Dopo mesi di campagna elettorale cerchiamo di capire quali potranno essere gli scenari e quali saranno i principali temi di cui dovrà occuparsi il nuovo governo, con tutta probabilità guidato da Monti e Bersani
Finalmente ci siamo. Questo sarà l’ultimo commento prima del voto: dalla prossima settimana sapremo se ci sarà una coalizione o un partito in grado di governare. In ogni caso si comincerà a ragionare, nel bene o nel male, in modo completamente diverso.
I TEMI SUL TAVOLO: DI COSA SI DOVRA’ OCCUPARE IL PROSSIMO GOVERNO
La mia personale interpretazione – e lo sa bene chi mi segue su questa rubrica – è che il prossimo esecutivo sarà costretto a confrontarsi prima o poi con le regole di bilancio che ci ha imposto la governance europea in un clima di forte emergenza economica. E’ questo il punto centrale: che non si riduce banalmente a “la crisi”; perché, se di semplice crisi economica si trattasse, avremmo potuto prima discutere di come uscirne, e poi, dalla prossima settimana, con il nuovo governo, passare alla pratica. Il fatto invece che le soluzioni politiche per la ripresa appaiano tutto sommato piuttosto evanescenti e lascino come uno strano amaro in bocca, è la migliore testimonianza di quello che in realtà già sappiamo: non possiamo fare tutto da soli. C’è lo spread, i mercati, le direttive europee, “la Merkel”: in due parole il “vincolo esterno”, cioè lo spettro di una serie di elementi estranei rispetto ad una comunità nazionale che pure entrano nel dibattito interno e vengono chiamati in causa tanto da condizionare pesantemente la libera espressione delle scelte democratiche dei cittadini.
Non si tratta di una novità: parliamo anzi del fattore dominante della politica degli ultimi vent’anni, che infatti ci ha restituito una classe dirigente ripiegata su stessa, svogliata e percepita come inutile dalla gente. Oggi il vincolo esterno si esprime in forme quali: il pareggio di bilancio in Costituzione, il fiscal-compact, il six-pack, il mito delle “riforme” a cui siamo costantemente richiamati, il famigerato spread e da ieri pure il two-pack. Il combinato di questi paletti inderogabili rende di fatto molto ristretto il margine di azione della politica, se non addirittura virtualmente impossibile: è noto, infatti, che a meno di una ripresa che porti ad una crescita altissima, ci viene imposto un futuro di tagli difficilmente sostenibili.
In questo quadro appare pure necessario parlare di riduzione delle tasse, recupero dell’evasione e lotta alla corruzione: ma è evidente che si tratti di obiettivi, qualora realmente praticabili, comunque realizzabili solo nel lungo termine e, nel complesso, insufficienti a rimettere in carreggiata il paese. Altre misure, come il taglio degli sprechi e l’efficientamento della burocrazia, possono portare addirittura ad ulteriori effetti recessivi. Liberalizzazioni e privatizzazioni sono idee opinabili, ma certo non sono la panacea.
A ciò si aggiunga che lo scenario europeo verosimilmente peggiorerà, con l’esplosione di un dramma sociale in Grecia e dei problemi di bilancio francesi. Pertanto non c’è dubbio che il contesto in cui dovrà operare il prossimo governo sarà particolarmente difficile.
LO SCENARIO PIU’ PLAUSIBILE: CHI GOVERNERA’ E CON QUALI POTERI
Tutto dipende dalla legge elettorale, il famoso “porcellum”: a parole tanto criticato, ma nei fatti lasciato immutato dai partiti della legislatura uscente, che quindi se ne assumono tutta la responsabilità. Le caratteristiche di questa legge che ci interessano sono due: 1) il premio di maggioranza, 2) le soglie di sbarramento.
Alla Camera dei Deputati non ci sono problemi: stanno fuori i partiti singoli sotto il 4% e le coalizioni sotto il 10%, mentre chi arriva primo si becca sicuri 340 seggi che garantiscono la maggioranza e quindi la governabilità. Al Senato della Repubblica la musica cambia: stanno fuori i partiti sotto l’8% e le coalizioni sotto il 20%, ma soprattutto il premio di maggioranza si calcola regione per regione. Questo significa che non tutti supereranno lo sbarramento; e che anche un piccolo scarto di vantaggio – ad esempio – in Lombardia si traduce automaticamente in 27 seggi sicuri al Senato: una bella fetta di quella quota di maggioranza che si raggiunge con circa 176 seggi. Quindi anche una vittoria su scala nazionale non garantirebbe automaticamente la maggioranza, se il combinato dei vari voti regionali fosse particolarmente sfortunato.
Con queste regole e, prendendo per buoni i sondaggi di cui disponiamo, alla corsa per il Senato arriveranno solo in quattro: PD, PDL, M5S e Lista Monti. In questo contesto il PD sarebbe costretto ad allearsi con Monti, non potendo contare (per ragioni di decenza) su Berlusconi, né sul movimento di Grillo (per indisponibilità di quest’ultimo). E sapete già che questa è l’unica ragione per cui Monti ha deciso di scendere… pardon, “salire” in campo con una lista unica al Senato: sostenere il PD nel voto delle prossime finanziarie, che saranno certamente lacrime e sangue e che quindi rischiano di sfaldare a sinistra la coalizione di Bersani.
Se e che stabilità avrà l’annunciato governo “Bersamonti” dipenderà tutto dai numeri della vittoria, oltre che dal (probabile) aggravarsi della crisi. Questo scenario, però, potrebbe essere scardinato non tanto da un exploit di Berlusconi, che non pare proprio in vista, quanto piuttosto da un’eventuale e clamorosa débacle di Monti, che non sembra sfondare nei sondaggi e che potrebbe – difficile, ma non da escludere – persino non superare lo sbarramento dell’8% al Senato: e a quel punto tutto potrebbe succedere, compreso uno sfaldamento del PDL o (probabilmente) un ritorno alle urne.
Ma il vero possibile fattore dirompente resta Beppe Grillo: il quale – va riconosciuto – ha fatto una campagna elettorale praticamente perfetta. Reduce dalle polemiche sull’autoritarismo interno al movimento, che, dopo la cacciata degli attivisti Favia e Salsi, faceva dubitare sulla tenuta dei consensi raggiunti nei sondaggi, Grillo ha puntato tutto sulla coerenza e sulla purezza ideologica. Non ha smesso di battere sul tasto del ricambio della classe dirigente, forte della scarsa attitudine al rinnovamento mostrata del resto della “casta”. Non si è concesso alle televisioni, costringendo così le televisioni a rincorrerlo da una piazza sempre più piena all’altra. Ha dichiarato esplicitamente di non voler governare (obiettivo rimandato di una legislatura), ma solo di puntare a infiltrare in Parlamento una pattuglia di attivisti la più numerosa possibile: in questo modo ha evitato brillantemente sia il problema del “voto utile” che quello della credibilità del programma. Il risultato è che oggi il suo M5S appare l’unica forza davvero “alternativa”, in un modo anche un po’ romantico; l’unica forza comunque in grado non per forza di “fare bene”, quanto soprattutto di “far cambiare direzione” a una politica che ha deluso e esasperato gli Italiani oltre ogni limite.
Il vero potenziale del M5S, quindi, resta ancora incerto. Quel 15% di elettori ancora indecisi potrebbe decidersi proprio alla fine: e potrebbe optare proprio per dare uno schiaffo ai vecchi partiti; un’eventualità che sarebbe ancora più probabile, se stasera Piazza San Giovanni arrivasse davvero a riempirsi. Ecco perché la vera domanda a cui queste elezioni devono dare risposta, quello che tutti aspettano con ansia di sapere, compresi soprattutto i candidati rivali, è: fin dove può arrivare Beppe Grillo?
Andrea Giannini