Il giornalista della redazione genovese di Repubblica è l'autore del libro inchiesta che mette in luce i rapporti ombrosi fra politica e polizia, dove la parola d'ordine è "potere". L'intervista integrale è pubblicata sul numero 57 di Era Superba
È di poco tempo fa la notizia dell’assoluzione degli imputati per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta a Roma durante la custodia cautelare il 22 ottobre del 2009. La fine di Stefano, così come quelle di Federico Aldrovandi, di Giuseppe Uva, di Michele Ferulli portano con sé tante domande a cui la giustizia in questi anni ha faticato a dare una risposta.
Ed è partendo da questi interrogativi che abbiamo incontrato Marco Preve, giornalista di Repubblica e autore de “Il Partito della polizia” libro inchiesta pubblicato da Chiarelettere.
Partendo dalle vicende della scuola Diaz e dai giorni convulsi del G8 genovese, Preve contestualizza l’operato della polizia inserendo i singoli fatto in un quadro più ampio. Il waterboarding e le torture subite negli anni ‘80 dai brigatisti collegati al sequestro Dozier; le false molotov della Diaz; i criteri nebulosi con cui la DIA scelse i suoi uomini di punta negli anni d’oro della lotta alla mafia; e infine le morti di Federico, Stefano, Giuseppe, Michele: episodi apparentemente lontani ma legati da un filo rosso che ci racconta una storia di impunità e omertà il cui protagonista indiscusso è il potere.
Tra le pagine del tuo libro ripercorriamo la genesi e lo sviluppo del partito della polizia, un gruppo di potere che negli ultimi decenni ha tenuto saldamente in mano la pubblica sicurezza del nostro paese. Quello che emerge è un mondo caratterizzato da omertà e logiche clientelari al pari della peggiore politica. Come è nata questa inchiesta?
«Nasce dalla mia esperienza di cronista relativa alle vicende del G8 del 2001. Nel libro parlo soprattutto dell’inchiesta giudiziaria e delle vicende politiche che l’hanno intrecciata. Credo che quanto accaduto nell’inchiesta Diaz sia stato un banco di prova unico per la democrazia in Italia. I vertici della polizia italiana, quelli per intenderci che hanno combattuto la mafia, sono stati accusati di aver falsificato prove e intralciato l’accertamento degli atti come i peggiori sbirri della cinematografia americana. Ancor più delle botte, la costruzione di false prove è il massimo tradimento per un poliziotto. E seguendo l’inchiesta ho anche potuto vedere il timore, e in alcuni casi il clima di complicità che esisteva tra molti politici di destra e sinistra con la polizia di De Gennaro. Alcuni dei personaggi principali di questo scenario li ho ritrovati in altre vicende italiane spesso legate a periodi oscuri della nostra storia. E questo è uno dei fili che ho seguito nel libro: storie, nomi, politica, gestione di fondi, segreti inconfessabili che uniscono».
Nel 1985 a Palermo di fronte alla morte di Salvatore Marino, fermato per sospetta complicità nell’omicidio del commissario Beppe Montana, Oscar Luigi Scalfaro, allora Ministro dell’Interno, rimosse immediatamente i responsabili del fermo che vennero indagati per omicidio colposo e motivando la sua decisione disse “Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia ed è uscito morto”. Perché la politica non riesce a fare sua questa fermezza e questa verità tanto elementare?
«La copertura della politica nei confronti della polizia non è cosa solo italiana. Ma quando si arriva ad un punto in cui la verità emerge dai fatti ancor prima che dai processi, nei paesi civili la politica si fa da parte. Da noi questo non avviene perchè la polizia è permeata dalla politica, le è strettamente legata in un rapporto malsano, che non premia la meritocrazia ma l’appartenenza e i rapporti clientelari. Nel libro lo racconta bene il criminologo Carrer, collaboratore delle forze dell’ordine, e lo affermano gli stessi funzionari di polizia, i commissari Montalbano d’Italia, in un questionario scottante del 2007 a cui è stata data scarsa pubblicità dagli stessi committenti, l’Associazione Funzionari di polizia».
Prendiamo due casi diversi tra loro. La “macelleria messicana” della scuola Diaz e la morte di Federico Aldrovandi. Al di là della violenza ciò che è altrettanto inquietante è la dimestichezza delle forze dell’ordine con il falso e con l’inquinamento della verità. Un atteggiamento che sembra appartenere tanto alle alte sfere quanto alle figure più operative. E’ un problema di valori, di formazione, di metodo?
«Deve essere chiara una cosa: è il vertice che deve dare l’esempio. Torno ancora al caso Diaz. Che insegnamento possono trarre gli agenti di volante da un ministero, una politica un sistema che per anni ha premiato a livello di carriera i dirigenti indagati e già condannati per la Diaz? Che non sempre chi sbaglia paga. Comportamenti illeciti al vertice e alla base fanno comodo uno all’altro, consentono a entrambi di sopravvivere. Con che autorevolezza i vertici possono applicare la linea dura nei confronti della truppa se i funzionari coinvolti in quella vergognosa vicenda del caso Shalabayeva sono stati promossi? Ma ancor prima di loro in quella vicenda è stato salvato il ministro Alfano, e allora si torna a monte, alla responsabilità della politica».
Chiara Barbieri
L’intervista integrale su Era Superba #57