In questo sereno luglio, di crisi non c'è proprio voglia di parlare. O forse gli Italiani preferiscono credere che ci siano davvero quei segnali di ripresa visti da Saccomanni, mentre il nostro premier lancia tweet festanti
E’ un luglio un po’ anomalo. Ci sono splendide giornate di aria tersa, il caldo non è afoso e il miraggio delle agognate vacanze estive ritorna un po’ pigramente ad occupare la testa degli Italiani. Qualcuno butta un occhio sul colpo di Stato in Egitto. Qualcun altro si distrae con l’avvincente tentativo di scalata alla vicepresidenza della Camera dell’onorevole Santanché, oppure con il solito M5S, al quale si può sempre rimproverare qualcosa, in mancanza di altro. Di crisi non c’è proprio voglia di parlare: e forse – chissà – gli Italiani preferirebbero credere che ci siano davvero quei segnali di ripresa visti da Saccomanni; che la decadenza del movimento di Grillo e i guai giudiziari di Berlusconi segnino il ritorno alla “normalità” della cara vecchia opposizione destra-sinistra; che il governo Letta, sotto l’alto patrocinio di Napolitano, stia davvero facendo quello che va fatto; che lo spread si sia acquietato e che l’Europa abbia, seppur faticosamente, imboccato compatta la strada della risalita.
O forse no. Forse gli Italiani sono disillusi, non si aspettano più niente e vorrebbero solo pensare ad altro. E forse non hanno proprio battuto ciglio quando l’altro giorno Letta ha twittato festante “Ce l’abbiamo fatta!”, dopo che la Commissione Europea sembrava aver dato il via libera allo sforo del tetto di spesa. D’altronde gli Italiani a questi annunci hanno fatto il callo: chi crede più che cambierà davvero qualcosa? Beh, almeno uno c’è: il tenero Enrico.
Tutto trafelato il simpatico premier affidava la portentosa novella alla rete, senza avere neppure il tempo di curare la punteggiatura e usando persino “X” al posto di “per”, come i veri “gggiovani”. E l’hastag “#serietàpaga”, messo in bella vista, non fa che acuire l’istintiva simpatia per il candore del povero ragazzo. Bisogna capirli i giovani d’oggi. Enrico, già fervente ammiratore di Andreotti («Quante volte da bambino ho sentito nominare Andreotti a casa di zio Gianni. Era la Presenza e basta, venerata da tutti. Io avevo una venerazione per questa Icona»), è cresciuto alla scuola del più navigato zio e si considera figlio putativo del più anziano compagno di Bilderberg Mario Monti, per il quale pure nutre una stima viscerale, testimoniata dal noto “pizzino” con cui ne salutò l’ascesa al governo («Mario, quando vuoi dimmi forme e modi con cui posso esserti utile dall’esterno. Sia ufficialmente […] sia riservatamente. Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!»).
Insomma, Letta junior se lo sono allevato loro e oggi lui è fatto così: alle promesse dei grandi ci crede. Per il piccolo Enrico “rispettare i patti” e “dimostrare serietà” sono davvero i punti programmatici concreti di cui l’Italia ha bisogno, esattamente come per ogni bambino è concreta la minaccia dell’uomo nero che la mamma di tanto in tanto gli prospetta. Che le cose non stiano così, tuttavia, non c’è bisogno di un gran lavoro per dimostrarlo.
Olli Rehn, commissario europeo, ha subito specificato: «La flessibilità concessa dall’Ue non può in alcun modo derogare dalla regola del debito scritta nel fiscal compact». Cioè non si può sforare il limite del 3% annuo nel rapporto deficit – prodotto interno lordo. Se eventualmente l’anno prossimo (2014) dovessimo restare al di sotto di tale soglia, allora sarebbe (forse) possibile utilizzare il margine accumulato (0,1? 0,2?) per investimenti produttivi. Che cosa siano esattamente questi “investimenti produttivi” nessuno lo sa: e in ogni caso non saremo noi a decidere, ma l’UE. Il ministro dei trasporti Lupi ha subito provato a prenotare l’eventuale tesoretto per le grandi opere. (Vuoi vedere che l’annuncio serve solo come una scusa per buttare altri soldi nella TAV?).
L’associazione dei costruttori ha ipotizzato maggiori risorse per 7,5 miliardi l’anno: ma è una stima più che ottimistica. E in ogni caso è sempre troppo poco. E’ poco per rilanciare l’economia; poco per bilanciare il contributo dell’Italia all’Unione; poco per compensare il pesante tributo di tagli a cui siamo sottoposti. E soprattutto non è un passo verso quell’unità europea che potrebbe risolvere i veri problemi: perché ovviamente gli Stati Uniti d’Europa non ci saranno mai, dato che i paesi del centro non accetteranno mai di finanziare di tasca loro il divario con i paesi della periferia (l’8% del PIL tedesco, secondo Jacques Sapir). Solo il simpatico Letta può pensare davvero che i sacrifici siano stati ricompensati, e che ora si possa finalmente «mettere in campo investimenti per le infrastrutture», oppure porre «il tema del taglio delle tasse sul lavoro e dell’aiuto al lavoro giovanile». In realtà è il solito leitmotiv del “coniugare rigore e crescita”, cioè: il rigore non si tocca, di crescita ne parliamo un’altra volta.
Andrea Giannini