Un manipolo di valorosi (NCD) a sostegno della stabilità di governo, il grosso delle truppe (FI) a difesa del vecchio condottiero. Ma a un livello più profondo di analisi non si può ignorare la rottura storica che sta interessando il fronte liberista internazionale
«IL PDL è morto: lunga vita al PDL!». Si potrebbe sintetizzare così il senso della scissione nel centro-destra tra “alfaniani” e “berlusconiani”. Il partito si divide oggi per avere una speranza di rinascere domani. Si, perché le due forze uscenti, Nuovo Centro Destra (NCD) e Forza Italia (FI), nonostante le inevitabili scaramucce, stanno in realtà lavorando di concerto: e, pur battendo strade diverse, promettono di ritrovarsi non appena si capirà quale via li attende nel futuro.
Ciò non significa che sia stata tutta una messinscena, una farsa recitata da guitti consumati; significa solo che, a fronte della difficilissima fase attraversata dalla politica italiana, il centro-destra ha saputo trovare un suo equilibrio. E’ un equilibrio precario – non c’è dubbio –, ma per il momento serve ad accontentare un po’ tutti.
Anche ad un primo livello di analisi, infatti, appare chiaro che la scelta di dividersi è stata imposta da due esigenze opposte. Da un lato in buona parte del partito c’è la consapevolezza che, nel momento esatto in cui toglie la fiducia al governo Letta, Berlusconi diventa il capro espiatorio definitivo: ogni male dell’umanità passato, presente e futuro, ogni crisi economica e sociale gli potrà essere agevolmente imputata, e gli altri partiti potranno dedicarsi a un comodo scaricabarile. Pertanto, che piaccia o no, bisogna cedere al mantra della stabilità e, per quanto possibile, bisogna tenere in piedi Letta.
Dall’altro lato, però, il Cavaliere ha necessità di tenere il fiato sul collo del governo per la questione della sua impunità. Letta e Napolitano sperano che, invocando calma e pazienza, si possa guadagnare un po’ di tempo: ma Berlusconi di tempo non ne ha; il che lo costringe, anzi, ad alzare costantemente il tiro della minaccia. Non solo. I suoi sanno bene che tutta la baracca sta in piedi solo grazie al carisma del leader: e questo carisma, che già ha subito il duro colpo della sconfitta sulla sfiducia solo un paio di mesi fa, rischia di appannarsi ancora di più, se rimane all’ombra della politica suicida del PD e non ascolta i richiami di sofferenza che vengono dall’elettorato.
Dunque la soluzione ideale, a ben vedere, è proprio quella di lasciare un manipolo di valorosi (NCD) a sostegno della stabilità di governo, richiamando il grosso delle truppe cammellate (FI) a difesa del vecchio condottiero in pericolo. Un domani, con il solito voltafaccia, ci si potrà di nuovo riunire sul fronte che sarà risultato vincente.
Tuttavia esiste anche un livello più profondo di analisi, che proietta le beghe della politica italiana sullo sfondo di una dinamica globale ben più complessa. In questo senso la frattura in seno al PDL non è più un fenomeno isolato, dovuto unicamente alle meschinità del nostro provincialismo; ma si rivela lo specchio di una rottura storica che sta interessando il fronte liberista internazionale.
Questa ideologia del “meno Stato, più mercato”, un tempo molto compatta, è oggi attraversata da una faglia che si alimenta dei contrasti tra il mondo industriale-finanziario internazionale e il tessuto produttivo delle economie nazionali. Lungo questa linea di frattura si è spezzato anche il centro-destra italiano, creando così due nuove coalizioni di interessi distinti.
Il Cavaliere sarà appannato quanto si vuole, ma è sempre stato, per gli ammiratori quanto per i detrattori, il campione di una certa media imprenditoria italiana, operante soprattutto nell’edilizia e nel manifatturiero. Questa parte della società, che a suo tempo aveva avversato la sindacalizzazione, attivamente chiesto l’abbassamento di tasse e salari, e salutato con entusiasmo la “discesa in campo” del suo beniamino, è stata poi colpita con molta durezza dalla crisi economica: e oggi è sempre più insofferente per la lentezza con cui si procede al raggiustamento (ammesso che ce ne sia uno all’orizzonte). Sta quindi emergendo l’idea che serva una drastica inversione di rotta.
Traversie simili hanno subito anche le grandi aziende ex-statali o a partecipazione statale: velocemente privatizzate a cavallo tra anni ’80 e anni ’90, come imponeva il credo liberista, sono oggi più deboli e esposte alla spietata concorrenza estera. Ma in questo caso i “capitani coraggiosi” che le avevano rilevate si sono consolati con gli ingenti profitti sottratti nel corso degli anni. Ecco perché questa parte, così come tutto il resto della grande imprenditoria italiana, anche “sana”, potendo facilmente delocalizzare ed essendo meno esposta alla crisi dei consumi interni, ha tutto sommato interesse a mantenere questo assetto.
Per rispondere a questa esigenza si è venuto a creare, attorno ad Alfano e Cicchitto, un fronte vicino alla finanza cattolica e sensibile ai richiami alla stabilità provenienti tanto dai centri bancari quanto dai partner internazionali (tutti ugualmente preoccupati di congelare la situazione nell’attesa di capire quale strategia adottare).
Berlusconiani e alfaniani, dunque, riflettono il nuovo contrasto tra imprenditoria locale e capitalismo internazionale dopo anni passati a fare fronte comune contro la burocrazia e i sindacati. Questo esito era largamente prevedibile: anzi, si è reso possibile proprio perché il liberalismo aveva vinto, imponendo la propria ricetta intrinsecamente instabile.
Come avevo già scritto, infatti, il gioco funziona solo se si rimane a livello di singolo paese, perché quando una certa area esce perdente dalla competizione, i fattori produttivi si possono spostare nell’area vincente (come è successo tra il nostro meridione e il settentrione). Su scala globale invece le cose non vanno così, perché quando a rischiare di fallire sono gli Stati sovrani, allora non è più tanto facile assorbire le tensioni che si creano (i popoli non si spostano in massa da una nazione all’altra: a meno che non sia per andare in guerra…). Quando si entra in questa spirale, dunque, gli interessi delle economie nazionali cominciano irrimediabilmente a divergere da quelli, tipicamente, delle multinazionali e della grande finanza: e il sistema va in crisi.
Insomma, il liberismo semplicemente non funziona. Ma in fondo lo abbiamo sempre saputo che non serviva per far funzionare le cose: ma serviva a giustificare l’arricchimento di alcuni e l’impoverimento di altri.
Andrea Giannini