La leggenda narra di spiriti tormentati all'interno dell'edificio, le anime dei frati domenicani sfrattati o l'ombra di Leyla Carbone, condannata al rogo per stregoneria
Una superficie che scende a gradoni, finestre e balconi che occhieggiano da pareti i cui colori rievocano le facciate dei borghi marinari, una cupola di punti luminosi che ricorda un cielo stellato : benvenuto nella sala del Teatro Carlo Felice.
Ti aspetti un ambiente ridondante di fregi e ti trovi in una delle tante piazzette che caratterizzano la costa ligure, ricche di salsedine e di panni stesi. Poltrone in resina e velluto, pavimenti in legno Doussiè, rifiniture in pero e ciliegio (legni usati per strumenti musicali), pareti di marmo blu di bardiglio (pietra che riflette le alte frequenze), assicurano un’acustica tra le migliori d’Italia, omogenea lungo i 44m che separano la prima dall’ultima fila della platea.
In una atmosfera ovattata e magica, la suggestione rende palpabile la presenza di spiriti tormentati che la tradizione vuole legati alla storia dell’edificio. Progettato dall’architetto Carlo Barabino, in un’area precedentemente occupata dal complesso conventuale di San Domenico (XIII sec.), fu inaugurato nel 1828, alla presenza di Carlo Felice e Maria Cristina di Savoia, con l’opera belliniana” Bianca e Ferdinando”.
Che siano le anime degli sfrattati domenicani o l’ombra di Leyla Carbone, figlia di un liutaio, condannata al rogo per stregoneria (1580), una specie di maledizione accompagna, da subito, la vita di questo edificio.
Si narra che la cantante boema Teresa Stoltz, amante di Giuseppe Verdi, ordinò di collocare una mummia nello scantinato del teatro quale rimedio contro il malocchio ma l’espediente fu vano: la sera stessa, svenne sulla scena e l’incolpevole amuleto fu esiliato in un meandro del Museo di Pegli.
Diversi incendi e la guerra segnano il dissesto dell’edificio finché, nel 1946, dopo molte traversie, il suo restauro fu affidato all’architetto Paolo Chessa ma, vedi il caso, il progetto si esaurì tra le carte bollate; morì accidentalmente, ahimé, anche, il subentrante Carlo Scarpa.
Fu, infine, Aldo Rossi, a realizzare l’idea di una piazza coperta, di 400 mq di superficie, dove il teatro fosse il collegamento ideale tra Galleria Mazzini e piazza De Ferrari. Al fine di comunicare una percezione di solidità e di “eternità”, si privilegiarono, per gli esterni , materiali come la pietra e il ferro; gli interni, invece, eccellono per marmi e legno.
Delle antiche vestigia rimangono solo il pronao (spazio posto davanti all’ingresso) a colonne doriche, il porticato a bugnato (pietre con rilievi sporgenti o bugne) che abbraccia l’edificio e forma la terrazza del primo piano. Il pronao è sormontato da un timpano triangolare con i primigeni bassorilievi, alla cui sommità svetta una copia della statua dello scultore Giuseppe Gaggini, rappresentante il ‘Genio dell’Armonia’ (l’originale è conservata all’interno della chiesa di Sant’Agostino in Sarzano).
Tra le aggiunte del nuovo progetto si trova una cuspide poligonale vetrata, alta 27m, il lanternino, che sale attraverso i diversi piani del Teatro fino a svettare sul tetto, illuminando l’interno, e la torre, alta 63m, vero e proprio scrigno di sofisticati meccanismi che servono alla gestione scenica del teatro.
A vegliare su questo gioiello… perché non si sa mai, campeggia, all’entrata principale, una statua marmorea di S. Domenico (Carlo Schiaffino 1689 –1765) antico protettore di questo luogo.
Adriana Morando