Castelli abbandona lo studio televisivo di "Servizio Pubblico" dopo essere stato attaccato verbalmente da un operaio sardo
Ritorniamo ancora a parlare di Servizio Pubblico, la trasmissione di Santoro, perché giovedì sera è successo qualcosa di rilevante da un punto di vista simbolico. «Non mi devi rompere i coglioni!», questa la frase liberatoria di un operaio sardo che ha costretto Roberto Castelli, esponente della Lega Nord, già ministro della giustizia, senatore e viceministro uscente alle infrastrutture, ad abbandonare lo studio televisivo. E diciamolo francamente: era tosto l’ora.
Non c’è da gioire per il fatto in sé che un dibattito pubblico sia giunto a un punto così teso, perché di principio vorremmo tutti che l’occasione fosse sfruttata piuttosto per fare una riflessione critica seria e pacata. Ma data la situazione di un paese in difficoltà che viene messo a confronto con chi lo ha governato per anni, lo sfogo dell’operaio sardo è stato quanto di più onesto, genuino e sano ci si potesse augurare. Se l’espressione è stata un po’ “colorita”, ciò è senza dubbio giustificato dalla frustrazione, dopo anni in cui lo sforzo di mantenere un certo contegno e un certo modo di interloquire c’era stato. Persino nelle trasmissioni di Santoro, a cui piace molto fare sentire «l’urlo della piazza», nessun operaio, nessun cassaintegrato, nessun disoccupato si era mai lasciato andare in TV ad un’espressione così forte contro un politico così importante.
Giovedì sera invece il tappo è finalmente saltato. Se la settimana scorsa ho scritto che non aveva senso invitare in trasmissione i rappresentanti di questa classe politica, è proprio perché con costoro c’è poco da dialogare. E in particolare con quelli più agguerriti e sfacciati, come Castelli, l’unica risposta non può essere che quella schietta e irriverente data proprio dall’operaio sardo.
Con questo non si vuole dire che la gente comune in questa situazione sia la vittima esente da colpe, mentre la politica è il carnefice. Sarebbe una concezione decisamente populista. Questi politici sono stati votati e sostenuti per anni dai Sardi, dai Siciliani e dagli Italiani tutti. Quindi i primi a dover fare autocritica siamo noi stessi, se non vogliamo ritrovarci a far uscire un problema dalla porta solo per farne entrare un altro dalla finestra. Ma se c’è una categoria che proprio non può venire a darci lezioni è quella dei politici che ci hanno governato fino a ieri.
Ecco il motivo per cui le arroganti rimostranze, le spudorate riflessioni e i volgari attacchi che Castelli ha messo in scena giovedì sera hanno davvero meritato un tale epilogo. Castelli in particolare è stato al governo per otto degli ultimi dieci anni, occupando posizioni di primo piano e mettendo la sua firma in calce a molte contestatissime leggi. Se l’economia, durante questi anni, anziché migliorare è peggiorata sempre di più, sarà anche un po’ colpa di Castelli o no? Non è solo colpa sua, di Berlusconi e del governo precedente, l’abbiamo scritto e ripetuto più volte: ma ce ne sarà abbastanza perché si dica che lui e i suoi alleati hanno fallito e quindi si levino di torno, come succede in tutte le democrazie del mondo? E invece, come se niente fosse successo, Castelli si è presentato in trasmissione lanciando strampalate accuse a destra e a manca.
Di chi sarebbero le responsabilità, se rischiamo di far la fine della Grecia? Dei «tecnocrati» come Monti che hanno disegnato e costruito la “globalizzazione” e di Ciampi e Prodi che ci hanno portato nell’euro, una moneta che non si può svalutare. Ora, a parte il fatto che la globalità è un dato, uno scenario che nessuno ha scientemente costruito, quella a cui fa riferimento Castelli, una globalizzazione senza regole e senza autorità, dove attori transnazionali fanno il bello e il cattivo tempo in barba al poter di azione degli Stati nazionali, è identificabile piuttosto con quella deregulation tanto cara ai governi di destra.
Chi ha voluto una finanza globale senza regole? Le basi teoriche le ha date la scuola di Chicago, ma sul piano politico il principale referente è senza dubbio «l’amico George», quel Bush junior presidente degli Stati Uniti così caro al governo Berlusconi, che Castelli ha sorretto per tanti anni. E’ stato Bush a mettere Alan Greenspane, il campione del laissez-faire finanziario, alla guida della Federal Reserve, mentre Castelli e gli altri leghisti sostenevano gli USA nella guerra in Iraq per via di quelle armi di distruzione di massa mai trovate, che, tanto per dirne una, in Inghilterra hanno rovinato la carriera politica a Tony Blair.
Oggi, dopo dieci anni di oblio, Castelli ricorda improvvisamente di essere stato in gioventù anti-imperialista e anti-capitalista. Ma ancora più sfacciata è la critica all’euro. E’ pur vero che l’euro è una moneta strana, dato che incorpora economie molto diverse e che non può essere svalutata per abbassare i tassi; ed è anche vero che la Lega delle origini era contro l’ingresso nell’euro. Ma lo era per una balorda concezione del localismo come risposta alla globalizzazione, che prevede la chiusura delle frontiere e l’adozione di una moneta padana: una visione bislacca che ho già criticato in passato e che non è affatto una risposta ai problemi della modernità, ma soltanto un cieco rifiuto a voler guardare negli occhi la realtà rifugiandosi nel passato.
E poi, se l’euro oggi è un problema, questo lo si deve al fatto che la nostra economia è debole e drogata, con un debito e una spesa pubblica elevati, che non può reggere gli standard del nord Europa. Ma se, negli anni in cui Castelli sedeva a Roma, la spesa pubblica fosse scesa, i conti fossero stati tenuti in ordine, il debito fosse diminuito e l’economia fosse cresciuta, saremmo sotto l’attacco della speculazione internazionale? Probabilmente ne saremmo al riparo esattamente come lo sono la Finlandia e la Germania, e staremmo a discutere di come risolvere i problemi del debito di Grecia e Portogallo, ma non del nostro: cioè nessun governo Monti, nessuna manovra lacrime e sangue. E invece sotto Berlusconi il debito pubblico è aumentato. Anche perché la spesa pubblica è da sempre gestita con finalità clientelari. Un esempio? Nel sud Italia alla vigila delle elezioni esplodono le assunzioni nel settore pubblico.
Ora, di fronte ad un pastore o ad un agricoltore che si lamentano per la crisi, con che faccia Castelli può andare a rinfacciare a questi lavoratori l’elevato numero di dipendenti pubblici delle loro regioni, quasi li avessero assunti loro? Ecco perché è giusto rispondere con un «Non mi devi rompere i coglioni!» ad un politico che, anziché nascondersi o almeno giustificarsi, cerca la ribalta per attaccare. Con chi non ha pudore e ha faccia tosta, nessuna discussione è utile, perché cercherà di difendere l’indifendibile fino alla sfinimento. La cosa migliore, quindi, è lasciarlo perdere. Poi toccherà a noi fare ulteriori riflessioni e chiederci come mai tutta la classe politica, non solo Castelli, si siano rivelati tanto inadeguati. Toccherà a noi guardarci negli occhi e chiederci: dove abbiamo sbagliato?
Andrea Giannini