In Italia non abbiamo più avuto una destra e una sinistra, ma di fatto due destre: due forze politiche che si sono divise solo su Berlusconi e così è nato l'equivoco che destra e sinistra non esistessero più. È un problema di sovranità
L’ultimo editoriale di Roberto Napoletano, direttore del Il Sole 24 Ore, è la quintessenza di quello a cui si è ridotto il mondo dell’informazione. L’articolo prende spunto da un precedente invito rivolto a Letta di vincolare «in modo automatico le risorse derivanti da una buona spending review e dalla lotta all’evasione a favore della riduzione del cuneo fiscale». Roba già vista, si capisce. Le richieste/appelli alla classe politica sono un genere letterario molto in voga (sempre rigorosamente declinato al congiuntivo: “si faccia”, “si provveda”, “si pensi”) e quasi sempre battono su una nota fissa: ridurre gli sprechi del sistema per alleggerire il peso delle tasse.
Tuttavia, nel caso in questione, l’attenzione viene catturata dai toni accorati della lamentatio. Ricorrono espressioni come: “coraggio”, “senso di responsabilità”, “segnali forti”, “cuore profondo del paese” (che “non cessa di battere”), “impegno”, “speranza”, “sogno”, “fiducia contagiosa”, “restare inerti” e un “Paese” che deve “respirare aria pulita” per non “morire di smog”. Se questi accenti non vi suonano nuovi, non è un caso: slanci epico-moralisti come quelli del buon direttore Napoletano ritornano assai di frequente nei discorsi dei commentatori più “qualificati”. E se le analisi economiche, che si suppone debbano essere il più possibile oggettive e circostanziate, finiscono per assumere contorni poetici a metà tra una canzone di Raf e un sonetto del Foscolo, forse è il segno che c’è qualcosa che non va.
In realtà questa è la dimostrazione che l’analisi propagandata è fallimentare. Quando i risultati non tornano e non si vuole ammettere che la “cosa giusta” non è poi così giusta, è lì che si comincia a parlare delle persone: si inneggia agli eroi e si demonizzano i cattivi.
L’idea che dobbiamo fare i compiti a casa, sistemare le inefficienze e tagliare gli sprechi, in modo da recuperare le risorse per ripartire, sembra molto sensata: eppure, da Prodi a Berlusconi, da Monti a Letta, continua a non funzionare. Non si può che pensare, dunque, che la colpa sia tutta di una classe politica marcia e corrotta fin dalle fondamenta. Il che però espone a non pochi problemi: non solo per riparare a una degenerazione di queste proporzioni occorrerebbero riforme profondissime, e soprattutto lunghissime; ma è evidente che queste riforme, che dovrebbero restituirci una classe politica nuova e pulita, non possono essere affidate alla stessa classe politica vecchia e putrefacente.
Ecco perché il fallimento a cui questa analisi ci consegna è il vero promotore dei fenomeni di protesta. Infatti dal movimento cinque stelle al movimento dei forconi non si fa altro che raccogliere il messaggio, che è negli stessi commentatori politici più ortodossi, per cui la politica non è in grado di fare la cosa giusta: e quindi se ne deduce che bisogna mandare “tutti a casa”. Oppure, se di Grillo non ci si fida perché “è solo protesta” e “sa dire solo no”, allora si finisce per scadere nel pregiudizio mediterraneo-razziale (è il popolo italiano che è geneticamente incapace di esprimere una buona classe dirigente) o nel pessimismo cosmico (è la società corrotta, le risorse che finiscono, il consumismo, eccetera).
Queste posizioni, però, da quella “autorevole” di Roberto Napoletano a quella meno meditata dell’ultimo manifestante, sono accomunate tutte dal medesimo stato d’animo: una frustrazione assoluta, che lascia impotenti e sconcertati di fronte a una crisi che non presta il fianco a soluzioni. Non c’è redenzione: solo delusione e rabbia; o nel migliore dei casi una lunga attesa, finché la natura non si sarà sfogata e la notte non cederà il passo al giorno.
Possiamo credere questo, abbandonandoci anche noi alla consolazione letteraria; oppure possiamo credere che la società e l’economia non sono regolate da leggi astrali, ma dipendono dall’uomo e dalle sue scelte: e se non funzionano, forse è perché sono semplicemente male organizzate. Forse l’assetto distributivo scelto non è quello più efficiente. Forse potrebbe essere utile ripensare la nostra analisi, per vedere se non abbiamo trascurato qualche elemento significativo.
Spiace tornare sempre sul medesimo punto. Ma nel chiudere quest’anno e nell’augurare a tutti buone feste, vorrei congedarmi dai miei lettori dimostrando che, se nella ricostruzione della crisi accettiamo finalmente di considerare il ruolo della moneta unica, ci accorgiamo che tutto improvvisamente cessa di essere oscuro, pesante e incomprensibile: ogni cosa appare chiara, i pezzi del puzzle si incastrano e anche i problemi politici, anziché essere negati, trovano una spiegazione soddisfacente.
Nelle discussioni che precedettero l’entrata dell’Italia nello SME (sistema di cambi fissi, ma aggiustabili, antesignano dell’euro) la politica offriva un panorama più variegato. Erano contrari all’adesione, ad esempio, i comunisti, tra i quali militava Napolitano: che non è solo un quasi omonimo del direttore del Il Sole 24 Ore, ma è proprio l’attuale Presidente della Repubblica; e che all’epoca aveva una visione molto lucida di come questa scelta implicasse accodarsi agli interessi dei paesi forti e spostare la redistribuzione dal lavoro al capitale.
Fallito l’esperimento dello SME, negli anni ’90 una nuova sinistra ormai orfana dell’Unione Sovietica, anziché compiacersi della lungimiranza con cui aveva previsto le cose, decideva (per ragioni che interesseranno gli storici) di sposare il progetto eurista: e in quel momento rinunciava definitivamente alla propria identità politica. Napolitano aveva ragione: difendere un sistema di cambi fissi significa difendere un assetto che salva il potere d’acquisto della moneta contro quello del lavoro; significa che, in caso di shock, non potendo svalutare la moneta, l’onere del raggiustamento si scarica sui salari. Questo contesto penalizzante per i lavoratori evidentemente non permette politiche a favore del lavoro: e una forza di sinistra che non può fare politiche per il lavoro diventa uguale alla destra.
Così è stato. In Italia non abbiamo più avuto una destra e una sinistra, ma di fatto due destre: due forze politiche che sono sempre state d’accordo su tutto e che si sono divise solo su Berlusconi. E così è nato l’equivoco che destra e sinistra non esistessero più.
Sotto la ricetta sicura del liberismo europeo e con i funzionari di Bruxelles in fregola per il nostro debito pubblico che calava, la classe politica ha smesso di confrontarsi sui temi e si è data al puro “mestiere”: carrierismo nella migliore delle ipotesi, affarismo nella peggiore. La corruzione evidentemente non è diminuita: al contrario si è alimentata di un sistema in cui politici buoni e politici cattivi, non facendo nulla, sono di fatto indistinguibili. Ed essendo impossibile selezionarli, il potere e il prestigio personale sono diventati l’unica ragione.
Anche oggi la classe politica nazionale è ridotta a puro orpello: non può alzare le tasse per non deprimere ancor di più i consumi e aizzare il malcontento; non può abbassarle altrimenti arriva Oli Rehn ad ammonire; e non può fare spesa a debito, perché abbiamo preso impegni precisi. Ma se un governo non può fare qualcosa in materia fiscale, che è il senso stesso della sua autorità, allora non può fare niente. L’immobilismo a cui assistiamo, dunque, non è un problema di indolenza: è un problema di sovranità.
Così è per tutto il resto: declino della produttività, riforme non fatte, problemi che erano e problemi che resteranno. Ogni cosa trova il suo posto, se si accende la luce di una moneta unica che non può funzionare. Anche la difficoltà di accettare una discussione sul tema si spiega con l’egemonia culturale della sinistra, che avendo mischiato “euro” con “Europa” e internazionalismo, ha lasciato passare l’idea che avere una valuta comunitaria sia qualcosa di intrinsecamente buono.
Ovviamente ciò non significa che prima vivessimo nell’età dell’oro, o che vi finiremmo automaticamente qualora uscissimo. Significa solo che oggi abbiamo due strade: da una parte i lamenti funebri dei giornalisti, l’inattività della politica e proteste sempre più disperate e pericolose; dall’altra la fine di un tabù: accettare di parlare della moneta unica, senza partire dal presupposto che sia intoccabile, per ammettere l’impatto largamente negativo sui mali storici del paese. Può darsi che la politica, vedendo dove si sta muovendo l’opinione pubblica, sia indotta a prendere il coraggio a due mani e a fare una scelta coraggiosa nell’anno che verrà.
Andrea Giannini