I giudici sottolineano che è legittimo parlare di Made in Italy solamente se la lavorazione del prodotto è avvenuta prevalentemente all’interno del territorio nazionale
Il 24 maggio la Corte di Cassazione, con la sentenza n.19650, ha rigettato il ricorso proposto da una società calzaturiera a cui era stato sequestrato un carico di solette e gambali che riportavano il marchio Made in Italy, rinvenuto dalla Guardia di Finanza su un autocarro di proprietà di una società con sede in Romania.
«I giudici, richiamando un’importante e recente normativa in materia, le legge n.55 del 2010, hanno sottolineato l’importanza e il significato del Made in Italy», si legge sul quotidiano di informazione giuridica Leggi Oggi, che ha reso nota la sentenza.
In pratica è legittimo parlare di Made in Italy solamente se la lavorazione del prodotto è avvenuta prevalentemente all’interno del territorio nazionale.
L’articolo 1 comma 4, della legge n.55 del 2010, definisce che cosa si intende per Made in Italy e quando è legittima l’apposizione sulla merce di questo marchio. Quest’ultimo costituisce per i consumatori un segno di garanzia della qualità e dell’autenticità del prodotto acquistato.
La dicitura Made in Italy, scrivono i giudici «È permessa infatti esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione … hanno almeno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità. Punto fermo, comunque, è la necessità di assicurare la tracciabilità attraverso la evidenziazione del luogo di origine di ogni fase della lavorazione».
Inoltre, nel settore calzaturiero si specificano dettagliatamente anche le singole fasi di lavorazione, ovvero «La concia, la lavorazione della tomaia, l’assemblaggio e al rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione».
La Suprema Corte, nel casi di specie, sulla base di queste considerazioni rileva che «Per le solette, così come per i gambali, vi sarebbe stata sia l’apposizione di un marchio di imprenditore italiano sia la falsa attestazione di fabbricazione del prodotto in un paese diverso da quello effettivo … Non può negarsi per tanto la idoneità a ledere la lealtà degli scambi commerciali e ad indurre in errore i consumatori