Capire le ragioni della crisi non è una questione di competenze economiche, ma di resistenze culturali: è l'occasione per riflettere su quali meccanismi si attivano nella formazione di un giudizio politico. Emerge che lo smantellamento dei veicoli sociali ed istituzionali deputati al consolidamento di un'identità lascia l'individuo nell'incapacità di costruirsi un'opinione autonoma e nell'illusione di poterne fare a meno, ricorrendo all'occorrenza a“permeismo” e “tecnicismo”
Siamo ormai entrati nel quinto anno di questa rubrica; e dopo aver assistito per così lungo tempo a una crisi economica che non accenna a passare (a meno di non voler vedere una vera ripresa economica in un paio di decimali positivi, ottenuti in una congiuntura particolarmente fortunata e grazie a regali irripetibili alle imprese) non possiamo che chiederci perché risulta tanto difficile capire che ciò che ci impedisce di rialzarci è il sistema in cui siamo calati.
È da quando c’è Monti (Berlusconi fu cacciato proprio perché non dava sufficienti garanzie in questo senso) che i bilanci dello Stato vengono monitorati dall’Unione Europea. Ed è da allora che tutti i governi continuano a ripetere che non c’è una seria alternativa a queste politiche: bisogna “fare i compiti a casa” per poi “essere credibili” e per contrattare con i partner “margini di flessibilità”. Quanti anni di recessione, disoccupazione elevata e svendite di aziende dobbiamo ancora passare perché si capisca che questa strategia è controproducente? Che cosa deve accadere affinché si diffonda la consapevolezza che stiamo percorrendo la strada sbagliata?
Fino a poco tempo fa qualcuno si poteva ancora illudere che il problema fosse la mentalità dell’attuale leadership europea e che, col tempo, attraverso un processo democratico, avremmo potuto “cambiare verso”. Ma il fallimento di Tsipras in Grecia dovrebbe avere ormai dimostrato che all’interno di queste regole non si può fare nulla: fintanto che la valuta e le leve di finanziamento di uno Stato sono controllate dal di fuori di esso, la democrazia è sotto ricatto.
Il problema è dunque obbiettivamente la costruzione della moneta unica, che si riverbera in una politica comunitaria insoddisfacente sotto ogni punto di vista. Perché allora è tanto difficile ammettere che dobbiamo sbarazzarci di questa Europa?
È possibile che qualcuno creda alla storiella dell’Europa Unita che ci avrebbe risparmiato un terzo conflitto mondiale: ma francamente è difficile credere che tutto si riduca a una simile scempiaggine. La verità, allora, deve essere un’altra. Con tutta probabilità, se dopo quattro anni ancora non si riesce a confrontarsi con il problema, bisogna concludere che non lo si vuole fare.
Recentemente Alberto Bagnai ha lanciato su twitter una provocazione facendo una richiesta apparentemente banale: che qualcuno segnali almeno un serio articolo scientifico sui benefici dell’euro. Nonostante i molti colleghi con cui l’economista dialoga quotidianamente, al momento in cui scrivo ancora nessuno si è fatto avanti. È l’ennesima riprova che la questione corretta non è: “come mai la gente non capisce?”; ma: “come mai la gente si rifiuta di ammettere la realtà?”.
A questa domanda dobbiamo dare due risposte: una per l’individuo e una (la settimana prossima) per la massa.
Se ci riferiamo a interlocutori singoli, bisogna tenere presente un dato: non è scontato che l’individuo abbia interesse a costruirsi un’opinione personale.
Questo dipende certamente dal fatto che viviamo in un’epoca di scarsa mobilità sociale, in cui le basse aspettative di migliorare la propria condizione di partenza non incentivano a dotarsi di raffinati strumenti concettuali. Tuttavia non credo che ciò basti a rendere ragione di come la capacità di sostenere una conversazione su temi di interesse generale sia precipitata rispetto a venti o trent’anni fa. La mia impressione è che, attraverso lo smantellamento di quei veicoli sociali ed istituzionali deputati al consolidamento di un’identità, sia passato anche il messaggio che, tutto sommato, essi non servano.
Già nella versione cartacea di questa rubrica mi ero occupato di questi meccanismi di formazione e in-formazione individuale, che posso riassumere incasellandoli in tre grandi famiglie:
1. la provenienza sociale (famiglia, cultura, lingua, usi, ecc.);
2. l’educazione scolastica;
3. l’informazione.
In pratica la capacità di farci un’idea su ciò che sta accadendo dipenderà: 1. dalla spinta proveniente dall’ambiente in cui cresciamo (valori, interessi, apertura mentale, amicizie, ma anche risorse umane e materiali); 2. dall’istruzione che ci è impartita (nuovi valori, conoscenze, riflessioni, socialità, sviluppo di capacità, specializzazione lavorativa); e infine 3. dalla qualità delle informazioni che riceviamo (ossia da come i media fanno il loro lavoro).
La demolizione mirata di questi capisaldi (grazie alla riduzione di redditi, incentivi e protezioni sociali, alla destrutturazione la scuola pubblica, a vie traverse per imbrigliare la libera informazione, ecc.) è stata giustificata con il risultato stesso a cui essa stava mirando. A un certo punto si è stabilito che non è responsabilità dell’individuo capire cosa succede intorno a lui. Egli è un ingranaggio in una macchina più grande, i cui contorni non può afferrare: e dunque non vale la pena perdere tempo ad elaborare una comprensione di quanto possano essere più o meno adeguati gli attuali rapporti sociali. Le cose semplicemente vanno come devono andare: se andranno bene, tanto di guadagnato; altrimenti si dovrà solo pazientare. L’obiettivo è pensare per sé stessi e mantenere un cieco ed ostinato ottimismo che tutto alla fine si aggiusterà.
Nonostante questa forma di disimpegno teorico sia piuttosto diffuso, pochi hanno la sfrontatezza di dichiararlo apertamente. La maggior parte delle persone non vorrà ammettere di essersi accontentata del sentito dire: e dunque profonderà molto impegno a difendere strenuamente (quella che crede essere) la sua opinione. A questo fine esistono due opposte soluzioni dialettiche: il “permeismo” e il “tecnicismo”.
Il primo è l’atteggiamento tipico di quelli (i “permeisti”) che pretendono di poter dire la loro su qualsiasi ramo dello scibile umano, semplicemente premettendo un “per me…” o un “secondo me…” – come se affermare la libertà di espressione comportasse eludere il problema di quanto diversamente qualificati (e dunque diversamente rilevanti) siano i diversi pareri. Il secondo, invece, riguarda l’approccio di coloro (i “tecnicisti”) convinti che un dibattito serio sia accessibile solo allo specialista in grado di padroneggiare argomentazioni tecniche.
Di solito il permeista ha un basso livello di istruzione, cui pretende di supplire con l’esperienza personale; mentre il tecnicista tende ad avere un’istruzione superiore specializzata, che utilizza come strumento, o più spesso come modello di uno strumento, per la comprensione della realtà. Entrambi questi atteggiamenti, tuttavia, si distinguono perché funzionali all’obiettivo di permanere nel proprio parere iniziale. Il permeista può essere tranchant trincerandosi dietro al politically correct (“è la mia opinione”); per il tecnico c’è sempre un livello di complessità ulteriore da analizzare: e dunque le discussioni possono proseguire fin che si vuole, senza che si possa mai stabilire chi ha ragione.
In entrambi i casi, sia che siano costretti a ricorrere a questi surrogati di opinione, sia che rinuncino più o meno ostentatamente ad un’autonomia di pensiero, resta il fatto che i singoli individui non sono in condizione di alimentare una reazione al conformismo. Privi di identità culturale e della possibilità di (in)formarsi, essi perdono la capacità di confrontarsi e finiscono per trovare più conveniente attrezzarsi con qualche espediente retorico, per poi affidare i problemi reali alla narrazione del pensiero dominante.
Andrea Giannini