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Fabio Giovinazzo e Sanguineti: il film d’esordio del regista genovese

Il giovane regista genovese si confronta, nel suo lavoro d'esordio dal titolo "Kinek ìrod ezt”, con la città di Genova, la figura di Edoardo Sanguineti e i propri fantasmi interiori


30 Gennaio 2013Interviste

fabio-giovinnazzoDefinisce il suo lavoro come “un sogno o una fiaba” e usa l’immagine video per analizzare se stesso. “Non mi interessa far arrivare al pubblico un messaggio. Non mi interessa insegnare niente a nessuno. Sono un grande egoista in questo senso. Mi piace analizzare il mio pensiero, in uno stile complicato. Diciamo che attraverso le immagini cerco di curare il mio animo”. Il suo lavoro d’esordio, ispirato alla figura di Edoardo Sanguineti e alla città di Genova, e intitolato “Kinek ìrod ezt”, è stato sostenuto e prodotto dall’Università di Genova, finanziato nel montaggio dalla Cineteca Griffith e proiettato nella sua prima versione a Madrid, presso il Garaje Lumière. Il 19 febbraio verrà proiettato presso la Biblioteca Berio.

Come è avvenuto il tuo avvicinamento al linguaggio filmico?

«Non ho frequentato alcun corso tecnico di cinema, mi sono formato guardando un gran numero di film e seguendo il mio istinto.  Nel senso che una cultura cinematografica può essere sicuramente importante, ma quello che conta veramente è sentire qualcosa di eccitante scorrere nelle vene quando ci si trova sul set per girare un film.  La passione, l’istinto…  Quando giro sento qualcosa che mi trascina verso l’azione. Ho sempre avuto una gran fantasia e il cinema è un luogo dove posso esprimermi al meglio.  Scrivere e girare un film, per me significa viverlo.  Vorrei vivere per sempre e avere molte vite.  Fare cinema mi permette tutto questo.  Ogni film è una parte di me, è una vita che avrei voluto seguire.  In questo senso è stata una scelta obbligata.  Per non parlare dei pensieri che mi assillano, allora non faccio altro che imprigionarli nel linguaggio cinematografico per liberarmene.  Fino alla prossima volta, ovvio».

Il tuo film sembra essere documentaristico ma sembra anche avere risvolti evocativi-allucinati…

«Si tratta di un documentario tra il vero ed il falso.  Nel senso che ho sia rubato scene di vita quotidiana, sia ricostruito certe situazioni.  Ho giocato con le diverse inquadrature, alcune molto geometriche, e sfruttato i vari momenti narrativi per far emergere nello spettatore una qualsivoglia emozione.  Bella o brutta non mi interessa.  L’importante è far arrivare qualcosa di me, far vivere anche un singolo frammento del mio essere nelle altre persone».

fabio-giovinazzo2Perché hai scelto la figura di Sanguineti per il tuo film? A quali esigenze rispondeva tale scelta?

«Ho scelto Sanguineti perché aveva un modo di scrivere molto sperimentale, ludico direi.  Diciamo che rispecchia, in alcuni versi, il mio modo di fare regia.  Lui giocava con le parole, io gioco con le immagini».

Scegliendo l’analisi di te stesso ma non volendo spiegare nulla, non temi che il risultato rischi di essere troppo criptico per essere apprezzato?

«Il mio modo di fare regia è questo.  Ripeto: faccio cinema per me stesso, perché sento che devo farlo.  Quando accendo la telecamera, indago su quello che c’è dentro di me».

Un’immagine del film che ti sembra racchiuderne l’essenza.

«L’inquadratura simbolo del mio film è quando arriva un treno in stazione e si ferma per tutto il tempo che nella realtà è necessario mentre la televisione della stazione manda a ripetizione pubblicità soprattutto sulla carta igienica.  La trovo ironica e violenta al tempo stesso».

Definisci le sequenze del film come “una serie apparentemente sconnessa di immagini”…

«Le immagini sono sconnesse solo in apparenza, in realtà sono legate dal mio viaggio per Genova alla ricerca di Sanguineti.  Che non appare mai come fisico e voce, troppo banale, ma solo attraverso la quotidianità di certi momenti a lui riconducibili per natura».

Qual è il significato del titolo “Kinek ìrod ezt” e perché hai scelto proprio queste parole?

«Il titolo è in lingua ungherese.  Non ha una traduzione specifica.  Si tratta di una domanda che il poeta scrive alla fine di una sua poesia.  Per me è una simpatica presa in giro, simbolo del suo scrivere.  Perfetta per il mio film.  Subito lo spettatore si trova davanti a qualcosa di misterioso.  “Che cosa vedrò?” si domanda».

 

Claudia Baghino


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