Il rottamatore è un politico ambizioso che ha vinto una guerra di potere intestina grazie all'appoggio decisivo di un certo establishment, sempre pronto a presentare qualcuno di diverso perché nulla cambi
E così finalmente il predestinato è stato scelto. Come Frodo nel Signore degli Anelli o Neo in Matrix anche Matteo Renzi ha compiuto la profezia. Solo un anno fa questo giovane virgulto della politica italiana veniva sonoramente sconfitto alle primarie che incoronavano Bersani segretario: ma poi lo “smacchiatore di giaguari” perdeva le elezioni e usciva di scena. Da allora è stato tutto un coro di prefiche che ripetono all’unisono: “Renzi!
Renzi! Renzi! Ah, ci fosse stato Renzi…!”. Niente è apparso più scontato ed evidente, nei discorsi degli intenditori, del potere taumaturgico del giovane Matteo, capace di prendere un partito alla deriva e portarlo a vittoria certa. Non c’è stato talk-show o trasmissione di approfondimento che non si sia interrogato sulle mosse del mitico “rottamatore”: cosa pensa? cosa farà? vuole il voto? Insomma, il nostro ha rubato la scena a tutti, ricevendo anche l’onore di una riuscitissima parodia firmata Maurizio Crozza.
Con quasi 3 milioni di votanti (600.000 in più di quelli che andarono ad incoronare Bersani segretario) e il 68% delle preferenze, il sindaco di Firenze ha a dir poco surclassato i più dimessi Cuperlo (18%) e Civati (14%), relegati al ruolo di semplici sparring partner. Non siamo ancora ai fasti di Walter Veltroni, che nel 2007 prese oltre il 75% su 3 milioni e mezzo di votanti, ma è indubbio che l’incessante battage mediatico e il “tormentone Renzi” abbiano alla fine prodotto il risultato di convincere i più ad abbondare ogni perplessità, confermando un’investitura netta e carismatica.
L’esito inequivocabile delle primarie deve essere confrontato con un altro risultato non altrettanto plebiscitario: il voto nei circoli del partito, dove qualche settimana fa Renzi aveva strappato “appena” il 46%, contro il 38% di Cuperlo. Il dato è molto significativo, perché dimostra che la “base” non è saltata in massa sul treno del vincitore, nonostante il rischio di rimanere fuori, a livello locale, dalla redistribuzione di incarichi e prebende di cui beneficeranno i renziani. Ciò dimostra che dentro il partito la linea del sindaco di Firenze non gode di un appeal assoluto. Il risultato delle primarie dipende dal fatto che esse si rivolgono a un pubblico di simpatizzanti molto più ampio: per cui le ragioni di questo grande consenso vanno ricercate al di là del PD. E il fatto è che Matteo Renzi incarna un grosso equivoco di fondo.
L’opinione pubblica italiana, nella sua linea mediana, è dominata dal luogo comune che la strategia da seguire sia facile: gente nuova e fresca, cose concrete, niente ideologia, meno tasse, meno politica e “riforme”. Non è questione di destra o di sinistra: l’importante è mandare a casa la vecchia classe dirigente (giusto per dare una scossa, un po’ come le squadre di calcio quando cambiano allenatore); poi bisogna abbassare le imposte su famiglie e imprese e ridurre i costi della politica, senza dimenticare – si capisce – le fantomatiche “riforme strutturali”. Questa semplice ricetta si adatta un po’ a tutto l’arco parlamentare: va bene alla destra di Berlusconi, va bene al centro di Casini e Monti, e va bene persino al M5S. È trasversale anche nell’elettorato, incontrando convinti sostenitori un po’ fra tutte le classi sociali: dai più deboli, che sfogano le loro frustrazioni contro i politicanti, ai poteri forti, che guardano con favore al subliminale messaggio liberista.
La grande capacità di Renzi è stata quella di preoccuparsi solo di rincorrere questi luoghi comuni, senza cura della tradizione storica del suo partito. Il suo messaggio è stato così sufficientemente vago, ma nel contempo sufficientemente semplice, da riscuotere un consenso pressoché generale: e l’assoluta mancanza di alternative ha fatto il resto. Oggi tutti sono convinti che questo sia il futuro, che il partito possa diventare finalmente concreto, giovane e moderno.
Purtroppo si tratta di una visione tremendamente anacronistica. L’idea che la sinistra debba liberarsi dell’ideologia e, in sostanza, assomigliare alla destra andava di moda a metà degli anni ’90: ma che qualcuno ne parli ancora oggi come di una visione progressista è un equivoco stupefacente; perché le cose stanno all’esatto contrario.
A settembre avevo esordito su questa rubrica con un lungo post introduttivo, dove avevo cercato di spiegare che i tempi sono maturi piuttosto per una politica economica espansiva centrata sulla spesa pubblica e sul recupero del potere d’acquisto delle classi lavoratrici. Adesso quell’analisi mi torna utile per dimostrare che affidandosi a Renzi la sinistra italiana non solo si allontana definitivamente dalla sua vocazione naturale, ma, credendo di puntare sul cavallo vincente, rischia di andare incontro al definitivo tracollo.
Per convincersene non serve un grande sforzo. E’ sufficiente porsi una semplice domanda: in che modo la politica di Renzi è diversa da quella di Letta? I commentatori trovano degno di nota il fatto che il giovane neo-segretario del PD sia estraneo tanto alla tradizione ex-comunista quanto a quella ex-democristiana. Ma a parte le tessere possedute in passato, l’anagrafe e forse una certa spregiudicatezza si fa fatica a trovare una differenza sostanziale. Se, ad esempio, si andasse al voto con una nuova legge elettorale e Renzi cogliesse quel trionfo che tutti pronosticano, dopo cosa cambierebbe? A parte forse la questione IMU oggi Letta e Alfano vanno piuttosto d’accordo: e non è chiaro cosa farebbe di diverso il sindaco di Firenze, se fosse al loro posto.
La realtà è che Renzi non ha alcuna visione alternativa rispetto a Letta o a Monti. La diagnosi è sempre la stessa, e purtroppo è drammaticamente sbagliata: ragion per cui la terapia non guarirà nessuno, anche se cambierà chi ce la somministra. Il rottamatore è solo un politico ambizioso che ha vinto una guerra di potere intestina grazie all’appoggio decisivo di un certo establishment, sempre pronto a presentare qualcuno di diverso perché nulla cambi.
Andrea Giannini