Destra e sinistra sono idee diverse di concepire la società messe a confronto: quello tra moderati e populisti, invece, è un dibattito inesistente che serve solo a introdurre subdolamente il pensiero unico
Non so se ve ne siete accorti, ma nonostante le imminenti elezioni i termini “destra” e “sinistra” sono praticamente scomparsi dal dibattito politico. Non sarà una sorpresa per chi fosse convinto che siano idee morte ormai da diverso tempo: ma io non sono fra i sostenitori di questa tesi. Penso invece che queste categorie, almeno in termini ideologici astratti, abbiano ancora un peso attualissimo: è (o dovrebbe essere) di destra chi si riconosce nell’ordine, nella legalità, nel tentativo di preservare i valori preesistenti, in un’interpretazione minimale del ruolo dello Stato e in una visione che assegna una funzione sociale positiva alla libera iniziativa individuale; al contrario è (o dovrebbe essere) di sinistra chi si riconosce nella cultura, nell’associazionismo spontaneo, nelle idee nuove, nell’impatto positivo della spesa pubblica e nell’uguaglianza sociale.
Come si vede, sono punti di vista che occasionalmente possono anche convergere, ma che certo danno esiti ben diversi quando si prende in considerazione l’attualità politica, sociale, economica, fiscale, ambientale, religiosa, e via dicendo. Pertanto, anche se non si tratta sicuramente di una inderogabile legge di natura, bisogna ammettere che la distinzione ha quantomeno il pregio di definire un orizzonte di valori concretamente individuabili; un orizzonte tale, anzi, da garantire il senso stesso alla dialettica politica. Esistono partiti, infatti, ed esiste un dibattito politico, se (e solo se) è lecito supporre almeno due ordini distinti e contrapposti di idee, principi, priorità: altrimenti non si capisce bene che senso abbia discutere.
Eppure oggigiorno la grande narrazione politica non distingue più i partiti in base alla loro collocazione a destra o a sinistra; e tanto meno per la loro ispirazione, sia essa cattolica, riformista, liberale, comunista o fascista. Oramai il mondo si divide in “moderati” e “populisti”: ma cosa designino questi termini – confesso con franchezza – si fatica ad afferrarlo.
Cos’è un “moderato”? Per la lingua italiana è “moderata” una persona lontana dagli eccessi, che cerca una misura appropriata: un termine, quindi, positivo, che tuttavia di concreto esprime poco. Viene in mente – se mi passate un paragone filosofico – l’idea della virtù che aveva Aristotele, secondo il quale l’uomo virtuoso sarebbe colui che si pone nel giusto mezzo (cioè sono coraggioso, se non sono né temerario né codardo): tutto molto bello – ricordo diceva il mio professore di filosofia politica, il compianto Flavio Baroncelli – ma anche assolutamente scontato.
E’ tautologico che chi fa troppo e chi fa poco sbagli, essendo che i termini della lingua italiana “troppo” e “poco” esprimono appunto l’idea di mancare, per eccesso o per difetto, la misura giusta. E’ come dire “è bravo chi fa bene” oppure “è disonesto chi si comporta disonestamente”: sono entrambe frasi sempre vere da un punto di vista logico, ma da un punto di vista pratico non dicono nulla sulla onestà o disonestà dei comportamenti concreti. Allo stesso modo, a prendere letteralmente una persona che si definisce “moderata”, dovremmo supporre anche che sia moderatamente democratica, moderatamente a favore dei diritti dell’uomo, moderatamente contro la stupro e moderatamente contro l’omicidio; oppure che si nutra ma senza riempirsi la pancia, che si diverta ma senza morire dalle risate e che faccia anche l’amore ma senza strafare. E’ evidente, in buona sostanza, che la parola “moderato”, se non è applicata ad un contesto, non significa proprio nulla.
Al contrario il termine “populista” ha un’accezione certamente negativa. Generalmente indica chi si appella al popolo ma in modo ruffiano, sfruttandone le pulsioni meno razionali o illudendolo con promesse che non si possono mantenere. Non si capisce bene, però, perché il termine “populista” debba essere preso come opposto di “moderato”.
Ma se passiamo all’uso della terminologia sul piano politico, tutto diventa improvvisamente chiaro. Negli anni il termine “moderato” ha assunto connotazione centrista, attirando a sé la destra (cosiddetta) “liberale” ed esercitando un grosso fascino anche sulla sinistra (cosiddetta) “riformista”: in soldoni PD e PDL si sono messi a fare comunella con l’UDC (non sfuggirà che stiamo parlando della maggioranza che ha votato tutti i provvedimenti del governo Monti). Queste forze politiche, e l’opinione pubblica che le sostiene, hanno avuto storicamente un rapporto contrastato con gli amici e rivali alle rispettive estremità, vale a dire Lega Nord e Alleanza Nazionale da una parte, e Rifondazione Comunista e Italia Dei Valori dall’altra. Erano questi i famosi “estremisti”, o “radicali”: due appellativi che venivano affibbiati, per lo meno, con un minimo di logica, visto che in effetti nel linguaggio corrente esprimono il principio esattamente contrario a quello della moderazione. Dato che poi dentro al calderone degli “estremisti” rientravano in effetti secessionisti, ex-comunisti ed ex-fascisti, la storia era più semplice da credere: i “moderati” sono per il dialogo, gli “estremisti” per la purezza ideologica, per dividere il paese con le barricate ed impedire la governabilità. Col passare del tempo, però, lo scenario dell’area “radicale” ha cominciato a mutare, fino ad arrivare oggi a comprendere Lega Nord, Italia Dei Valori, Movimento 5 Stelle e (se non si fa fagocitare dal PD) Sinistra Ecologia e Libertà di Vendola. Questo ensemble, affiancato da una vivace parte dell’opinione pubblica, non è più definibile “estremista”, dato che non ha quasi più legami con le ideologie del passato ed insiste molto sul rispetto della democrazia e della Costituzione (con la sola eccezione forse della Lega).
Occorreva quindi – ecco il punto – trovare un altro modo per squalificare questi dissenzienti: è per questo che è stato tirato fuori dal cilindro un nuovo appellativo. Chi si richiama alla gente e all’applicazione integrale delle regole non è un semplice e ortodosso democratico, ma diventa un volgare e demagogico “populista”. Il cuore di questa vuota distinzione sta tutto qui: la parte che detiene il controllo del gioco deve accreditarsi come competente, responsabile e credibile, negando alla radice la possibilità di soluzioni politiche alternative.
Berlusconi e Vendola, che per vari motivi oscillano un po’ a metà tra un fronte e l’altro, saranno promossi a “moderati” quanto meno si metteranno ad ostacolare l’aggregazione di un polo centrale costituito dalle forze dominanti. Non farsi ingannare dai nomi è fondamentale: quello che per alcuni è “essere moderati”, per altri è “essere senza idee”, “piegarsi al compromesso”, “inciuciare”, “paraculismo”.
Destra e sinistra sono idee diverse di concepire la società messe a confronto: quello tra moderati e populisti, invece, è un dibattito inesistente che serve solo a introdurre subdolamente il pensiero unico. La realtà, d’altronde, l’abbiamo sotto gli occhi ed è avviata proprio su questo percorso: se hanno tutti la medesima visione su come organizzare la società, allora ci si può confrontare solo sugli aspetti tecnici (che attengono, però, guarda caso più al sapere scientifico degli specialisti che al consenso democratico della gente); mentre il dissenso diventa giocoforza un attentato ai fondamentali del vivere civile. E quindi, se supera la soglia di guardia, deve essere represso.
Andrea Giannini
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