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Euro: il rischio recessione è concreto, urge strategia condivisa

Basterebbe un incidente qualsiasi per far schizzare i tassi di interesse dei Btp e a quel punto l'Italia dovrebbe chiedere aiuto alla Bce o al Fmi


28 novembre 2011Rubriche > "Polis" Critica Politica

EuropaQuesti giorni saranno cruciali per il destino dell’euro. O si trova una soluzione veloce per dare fiducia ai mercati garantendo un salvagente di qualche tipo per i debiti delle economie europee, oppure lo scenario sarà davvero fosco. C’è il concretissimo rischio che l’Europa esploda ricatapultandoci indietro di vent’anni e scaraventandoci in una recessione economica paurosa, che avrà ripercussioni planetarie.

In termini concreti questo potrebbe significare: chiusura del credito alle imprese, fallimento a catena delle aziende, disoccupazione a livelli record e misure draconiane di taglio alla spesa pubblica che deprimerebbero l’economia del nostro paese per molti anni. E’ questo che ci stiamo giocando forse già questa settimana.

Al punto in cui siamo potrebbe bastare un incidente qualsiasi (tipo un’asta di titoli di Stato andata male) per scatenare il panico e il fuggi-fuggi generale, con i tassi d’interesse dei Btp che schizzano alle stelle e il governo italiano che deve chiedere aiuto alla Bce o al Fmi per finanziarsi. In pratica, la bancarotta. E una volta crollata la terza economia europea, il destino del resto dell’Europa sarebbe segnato, perché l’eurozona perderebbe definitivamente credibilità.

Eppure, paradossalmente, proprio il fatto che lo scenario sia così concretamente catastrofico induce molti a pensare positivo. Infatti, dato che è difficile che qualcuno possa prevedere di guadagnarci qualcosa in tutto questo, è più realistico supporre che la pressione delle diplomazie internazionali riesca a vincere gli egoismi dei singoli Stati europei fino a produrre una strategia risolutiva condivisa da tutti.

Ormai persino gli Stati Uniti e la Cina, che da una caduta dell’euro rischierebbero fortissimi contraccolpi, dato che esportano tantissimo nell’eurozona, si sono mossi per fare pressioni sui partner del vecchio continente. Pechino, ad esempio, si è detta disponibile ad investire nelle infrastrutture europee: non significa che comprerà il debito dell’eurozona, ma è un segnale che gli Americani non hanno sottovalutato. Infatti Obama, da tempo preoccupato che i cinesi possano intervenire in Europa, comprandosi insieme con il debito anche una larga influenza sulla politica europea, si è addirittura spinto fino al punto di impicciarsi nelle discussioni tra Francia, Italia e Germania raccomandando caldamente gli eurobond (i famigerati titoli di Stato europei che, secondo alcuni, sarebbero al riparo dai timori di insolvenza e dagli attacchi speculativi).

Queste interferenze, paradossalmente, sono segnali positivi: sono indici del fatto che un crollo dell’eurozona significherebbe una recessione globale che nessuno vuole. E più ci avviciniamo al punto di non ritorno, più è facile che la soluzione salti fuori. Tutto questo ricorda un po’ uno di quei “giochi” che facevano i teppisti degli anni ’80: rubare una macchina, lanciarsi giù da una scarpata a motore spento e fare a gara a chi scende dall’auto per ultimo. Più si avvicina il punto dell’impatto, più è probabile che uno dei “giocatori” apra la portiera e si catapulti fuori. Ma il rischio che si salti troppo tardi e che ci scappi il morto è sempre presente.

Speriamo ovviamente che ciò non avvenga. Ma se per caso dovessimo riuscire a venirne fuori, non dovremo commettere l’errore di pensare di avere risolto tutti i nostri problemi. Non esiste una soluzione immediata e definitiva: esistono provvedimenti che possono dare ossigeno e “comprare” dai mercati il tempo che ci serve per intraprendere cambiamenti più radicali. Molti economisti dicono che il problema dell’euro è quello di una moneta unica che non ha una politica monetaria unica. O meglio: in teoria ce l’avrebbe, ma in pratica i veti incrociati dei singoli Stati fanno fallire gli accordi. Il che è più o meno quello che sta succedendo in questi giorni, con la Germania che (non proprio senza motivo, in verità) si oppone a quelle soluzioni che gli altri sembrerebbero anche disposti a condividere.

La questione appare strettamente economica, ma in realtà è molto più ampia. Il punto è politico. Fare un’unione di mercati con una moneta unica è stato relativamente facile, perché era conveniente un po’ per tutti. I governi non potevano più svalutare la moneta (come ha fatto l’Italia fino agli anni ’90), ma comunque si agganciavano ad un mercato comune forte e prospero, in cui le importazioni e le esportazioni erano agevolate e l’economia ne poteva beneficiare largamente. Ma tutto il resto è passato in secondo piano.

Oggi dovremmo aprire un largo dibattito su cos’è l’integrazione europea, per non buttar via quello che abbiamo costruito fin qui. In passato non siamo riusciti a fare una politica estera condivisa nemmeno nelle linee generali: un campanello d’allarme sottovalutato semplicemente perché, detto francamente, l’economia andava bene e a tutti questo bastava. Quasi che i tanti secoli di guerre che tutti gli Stati europei avevano attraversato per giungere ad un’unità politica e territoriale non avessero insegnato che il fatto di essere uniti e di sapere rispondere insieme alle difficoltà è un risultato politico nel contempo indispensabile e straordinario, che si raggiunge solo faticando molto. Invece, una costituzione che mette al centro il mercato comune e non i diritti e l’unione politica, alla lunga è controproducente.

Oggi l’Europa non parla ad una voce perché è divisa: ha un mercato e un’economia comuni da proteggere, ma non ha una politica comune per farlo. Questo è il problema. Ovvio che non si possa pensare di sopravvivere rimanendo così come siamo: o si rimette in moto una politica di unione confederale, a scapito di pezzi di sovranità dei singoli Stati, oppure si muore. Ecco perché questa tempesta economica e finanziaria, oltre che un rischio enorme, può essere anche una grande occasione. Sempre che vogliamo dimostrare di avere ancora un futuro, come Europei.

Andrea Giannini


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