Il chitarrista genovese racconta sé stesso e la sua professione in un mondo, quello della musica, non certo semplice. Le riflessioni di Adriano da musicista, ma anche da insegnante e da ascoltatore appassionato
Adriano Arena è un chitarrista genovese che dal 2000 è professionista. Tra tribute band, collaborazioni in studio e dal vivo con numerosi cantautori (anche all’estero, nel Regno Unito) e con un’attività di insegnamento del suo strumento che dura dal 1998, è diventato difficile seguirlo nei suoi spostamenti. Siamo riusciti a “fermarlo” fra un viaggio e l’altro per questa intervista, una chiacchierata per provare a capire meglio lo stato delle cose per chi vive di musica nella nostra città.
Sei un musicista che da qualche anno ha deciso di fare della musica la sua professione. Da qualche tempo ti dividi tra Pontassieve, Toscana, e Genova. Qual’è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso – se c’è stata – nel tuo allontanarti da Genova, almeno in parte?
«In realtà non c’è stata una ragione improvvisa: negli ultimi anni la mia vita privata si divide tra Genova e la Toscana, e diciamo che a Genova col passare degli anni sono venuti scemando dei rapporti, umani e lavorativi, che per me erano importanti. Con ciò non vuol dire che in Toscana ho trovato un paradiso dei musicisti! Semplicemente, ho visto che Genova non era più la mia città preferita, pur essendoci nato, cresciuto. Il fattore umano ed il rispetto per il mio lavoro sono cose da cui non prescindo. In Toscana, sarà per il carattere della gente più effervescente rispetto al genovese in generale, può essere uno stimolo collaborare con gente che ha un approccio alla musica differente dal tuo».
Molte delle tue considerazioni sul tuo lavoro – prese dai social network – sono sfoghi del momento in cui lamenti la scarsa cultura generale e la scarsa considerazione, anche economica, per il mestiere del musicista…
«Premettendo che quello che scrivo su Internet, ad esempio su Facebook, sono degli sfoghi in reazione a fatti che lì per lì ti fanno uscire di testa. La realtà è che spesso mi trovo di fronte persone che non capiscono la validità di quello che ho da proporre, almeno come musicista. Il fattore denaro conta, ma di più conta chi ha in mano la situazione in quel determinato posto e in quella determinata occasione. Ultimamente penso che ci sia investimento sulla quantità e non sulla qualità, e manchi una volontà di investire su qualcosa che può dare un risultato nel tempo. Io ho collaborato con un locale che ha fatto quest’ultimo tipo di scelta per cinque anni, ovvero musica di qualunque genere, però con una qualità ben definita, e devo dire che c’è stato un buon successo di pubblico, con una base di audience fedele che veniva ogni sabato. Sta diventando un classico il locale che dice di fare musica dal vivo e non ha l’impianto! C’è un tiro al risparmio che sotto molti aspetti è devastante per tutti, pubblico e musicisti».
Domanda difficile: definisci la tua professionalità.
«Domanda difficile e semplicissima per come la vedo io! Essere professionale per me vuol dire: uno, essere puntuale, salvo inconvenienti e contrattempi. E per me vale anche da altre parti. Se io ti do un appuntamento alle otto del mattino e ti presenti alle dieci, per me non sei professionista. Bisogna essere precisi nel ricordarsi i propri impegni, l’orologio è importante e fa la differenza! Il rapporto umano può essere un’altra cosa importante, cioè, sapersi rapportare con le altre persone, avere comunque un dialogo. Bisogna sapersi adattare a varie esigenze, nei limiti della decenza, però bisogna sicuramente parlare prima con chi ti propone una certa cosa, e, se la accetti, devi stare ai suoi termini, non ai tuoi.
Poi, la scelta del suono. Se sei un chitarrista devi passare ore di studio anche per curare il tuo suono, in modo che questo sia quasi definitivo dal vivo ed in registrazione, quando lo affidi ad un fonico. Questo comporta anche meno perdita di tempo.
Ma attenzione, essere professionisti non è sinonimo di professionalità! Andando avanti nel tempo scopro musicisti professionisti che non fanno prove, o che fanno storie e preferiscono provare tutto un’ora prima del concerto. Questo mi manda in bestia: il prodotto che vendo deve essere perfetto. Se uno compra un’automobile, non la compra certo con la porta rigata. E poi mi domando… in fondo stai suonando, non trasporti sacchi di cemento, perché ti pesa provare? A volte vedo “credere” in un progetto più la persona che lo fa per passione, piuttosto che chi lo fa per lavoro…»
Domanda provocatoria, ma nasce anche dalle tue risposte precedenti: perché la gente vuole suonare? Se la situazione è così come descritta, perché, ad esempio, la gente prende lezioni di chitarra da te?
«Beh, a volte mi chiedo, soprattutto quando vado ad insegnare chitarra nelle scuole, “perché questo personaggio va a lezione?”. Noto, soprattutto nei più giovani, una certa non voglia di conoscere, una mancanza di passione e di ascolto della musica; tra le nuove leve ci sono pochi allievi davvero interessati alla musica, al punto che ti chiedi perché vadano a lezione. C’è gente che non sa che la chitarra è fatta di legno oppure che le manopole del tono e del volume servano a qualcosa! La mancanza di curiosità porta ad ignorare il miliardo e più di informazioni ottenibili via internet per suonare bene. Io ho iniziato per passione, studiando da autodidatta dalle dieci alle otto ore al giorno, magari marinando la scuola. Solo in un secondo momento ho deciso che questo sarebbe stato il mio lavoro».
Il mercato musicale è morto? Come si vendono – se ci si riesce – i dischi? Fai anche tu il banchetto dopo i live?
«Altroché se è morto! Non parlo dei grossi nomi, parlo della gente che non è un’icona italiana ed estera. Quanti comprano i CD? Io e te siamo appassionati di musica ed è una cosa che ci seguirà per tutta la vita, ma siamo in minoranza, una goccia nel mare! I dischi tuoi li vendi con il banchetto dopo i live; l’etichetta minore paga il cd, a seconda del contratto, ma se vuoi rientrare dalle spese e guadagnarci un minimo devi vendere la musica nei concerti, che poi non è detto che siano tanti. Le vendite che fai attraverso l’etichetta non è guadagno, perché i negozi di dischi magari… non ci sono!»
Hai letto della proposta di legge per la musica dal vivo? Se sì, come la giudichi?
«Conosco una proposta di legge per far evitare di pagare la SIAE ai locali che hanno una capienza non superiore alle duecento persone».
La SIAE è un ente che tutela la tua opera come autore o è un organismo burocratico fine a sé stesso?
«La SIAE è un ente burocratico che devi pagare. I miei diritti di autore li devo pagare prima e poi mi vengono restituiti in percentuale del 60%, magari spalmati nell’arco di un anno. Chi è una goccia nel mare non guadagna nulla sul diritto d’autore. Il locale che “fa suonare” – è vero – il borderò della SIAE lo compra, ma poi se ne dimentica oppure intenzionalmente non lo consegna o non lo fa compilare, giocando sul rischio di essere scoperti piuttosto che pagare la SIAE. In Inghilterra, dove ho suonato con un cantautore in due suoi dischi, scrivi i brani e li proteggi tramite o una licenza Creative Commons, oppure ti autospedisci il CD con ricevuta di ritorno, e quello è un documento valido per dimostrare che in quella data hai composto i brani! Non esiste il bollino SIAE sui CD in Inghilterra».
Come giudichi il ritorno del vinile?
«Per un discorso nostalgico, andrebbe anche bene. Ma costa tantissimo perché è tornato di moda! E poi, se non hai un impianto hi-fi adeguato, ti perdi delle cose. A me piace il CD, anche perché ho poco tempo di ascoltare tra una trasferta e l’altra. Certe cose mie le metto in streaming perché hanno il loro posto lì. Però preferisco semplicemente il CD come supporto fisico».
Michele Bensa