Aprile 2013, un mese che verrà ricordato nella storia della Repubblica: il fallimento della grande coalizione di sinistra e lo scempio politico dell'operazione di restaurazione che porta alla seconda presidenza Napolitano e al governo Letta
Il bello di queste ultime votazioni per il Quirinale è stato che hanno permesso di smascherare tante ipocrisie.
Cade l’ipocrisia che la formazione di un governo col PD fosse impedita dall’oltranzismo del M5S. In realtà era evidente che le due forze politiche non potessero stare assieme semplicemente sulla base di otto punti programmatici tanto interessanti sulla carta, quanto fumosi nella pratica. E dopo un mese di (supposto) corteggiamento, non appena il M5S ha gettato un ponte proponendo Rodotà, cioè un politico di sinistra che potesse anche farsi garante di un cambio di rotta grazie alla sua notoria indipendenza e integrità, il PD ha accuratamente evitato di prenderlo in considerazione, senza preoccuparsi nemmeno di spiegare perché. (A dire il vero qualche parlamentare ha provato ad azzardare un: «Non potevamo votarlo, perché metà del partito non l’avrebbe votato», ma poi forse gli altri si sono accorti che addurre l’indisponibilità a votare il miglior candidato di sinistra come giustificazione dell’indisponibilità a votare il miglior candidato di sinistra sarebbe stato uno sprezzo del ridicolo fin troppo sfacciato).
Cade poi l’ipocrisia delle “larghe intese”. In realtà, impallinata la candidatura di Marini, Bersani ha provato subito a far passare un uomo del PD contando soltanto sui voti del PD e nonostante l’aperta ostilità del PDL e l’indisponibilità del M5S (tra l’altro neppure interpellato).
Cade anche l’ipocrisia che il PD sia un partito di sinistra: anzi, che si tratti affatto di un partito. In realtà questa strana formazione, aggregatasi in un tempo neanche troppo lontano (era il 2007) dietro ad una mal compresa “necessità” di bipolarismo, ha rappresentato lo sforzo di far convivere i reduci dell’Unione Sovietica con i reduci della Democrazia Cristiana: due culture che erano state entrambe tagliate fuori dalla Storia, che avevano poco da spartire e che dovevano però trovare una ragione per stare insieme. Ripudiata in gran segreto la tradizionale vocazione dei partiti di sinistra, cioè la difesa dei lavoratori e dello Stato sociale, perché considerata ormai (con grande lungimiranza storica) definitivamente fuori moda, fu necessario trovare un’altra piattaforma ideologica: ed è da qui che derivano quei feticci che sono stati la bandiera della sinistra italiana dell’ultimo ventennio.
In primis l’anti-berlusconismo: uno slogan di facciata a cui tanti militanti hanno voluto credere fino all’ultimo, nonostante tutte le evidenze del contrario; ma che dal week-end scorso è ormai definitivamente smascherato. Impossibile infatti azzardare qualsiasi scusa di fronte all’evidenza del “gran rifiuto” opposto a Rodotà per favorire la “sorpresa” Marini, tanto cara a Berlusconi (il quale – si sa – non da mai niente per niente…).
L’altro feticcio è l’europeismo, un dorato vincolo esterno che già Vladimir Bukovskij, con felice sintesi, definì “EURSS”; un bel sogno di diritti, multiculturalismo, efficienza nordica e maturità nazionale, che alla sinistra italiana veniva molto comodo per dare l’impressione di avere una qualche posizione. Tuttavia da questo sogno siamo a breve destinati a svegliarci. E se l’input ad uno smantellamento ordinato dell’euro-zona non verrà da un altro paese membro, per l’Italia il ritorno alla realtà non potrà che essere traumatico. Di ciò sarà responsabile proprio la forza politica che per anni ha impedito un serio dibattito sulla moneta unica, che ha mitizzato il lavoro di Ciampi, Prodi e Padoa-Schioppa e che ancora oggi finge di non sentire voci autorevoli, come quella di Paul Krugman, che pure sta cercando di avvisarci del disastro in tutti i modi.
L’ultimo feticcio è stato consacrato definitivamente in questi giorni, per la sorpresa solo di chi faceva finta di non capire: Giorgio Napolitano. Avendo scelto di erigere un partito sui due feticci di cui sopra, i dirigenti della sinistra sono stati costretti a divorziare completamente dall’analisi del reale per privilegiare il calcolo elettoralistico, il politically correct e le mode del momento; cosicché, se il vento cambiava, privi di strumenti per navigare, non potevano far altro che andare alla disperata ricerca di un’ancora di salvezza. Per sette anni quell’ancora è stata il Presidente della Repubblica. Questo simpatico vecchietto, che ha saputo muoversi in modo da accontentare un po’ tutti i partiti, e che grazie all’aurea di ultimo baluardo istituzionale e alla dolcezza da primo “nonno d’Italia” ha saputo conquistarsi la benevolenza delle masse, è rimasto nel corso della crisi l’unica figura politica che si potesse presentare alla gente, il cavallo di troia con cui un establishment anacronistico poteva perpetrare se stesso: e per questo è stato conservato come una reliquia e venerato come un semidio.
Da qui deriva la leggenda del grande statista Giorgio Napolitano; il quale, invece, ad uno sguardo disinteressato appare una figura piuttosto mediocre, un Presidente preoccupato soprattutto di conservare l’esistente, autore di pesanti forzature, con gravi responsabilità politiche nella gestione della crisi e serie opacità. Non è strano che alla fine la sua riconferma al Quirinale si sia rivelata l’unica soluzione possibile; ma che si tratti dell’ultima foglia di fico di un sistema politico allo sbando appare evidente dalla scena kafkiana del giuramento: il Parlamento in festa applaude le parole del Presidente mentre questi si prende il vezzo di criticarlo violentemente. E’ l’impietoso specchio di una classe politica priva di contenuti fino alla contraddizione; un’istantanea iconica della Casta da consegnare alla Storia, insieme con il volto imperturbabile di Maurizio Paniz mentre galvanizza gli impavidi “trecento” che faranno di Ruby “Rubacuori” la possibile nipote di Mubarak.
Cade infine anche l’ipocrisia di una stampa conservatrice se non libera, almeno capace di esprimere qualche autonoma riserva. In realtà, dopo averci raccontato delitti e castighi del M5S con scomode inchieste tipo: “Rodotà è davvero il candidato della rete?”, il “quarto potere” non ha trovato di meglio da fare che salutare l’elezione del vecchio Presidente con editoriali degni di un cinegiornale degli anni ’30. Né al Corriere della Sera, né al Sole 24 Ore, né alla Stampa, né all’Unità, né agli altri grandi giornali che ci tengono “informati” è venuto in mente di denunciare lo scandalo politico dell’operazione di restaurazione a cui abbiamo assistito e che ha come ultimo precedente il Congresso di Vienna del 1815. A nessuno è venuto in mente di sottolineare che una tornata elettorale nazionale che aveva terremotato l’Europa e una cruciale corsa per l’inquilino del Quirinale sono passate come acqua fresca, riproponendo esattamente la situazione preesistente. Ieri avevamo un governo Monti all’insegna dell’austerità, una presidenza Napolitano e una maggioranza PD più PDL: oggi ci ritroviamo con una presidenza Napolitano, un inciucio tra PD e PDL bello apparecchiato, un governo fatto col rimpasto nel miglior stile “prima repubblica” e, quanto alle riforme da fare, indovinate un po’ di cosa si parla tanto per cambiare? Dell’agenda Monti. E a fronte di questo scempio, non appena Grillo pronuncia la parola “golpe”, esattamente come hanno fatto tutte le altre forze politiche in passato, si grida subito all’eversione. E’ un vero peccato che il comico si sia corretto (con inedito senso della misura) e si sia fermato proprio sul più bello, perché sarebbe stato un discreto spettacolo assistere al coro degli “aita, aita!” rivolti a Re Giorgio II per convincerlo ad inviare i carabinieri contro il vile gerarca in marcia verso Roma.
Il vantaggio di tutta questa situazione è che nessuno potrà più dire di non aver capito. La Casta ha deciso di arroccarsi nel bunker e di regalare a Grillo quella battaglia per la novità e il ricambio che fin qui ha fatto la sua fortuna (permettendogli tra l’altro di mettere in secondo piano i nodi irrisolti e di imparare a moderare toni e linguaggio). E’ probabile che proprio su questa linea di frattura nei prossimi giorni il PD si spaccherà: da una parte i “responsabili” che sosterranno il “governissimo”, dall’altra quelli che andranno all’opposizione con Grillo, i quali pure, visti i nomi che circolano, non sembrano davvero preparati a separare il liberismo dalla difesa dello Stato sociale, in modo da tentare il difficile esodo verso la terra promessa di una cultura politica di sinistra.
Andrea Giannini