Le voci del corteo, che ci raccontano tra le righe perché oggi abbiamo bisogno ancora di queste manifestazioni
Sabato 15 giugno 2019, a Genova, il sole è coperto da un leggero strato di nuvole, che risparmia dai raggi ma non dall’afa. Lungo la strada per il Pride mi rendo conto di indossare una molto poco colorata t-shirt total black, senza nemmeno un disegno; calandomi nella coloratissima marea umana, mi sento per un attimo inopportuno.
Ma dura poco. La musica, la massa, i sorrisi; specialmente i sorrisi, di tutti. In breve, l’atmosfera gioiosa ti sommerge. Inizio a intuire, prima ancora di capire, quale sia il significato del Pride.
Mi muovo su e giù per il corteo, per raccogliere le voci e le parole di chi partecipa. Rompo il ghiaccio partendo da tre giovanissime, Viola, Erica e Giulia, 40 anni in tre (nello specifico, 14 la prima, “ancora 13” le altre due). Un po’ titubanti si avvicinano al registratore, ma la risposta è quella di chi non è lì per caso e ha già parlato spesso di queste tematiche: “sosteniamo i diritti della comunità lgbt, ognuno deve essere accettato per quello che è”. È il vostro primo Pride? “sì, è bellissimo”.
Scelgo di cambiare target e mi avvicino a Enrica e Paola, di 57 e 50 anni, commentando con loro qualcosa che salta all’occhio, ossia l’eterogeneità delle età che si vedono al corteo: “dovrebbero esserci tutti, indipendentemente dagli anni”.
In effetti, al Pride di Genova incontri davvero tutti, di qualunque età, etnia o estrazione sociale. Attempati professionisti in polo e giovani che ballano a torso nudo coi volti dipinti, coppie di anziani e studenti dei primi anni delle superiori. Giulio, 37 anni e una bambina piccola sulle spalle, cammina accanto alla moglie e ha il tono controllato e la dialettica di chi è abituato a parlare per lavoro: “mi sembra ci sia una bellissima atmosfera, di questi tempi penso ce ne sia bisogno. Da una parte penso che la risonanza mediatica di certe notizie possa far ritenere che si stia andando indietro, in realtà la mia convinzione personale, basata sulla mia esperienza e sulle mie conoscenze, è che ci sia una coscienza collettiva che si sta muovendo; quindi, a dispetto di quello che sentiamo e leggiamo, penso che stiamo facendo dei passi in avanti”.
In effetti, uno dei grandi segnali positivi è un diffuso ottimismo: di coloro con cui parlo in molti ritengono che, contrariamente a quanto si possa pensare leggendo di inquietanti rigurgiti del passato nella politica di tutto l’Occidente, la società civile stia facendo progressi nella sua accettazione del diverso. Ne parlo con Roberto, 65 anni, che si adombra il volto e la curata barba brizzolata sotto un cappello di paglia: “per quanto concerne lo sviluppo della capacità di accettare queste differenze, che non sono neanche più delle diversità ma dei modi di vivere e di esistere, legittimi come quelli di chiunque altro, direi che in questo caso c’è una certa tendenza al miglioramento, anche se timido: più persone accettano queste espressioni, in queste circostanze ma soprattutto nella normalità, nella vita di tutti i giorni, e questa è una cosa positiva che bisogna accogliere di buon grado e salutarla”.
Anche Michele, che sfila con le famiglie arcobaleno insieme a suo marito, vede una società in grado di accettarli; ma non tutto è rosa e fiori: “la società civile non ci crea problemi, lo dimostra il fatto che in questo momento, insieme a noi, stanno sfilando insegnanti e genitori della scuola dei miei figli. Il problema si potrebbe, purtroppo, verificare nel momento in cui il genitore biologico diventi inabile o addirittura muoia: in quel caso i miei figli diventerebbero a tutti gli effetti orfani e il genitore non riconosciuto [dalla legge, n.d.r.] dovrebbe intraprendere una pratica di adozione in tribunale”. A stretto giro, anche circa il rapporto con la società mi arriva il primo pugno alla bocca dello stomaco della giornata; me lo dà, inconsciamente, Christian, col suo tono di voce pacato e gentile a dispetto di due braccia da boxeur che emergono da sotto la canotta nera: “sul rapporto con la società io onestamente ho schermato la mia persona e mi sento libero di potermi muovere tranquillamente, però comprendo che oggi in Italia e in Europa c’è bisogno del Pride e c’è bisogno di tanti Pride, perché purtroppo ci sono dei ragazzi, magari più giovani ma anche più grandi, che ancora vivono nell’anonimato, nell’ombra e hanno paura di mostrarsi così come sono. C’è stata un’evoluzione in positivo per fortuna, ho girato tanti Pride in Italia e in Europa, quello che sto notando qua a Genova è la presenza di tante persone eterosessuali, tanti bambini, tante persone che vogliono portare qua la loro approvazione e il fatto di non creare sdegno nei confronti di coppie diverse”. Nonostante lui mi abbia parlato più dei lati positivi della situazione, prendo commiato con l’amaro in bocca, pensando che, per poter essere semplicemente felice di essere se stesso, qualcuno si trovi di fronte a una società che lo obblighi a “schermarsi”. Un conto è parlare in termini generici e astratti di certe tematiche, un altro è incontrare le persone che vivono questi problemi sulla propria pelle, giorno dopo giorno.
Tuttavia, i colori della manifestazione, la musica, la semplice allegria di tutti mi aiutano a scrollarmi di dosso questa amarezza, anche se un pezzetto è bene che venga conservata. Risalgo il lungo corteo, secondo alcuni 15.000 persone, altre fonti diranno 25.000 i giorni dopo. Mi immergo nella foresta di bandiere di tante associazioni diverse, parlo con Maria Grazia, 60 anni, che tiene alta una bandiera di Emergency, e Viola, 16 anni, che regge uno striscione degli scout del Cengei di La Spezia vestendo orgogliosamente, insieme ai suoi compagni, la propria uniforme. Oltrepasso una delegazione della comunità ecuadoriana e una ragazza di colore che regge alto un cartello con la scritta, che campeggia sulla bandiera arcobaleno, “Allah loves equality”; saluto un paio di amici e chiacchiero un po’ con Sofia, di 27 anni, membro dello staff e che viene dall’Argentina, qui per un progetto del Servizio Civile Internazionale.
Infine, arriva l’ora di andare. Mi stacco dalla folla mentre le grandi casse dei camion del corteo mi salutano con la loro musica da festa grande. Richiamo alla memoria i volti e i sorrisi di tutte quelle persone che hanno superato la naturale diffidenza di un registratore per parlare con me della loro voglia di lottare pacificamente perché tutti siano accettati.
Mentre mi allontano, noto una coppia che, come me, sta lasciando il corteo: Simone e Valentina, sposi trentenni. Lei è al telefono, lui guarda allontanarsi la folla con l’aria felice di chi è stato contento di partecipare. “È importante che anche gli etero partecipino a questa manifestazione, sono diritti fondamentali di tutte le persone, quindi che tu sia etero o gay o di qualsiasi altro orientamento sessuale devi partecipare e garantire la libertà a queste persone di essere se stesse”. Condivido con lui le mie incertezze, perché la serenità con cui Christian mi ha detto di essersi dovuto schermare dalla cattiveria della gente per poter vivere liberamente se stesso continua a pesarmi dentro; gli chiedo, così, se ha più paura o più speranze sul futuro circa questi temi: “domanda difficile per il periodo. Paura ce n’è, viste le ultime cose che si vedono in giro; speranza sempre, non si può perdere la speranza”.
Alessandro Magrassi