La crisi dipende dall'euro, non dalla Germania. La politica mercantilista tedesca che vive e si arricchisce sulle spalle degli altrui deficit può certamente essere biasimata - e su queste pagine lo abbiamo fatto in più di un'occasione - ma non deve diventare il capro espiatorio del fallimento di Tsipras
La tragedia greca non è finita: a breve ne vedremo ancora delle belle. Tuttavia con il voto del Parlamento di mercoledì notte si è compiuta una svolta cruciale. Il premier Tsipras, l’eroe mitologico della sinistra europea, colui che doveva rappresentare le speranze di un’Europa alternativa alle politiche di austerity, ha dovuto alla fine accettare un umiliante accordo con i creditori, ammettendo placidamente davanti ai suoi: «Se qualcuno ha alternative, me lo dica».
Queste parole sono la definitiva pietra tombale sulla strategia di chi voleva cambiare l’Europa dall’interno. Quelli che fino a ieri lanciavano appelli alla solidarietà, quelli che predicavano un cambio di verso, quelli che sostenevano la necessità di battere i pugni sul tavolo, quelli per cui le politiche sociali e per la crescita si fanno a livello comunitario, e soprattutto quelli che “l’Europa ci ha dato la democrazia”; tutti costoro hanno avuto la prova, semplicemente, di aver avuto torto.
Il fallimento di Tsipras è il loro fallimento: è il fallimento di una sinistra troppo ideologizzata, troppo impegnata a contemplare la bellezza estetica degli ideali che propugna per darsi la pena di considerare se e come metterli in pratica. La colpa di questo fronte politico, che è anche la ragione della sconfitta del premier greco, e insieme la causa diretta delle sofferenze di un continente intero, sta nell’avere ostinatamente negato il problema principale: la moneta unica. La verità è che la crisi dipende dall’euro, e l’unica soluzione è uscirne il prima possibile.
Tsipras, vittima del suo stesso populismo e della clamorosa ignoranza del ministro Varoufakis (giustamente stigmatizzata da Pier Giorgio Gawronski su Il Fatto Quotidiano), è stato così ingenuo da presentarsi al tavolo del negoziato senza nemmeno una bozza del famoso “piano B” (come reintrodurre una valuta nazionale): anzi, nel tentativo, forse, di rabbonire la controparte, ha ammesso pubblicamente la sua impreparazione, confessando così di non disporre di alcuna possibilità di ritorsione e finendo per farsi chiudere in un angolo e spolpare vivo.
Nonostante l’incredibile errore strategico, che lascia la sinistra priva di una strategia anti-austerity e – quel che è peggio – irrimediabilmente corresponsabile del crimine perpetrato, spalancando così la strada all’avvento delle peggiori destre, c’è ancora chi, per viltà o per mestiere, non può fare a meno di mentire, individuando un nuovo capro espiatorio: la Germania.
Wolfgang Schaeuble, l’inflessibile ministro delle finanze, e Angela Merkel, il potente cancelliere, sono ormai nell’immaginario collettivo gli eredi di un’anima tedesca che si pensava morta e sepolta. Inamovibili, privi di memoria storica ed incapaci di solidarietà, questi mostri teutonici stanno mettendo a rischio il meraviglioso sogno europeo: essi dimenticano i debiti (anche morali) che furono condonati alla Germania e si accaniscono sulla povera Grecia, con una militarizzazione finanziaria degna del Quarto Reich.
Si tratta, ovviamente, di fantasie sciovinistiche, alimentate da questa mal intesa integrazione (alla faccia di chi sostiene che l’Unione Europea porti la pace). La realtà è un’altra: non ci sono colpe imputabili esclusivamente alla leadership tedesca.
Ci si dimentica, infatti, che tutto l’eurosummit ha sottoscritto l’accordo: compresi naturalmente i nostri rappresentanti. Padoan si è schierato subito con Schaeuble, Renzi (ormai indistinguibile da Crozza) si è vantato di aver salvato l’Europa e tutto il PD ha esultato. Certo c’era da fare i conti con la volontà della Germania: e la politica è fatta anche di compromessi. Ma se quanto è stato imposto alla Grecia giustifica, anche solo lontanamente, il paragone tra Angela Merkel e Adolf Hitler, allora sarebbe stato il caso di mettersi una buona volta di traverso per non passare da Quisling.
In secondo luogo bisogna ammettere che la Germania ha sempre seguito una linea di politica estera ben precisa, senza mai mostrarsi aperta, anche prima dello scoppio della crisi, all’idea di accollarsi i debiti del resto del continente. Per quale motivo, dunque, questa volta avrebbe dovuto disattendere quello che è l’orientamento prevalente tra i suoi elettori? Certo si può argomentare che il suo atteggiamento mercantilista la ha di molto avvantaggiata; e che dunque sarebbe il momento di mostrare un po’ di solidarietà. Ma se ci fosse propensione alla solidarietà, non ci sarebbe una politica mercantilista.
Su questo punto occorre soffermarsi ancora. Chi punta ad arricchirsi con l’export, stando al riparo dalla rivalutazione della moneta grazie ai cambi fissi, assume per definizione un atteggiamento non collaborativo nei confronti dei propri partner. Non per niente questa politica si chiama “beggar-thy-neighbour”, ossia “impoverisci il vicino”: essa presuppone l’accumulazione di surplus grazie al fatto che altri accumulano deficit.
Si può naturalmente biasimare la Germania per questo: ma non si può negare che non abbia perseguito questa linea con coerenza. Cosa abbia autorizzato, invece, il resto d’Europa a pensare che i tedeschi avessero cambiato idea resta un mistero. Per quale motivo, poi, si sia concluso che le cose sarebbero andate meglio privandosi del meccanismo di difesa dei cambi flessibili, per sostituirli con generici appelli alla solidarietà, è quasi al limite della comprensione umana.
C’è infine una terza questione: se la Germania è così cattiva e così poco cooperativa, perché non abbiamo fatto altro che magnificare, fino all’altro ieri, il favoloso modello tedesco? Perché, dal sindacato alla Confindustria, tutti si sono dichiarati entusiasti sostenitori del “facciamo come la Germania”?
Il fatto è che i “virtuosi” tedeschi sono stati il riferimento del capitalismo internazionale (e dei suoi “servi sciocchi”) per un motivo banale: perché la loro politica economica, vincente proprio grazie all’euro, massimizza i profitti del capitale a scapito dei redditi da lavoro. È per questo che un po’ in tutta Europa le élite hanno puntato su questo modello (asetticamente ribattezzato “le riforme”): ed è per questo che non si possono isolare le colpe della classe dirigente tedesca da quelle delle altre. Tutto il mondo industriale e finanziario internazionale, grazie anche ad opinioni pubbliche anestetizzate, ha spinto perché si arrivasse a questo punto.
Oggi, semplicemente, si è dovuto ribaltare la favola: i tedeschi sono passati dall’essere i più produttivi all’essere i più ottusi solo perché il mantenimento del vantaggio competitivo tedesco è entrato in contrasto con la salvaguardia dell’euro. Il capitalismo dovrà dunque fare i conti con le rinate aspirazioni nazionali e poi scegliere: anche se in ogni caso non sarà un scelta priva di pesanti conseguenze.
Andrea Giannini