A ridosso del cimitero si trova un piccolo parco circondato dal mare che sfocia nella parte finale della passeggiata nascosta tra i monti, da li si può vedere Corniglia inerpicata come una fortezza e le luci di Vernazza e Monterosso brillare come diamanti all’imbrunire
Enzo ha 85 anni, le sue mani sono radici appena estratte dalla terra, nei suoi occhi semichiusi dal vento si legge una vita passata ad ascoltare il soffio del mare riecheggiare ancora come l’eco di una conchiglia appena raccolta. È seduto su una sedia in vimini nella penombra di una tersa mattina di dicembre con la coperta di lana sulle gambe ad osservare il solito paesaggio, sopra di lui una fotografia di Papa Luciani distorta dagli effluvi della caffettiera che dispensa in aria il suo inconfondibile aroma.
La moglie gli lancia un occhiata riguardosa, poi si volta a versare il caffè, il silenzio è rotto solo dal gorgoglio del liquido che riempie la tazzina in ceramica di maiolica. Fernanda è una donna di poche parole, si dice non sia mai uscita dal paese, ma in quella giornata di festa i suoi capelli sono cotonati e colorati, la sua tinta ricorda le cortecce degli alberi spogli in autunno, le dita affusolate disegnano un’antica e inespressa eleganza adornate della sola fede nuziale e un anello di bigiotteria calzato per l’occasione con incastonata una pietra verde.
Un gabbiano che levitava davanti alla finestra attirava l’attenzione di Enzo, lui si volta, mi guarda e sorseggia le ultime gocce di caffè, posa la tazzina e rivolge lo sguardo a cercare quel gabbiano ormai volato lontano. «Manarola? bella per i turisti, per me è diventata solo un saliscendi faticoso». Con queste parole cela l’amore profondo per la sua terra, quasi un rimprovero per tutte quelle scale, un tempo leali e oggi così tortuose che ne impediscono la quotidianità.
Tuttavia esiste una forza misteriosa che lo spinge ogni giorno nel suo orto in cima al paese, dove i limoni abbracciano la vite e il mare si sposa alla terra intrisa di sale.
Lo scoppiettio delle foglie che ardono e il profumo del pesce appena pescato, il tuono delle mareggiate e il silenzio ovattato delle rare nevicate sono linfa vitale di un uomo che conosce il suo destino e che non rimpiange nulla se non qualche viaggio e la rinuncia a qualche bicchiere in più del suo amato limoncino. Fernanda lo ascolta come fosse la prima volta e con rispetto sorride fiera alla sua richiesta, si alza per dovere dalla sedia e prende una bottiglia dalla credenza. «Questo è fatto da noi, con i nostri limoni, tutta roba naturale», dice versando nei calici il liquido dal colore ingannevole ma dal gusto inconfondibile del limoncino fatto in casa.
Arianna intanto ascoltava con quel luccichio agli occhi le parole che le riportano alla mente i ricordi indelebili di quando era bambina, di quel luogo rimasto tale nel tempo, come una fotografia in bianco e nero restaurata di colori accesi, il verde delle colline, l’azzurro del cielo e il blu del mare, il giallo delle foglie e il nero della terra si distribuiscono nei suoi pensieri come la tavolozza di un pittore a olio. Giunti ai saluti Fernanda, scrollatasi di dosso la timidezza tipica ligure, mi stringe la mano e mi bacia inaspettatamente sulle guance, Enzo ci augura di tornare presto, lui ci aspetta, non per vecchiaia e tantomeno per stanchezza, ma perché quello è il suo posto.
Il sole si sa scalda gli animi, ma non solo, nonostante la leggera brezza invernale ci siamo seduti su uno scoglio ad assorbire quei piacevoli raggi penetrare fino alle ossa per poi sopire in un onirico e breve sogno. Arianna mi svegliò con cautela, Morfeo cullava il mio sonno seguendo il sinuoso scrosciare delle onde e il marinaio del vaporetto suonò la sveglia con la sirena, mi sono destato da quel torpore stropicciando gli occhi e sbadigliando con educazione il mio sguardo si rivolse in alto.
Stavo leggendo una scritta sulla parete esterna del cimitero a picco sul mare, erano i versi finali della poesia “Liguria” di Vincenzo Cardarelli, la maestra delle elementari me l’aveva fatta recitare davanti a tutta la classe, ricordo che sarei sprofondato in quel momento ma ne uscii a testa alta. Quelle cinque righe mi hanno riportato nel passato tra i profumi della gomma da cancellare e degli autunni umidi che non ci sono più, il moccio al naso dei miei compagni, la lancetta dei minuti che sembrava ferma e quel ramo d’albero fuori dalla finestra dove si posavano colombi e piccioni che della pur loro breve vita ho sempre invidiato la libertà assoluta che la rende infinita.
A ridosso del cimitero si trova un piccolo parco circondato dal mare che sfocia nella parte finale della passeggiata nascosta tra i monti, da li si può vedere Corniglia inerpicata come una fortezza e le luci di Vernazza e Monterosso brillare come diamanti all’imbrunire.
Rientrati in paese ci sediamo al bar del famoso ristorante Aristide per una bevanda calda, il sole era sceso e la temperatura con lui, nonostante l’aspetto primaverile eravamo pur sempre sotto le grinfie del generale inverno. Nell’istante in cui il cameriere adagia sul tavolo le tazze per il thè, uno scampanellio annuncia l’apertura della porta varcata da un uomo anziano, con fare ossequioso si toglie il cappello, salutato con affetto dai tutti i presenti.
I suoi occhi erano visibilmente eccitati dal calore e dalla tensione di una giornata per lui importante, nel tardo pomeriggio, quando il sole sarebbe calato come un arancia dietro la linea dell’orizzonte, i fuochi d’artificio avrebbero annunciato l’accensione del famoso presepe di Manarola da lui ideato.
Mario Andreoli ha superato gli ottant’anni da un pezzo e dal 1976 dedica anima e corpo a questa unica e spettacolare opera che si estende sulla collina a ovest del paese, oltre trecento personaggi illuminati con oltre 8 km di cavi elettrici sostituiti nel tempo da un ecologico impianto fotovoltaico.
Con il passare degli anni è riuscito a coprire tutto il monte realizzando il suo sogno di creare uno dei presepi più grandi e belli del mondo. La sua vigorosa stretta di mano è stata per me un monito da seguire, non esiste età se si è dotati di voglia e determinazione. Mario saluta tutti “Ora devo andare”, con un gesto degno di un attore di Hollywood prende il cappello e si avvia su per la salita, la più dura dell’anno.
Si inizia a respirare aria di festa a Manarola, la banda suona “When the saints go marching in” camminando lungo la via principale profumata di frittelle e polenta , tra la folla un bambino piangeva con un occhio rivolto al palloncino volato via e una signora troppo truccata si specchiava con indosso uno degli orpelli in vendita nelle bancarelle, alcuni turisti acquistavano miele e prodotti tipici mentre dalla stazione un’orda di persone entrava in paese muovendosi come una mandria di bufali.
Ci facciamo largo tra la gente assiepata sulle irregolari stradine in ardesia, il nostro appartamento sorge su un punto privilegiato per ammirare il presepe, abbiamo approfittato seduti comodamente sul terrazzino dal quale potevamo godere una vista meravigliosa come dal balcone di un teatro. Le luci del paese si sono spente senza preavviso lasciando illuminate le sole statuine sovrastate dai fuochi d’artificio rimbombanti, il mio cuore accelerava con loro fino ad eccitarsi come in poche altre occasioni in vita mia.
La sera passeggiando tra le barche e le reti dei pescatori per smaltire gli spaghetti ai frutti di mare del ristorante Billy, sentiamo le corde di una chitarra provenire da un locale lungo la via che conduce al mare ormai priva di turisti, era la cantina dello zio bramante dove tre musicisti deliziavano i clienti con splendide cover. Il bassista di colore giocava con le dita come i migliori bluesman americani, il cantante dalla voce un po’ roca ma grintosa ricordava vagamente Lou Reed, era affiancato da un ragazzo che suonava l’armonica divinamente, ad ogni brano prendeva un’armonica diversa dalla sua valigetta.
Si dice che le persone care siano presenti anche quando non ci sono più lasciando lungo la tua strada segnali anche oltre il cammino della vita oppure ti hanno insegnato in vita così tante cose da sentire la loro presenza attraverso i dettagli quotidiani. Nell’istante in cui il Re minore si è succeduto al Do ho capito che si trattava di “I dont’ want to talk about it” tanto cara a mio padre, camuffando con un sorso di birra l’emozione, mi sono accorto che una lacrima era fuggita, aggrappandosi su una piega del mio sorriso.
Diego Arbore