La sociolinguistica è una disciplina affermatasi negli USA nella seconda metà del ventesimo secolo e nata dall’interesse per i legami tra la lingua e la società in cui è parlata
William Labov, è uno dei maggiori linguisti americani del ventesimo secolo. Viene definito come uno dei padri di una materia chiamata “sociolinguistica”. Che cosa tratta questa disciplina? Pur senza averlo esplicitato direttamente, un buon numero degli articoli di questa stessa rubrica ha utilizzato un approccio sociolinguistico nei confronti dell’inglese. Quando, per esempio, ho fatto riferimento alla Received Pronunciation britannica come a un accento distintivo di una classe sociale, quella era una considerazione di carattere sociolinguistico.
Rispetto ai linguisti come Noam Chomsky, che cercano di individuare i principi generali comuni a tutte le lingue che governano il funzionamento del linguaggio umano, la sociolinguistica si occupa di far luce sui legami profondi tra una lingua e la società all’interno della quale essa è parlata. Infatti, come abbiamo già visto – e non mi stancherò mai di ribadirlo – la storia di una lingua è profondamente collegata a quella delle persone che la parlano. Non è un caso che questa disciplina sia nata dopo la Seconda Guerra Mondiale in due paesi come Stati Uniti e Regno Unito, nei quali il melting pot che si era creato a seguito di forti movimenti migratori ha dato vita a situazioni linguistiche e sociali di notevole complessità e interesse.
Labov, per esempio, si è occupato di analizzare l’African American Vernacular English (AAVE), conosciuto anche come Black English, ovvero la varietà di inglese parlata dalla comunità afro-americana oggi popolare a livello internazionale specialmente grazie alla musica rap. Cantanti come Coolio, 50 Cent, Tupac Shakur e altri hanno esportato attraverso i loro brani alcuni tratti distintivi dell’AAVE: torneremo in seguito su questo e altri discorsi relativi all’inglese delle canzoni.
Relativamente all’American English, Labov si è anche concentrato sul cosiddetto Northern Cities Shift, uno “spostamento” – da cui la parola “shift” – nella pronuncia delle vocali nella varietà conosciuta come Inland North, parlata nella regione dei Great Lakes e comprendente città quali Chicago, Buffalo o Detroit. In un’intervista rilasciata qualche anno fa a The New Yorker, Labov spiega che l’intenzione degli abitanti delle regioni dell’Inland North era quella di distinguersi proprio attraverso la pronuncia dai parlanti degli stati più a meridione. Tra l’altro, l’Inland North ha fornito la base al General American che troviamo sui dizionari come standard di pronuncia, accanto al modello di riferimento britannico della RP. E’ da questa regione che provengono personalità politiche quali il fu Presidente, nonché ex-attore, Ronald Reagan, il repubblicano Mitt Romney e l’attuale Secretary of State (equivalente al nostro Ministro degli Esteri) Hillary Clinton.
A proposito di United States, vale la pena spendere qualche parola sulle presidenziali del 6 novembre che vedono fronteggiarsi proprio Romney e Barack Obama. A eleggere formalmente il presidente degli USA è un collegio di 538 cosiddetti grandi elettori, in rappresentanza dei singoli stati. A eccezione di Maine e Nebraska, in ciascuno stato il candidato che ottiene più voti si aggiudica tutti i grandi elettori dello stato stesso. Per esempio, chi vince in California può contare su 55 elettori, mentre il candidato che ottiene più voti in Florida se ne aggiudica 29: per diventare presidente, l’importante è arrivare ad almeno 270.
Può succedere che un candidato vinca in un numero di stati che gli consentono di arrivare a 270 grandi elettori senza tuttavia avere ottenuto la maggioranza del voto popolare complessivo. Per esempio, nel 2000 Al Gore ricevette dalla gente più voti di George W. Bush, il quale però poté contare su 271 grandi elettori.
Le polemiche che seguirono il voto, in particolare a causa di presunte irregolarità nella Florida, decisiva per l’elezione di Bush, devono essere state un’autentica benedizione per Labov e i suoi assistenti: grazie ai cosiddetti Bushisms del buon George W., un mix di gaffe lessicali, grammaticali e culturali, il lavoro per i sociolinguisti in questi anni non è certo mancato…
Daniele Canepa
[foto di Diego Arbore]
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