ci sono caduti quasi tutti e l’ambiente era invivibile. Ci siamo salvate in poche: non le più intelligenti ma le più fortunate, quelle che non hanno incontrato le persone sbagliate nel momento sbagliato». Poi, negli anni ’90, l’immigrazione: arrivavano nel ghetto i diseredati, i “senza futuro”, quelli che erano costretti a delinquere perché non avevano scelta. Oggi la situazione si è normalizzata e chi è rimasto si è integrato.

Fino alla storia die nostri giorni, l’ordinanza dell’ex sindaco Marta Vincenzi, che imponeva di chiudere i bassi perché un’offesa al pudore. Da qui una battaglia costata molti soldi, e una causa persa. Poi, però, siccome nulla viene per caso, c’è stato anche l’incontro con Suor Teresa, una suora brasiliana che è stata trait d’union tra le trans e Don Gallo: il padre che ha preso a cuore la causa delle Princese e le ha aiutate a restare nel ghetto. Anzi proprio lui le ha chiamate così: sapete da dove viene questo nome? Princesa era una trans brasiliana arrivata in Italia per guadagnare soldi per la madre e i fratellini. Lavorava a Roma e metteva da parte un buon gruzzolo che consegnava in custodia alla proprietaria della pensione in cui alloggiava; al raggiungimento della somma desiderata, scoprì che nel frattempo la padrona aveva speso tutto. Princesa l’ha accoltellata ed è stata condannata per omicidio: dal carcere ha scritto un libro, che ha poi ispirato la celebre canzone di Fabrizio De André.

Il libro di Rossella si snoda attraverso gli eventi più importanti, quelli che come sliding doors hanno cambiato il corso della sua vita e di tutto il ghetto: «Ho vissuto una vita intensa, nonostante il carcere e le altre disavventure, ma non rimpiango niente. Se fossi stata diversa, non sarebbe stata così speciale. Vorrei che tutti la potessero vivere».

La stesura del manoscritto è iniziata 4-5 anni fa: all’epoca era solo una bozza, un’idea che sembrava un sogno anche alla stessa autrice. Oggi il sogno è diventato realtà: l’appuntamento di martedì era il primo di una serie di incontri per la promozione del testo, che andrà oltre i consueti tre mesi. Lo conferma Domenico Chionetti, portavoce della Comunità di San Benedetto al Porto: «Partiamo dal basso in tutti i sensi, perciò il libro avrà una lunga promozione, cercheremo di portarlo in tanti territori e sarà presentato in estate anche all’interno del Gay Village romano. La storia di Rossella si legge tutta d’un fiato: la storia di una straordinaria emancipazione collettiva e della più grande comunità transessuale d’Italia».

 

Elettra Antognetti


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