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Paul McCartney in Italia, il concerto dell’anno ad Assago

Al palazzetto di Assago il concerto di Paul McCartney: video, foto e il racconto di una notte indimenticabile


1 Dicembre 2011Notizie

Paul Mccartney in concertoArrivo fuori dal palazzetto un’ora prima dell’apertura dei cancelli, e ci sono già diverse code a serpentina che si allungano in mezzo alla nebbia gelida di Assago. Scendendo verso l’ingresso si ha una vista dall’alto dello spiazzo: la nebbia sembra latte, illuminata dalla luce giallognola dei lampioni, in lontananza si vedono muoversi lentamente solo le teste che emergono attraverso il buio e la foschia. Mi metto paziente dietro gli altri già parecchio infreddoliti, chi immobile con la sciarpa fino al naso, chi saltellante da un piede all’altro.

Sono quasi le otto quando finalmente passo sotto la bocchetta d’aria calda dell’ingresso e riattivo la circolazione; coda per il bagno, coda per una bottiglietta d’acqua (rigorosamente servita senza tappo, non sia mai che ti venga un raptus e la usi come proiettile! Comodissimo assistere a un concerto tenendo in equilibrio la suddetta bottiglietta tra uno spintone e l’altro… l’unica soluzione è trangugiarla nel minor tempo possibile con ovvie conseguenze) e finalmente guadagno la postazione, nel primo anello. Nell’attesa guardo gradinate e parterre riempirsi lentamente, ed è esattamente come mi aspettavo: intorno a me, persone di ogni tipo e di ogni età. Letteralmente. Non è cosa da tutti avere la facoltà di riunire una tale congerie umana, eppure.

Nel parterre ancora in parte vuoto, una meravigliosa bambina balla, salta e canta mimando il microfono a ritmo delle canzoni che vengono diffuse in attesa dell’inizio. Manco a dirlo, sue canzoni, in versione cover però, con tanto di chicche come la cover italiana di Day Tripper, il cui testo è conosciuto solo dai fan di lunga data o chi, come me, ha avuto la fortuna di tenere in mano gli spartiti originali anni ’60 versione italiana, con traduzione a lato: “….perché non sei dritta, come pensi tu, ci ho messo un po’ ma d’ora in poi non me la fai!”

Paul Mccartney in concertoE con una puntualità assolutamente inglese, alle nove e un quarto buio in sala. Il pubblico comincia a urlare, e sul palco illuminato dall’occhio di bue compare lui: Paul McCartney. È un tripudio di grida, applausi e fischi. Si avvicina alla ribalta, guarda la platea, fa il gesto di toccarla con un dito e scottarsi per il calore del benvenuto. Ovazione.

La divisa è quella dei primi Beatles: completo scuro con giacca di taglio militare a bottoni, colletto e polsini rossi. A tracolla il mitico basso Hofner di allora. Schiena al pubblico, cenno di ok con il batterista, dà il via. Hello Goodbye apre il concerto. Manco a dirlo, il pubblico è un’unica voce che canta ogni singola nota insieme a lui, mentre i due megaschermi laterali trasmettono le immagini del palco. Poco dopo arriva All My Loving: giù in platea si vede gente che salta mentre canta. Di qui in poi, un crescendo che non si arresta mai: musica suonata in modo sublime, mai una sbavatura, mai una pausa, mai un errore.

Magistrali i musicisti che lo accompagnano. Facce da rock -magri, scavati, capelli un po’ lunghi, alla Mick Jagger- i due chitarristi, Rusty Anderson e Brian Ray, più David Arch alle tastiere e il trascinante Abe Laboriel Jr. a una batteria che è il suo naturale prolungamento. Tutti eccezionali performers, polistrumentisti e coristi, con in più la capacità di fare piccole scenette sul palco, nel mezzo delle canzoni, divertendo il pubblico… un vero spettacolo.

Paul canta, trascina il pubblico, alterna pezzi ritmati a ballate, cambia strumento a ogni canzone, basso, chitarra, mandolino, pianoforte; tra una canzone e l’altra dice qualche frase in italiano, fa battute, scherza, dirige il pubblico in brevi gag sonore; il fisico è perfetto, la voce pure, non dimostra nemmeno un po’ i sessantanove anni, quasi settanta, che ha.

Detta legge sul palco per tre ore filate, rendendo ridicoli al confronto gruppi e artisti molto più giovani che si fregiano di grande bravura e poi fanno concerti mediocri da un’ora e mezza. Messi in fila, anzi in un angolo, da un gigante. Questa è Storia della musica, anzi, è Storia, perché è notorio che musicisti come lui hanno cambiato il mondo non solo dal punto di vista musicale ma anche sociale e culturale. Chi dice che artisti come lui sono passati, che sono vecchi, che sono cose di un’altra epoca, non ha capito niente. Sono passati cinquant’anni da Please Please Me, ma quello che i Beatles hanno creato resta attuale più che mai, immortale, e va oltre la singola canzone. È un modo di fare musica, con il gruppo a quattro-cinque elementi, che è diventato un archetipo, e gli adolescenti scalmanati delle prime file, che saltano con le braccia al cielo e cantano ogni parola di tutte le canzoni, ne sono la prova.

Loro hanno capito, e non si lasciano sfuggire l’occasione unica di vedere a pochi metri da loro una leggenda come Sir Paul.

Drive My Car o Helter Skelter potrebbero uscire adesso e avere un successo strepitoso, non avendo niente da invidiare al rock odierno (e tanto meno a “soluzioni” pop tanto appariscenti quanto prive di sostanza, usate fino alla nausea per un’estate e poi finite esattamente dove meritano di stare, nel dimenticatoio).
Dopo le prime canzoni Paul lancia la giacca e apre i primi bottoni della camicia, per il giubilo delle voci femminili che si levano in un coro di “Wooooooow!” (d’altronde quando uno è figo, è figo pure a settant’anni!). Si va avanti in un’alternanza di pezzi dei Beatles e pezzi degli Wings, con una scaletta serratissima e mai scontata, perché Paul lascia fuori alcuni pezzi più classici per mettere invece The Night Before, I’ve Just Seen A Face, I Will.

Godimento puro in pezzi come Back in the USSR e Live Or Let Die, forse la più spettacolare perché accompagnata da una serie di fuochi d’artificio e fiammate vere che partono dalla ribalta per salire in aria per tutta la durata della canzone, mentre le immagini che si susseguono velocissime sugli schermi fanno il resto e Paul, in alto, pesta sul piano con l’energia di un ragazzo ma l’eleganza di un lord. E poi medley stupendi, come A Day In The Life/ Give Peace A Chance .

Momenti di vera commozione invece quando suona Something dedicandola a George, con le foto di loro due giovani insieme che passano sugli schermi, o Here Today scritta per John, o Blackbird, suonate da solo con l’acustica, illuminato da un solo fascio di luce e accompagnato da un’enorme luna piena che sale lentamente, proiettata sulle quinte. Il pubblico canta piano, sussurra insieme a lui. I megaschermi mandano le immagini della platea, e molti hanno gli occhi lucidi.

Quando arriviamo a Hey Jude, per tanti le lacrime ormai hanno la meglio. Oltre alla canzone in sé, è la magia che si crea in quel momento, in quel luogo, con tutta quella gente che canta insieme a lui, che ti stringe lo stomaco e la gola e ti investe con emozioni fortissime. Per una volta, per un istante, ti senti parte di un tutto, e questa sensazione ti sopraffà. “Hey Jude, don’t take it bad, take a sad song and make it better..”e poi l’esplosione, nel celeberrimo finale di quattro minuti con gli strumenti che uno a uno si fermano fino a lasciare la voce del pubblico che canta da solo: “Naa, na na, nanananaaaa, Hey Jude!”e poi riprendono per chiudere la canzone.

Prima uscita. Eh no, non ci vorrai mica lasciare così? E allora tutti a richiamarlo sul palco, con un minuto buono, perfettamente a tempo, di coro “Hey Jude”. Rientra. Altre tre canzoni, di cui un medley. Seconda uscita e nuova standing ovation, secondo rientro, per il saluto definitivo. Le ultime tre sono Yesterday, Helter Skelter e un eccezionale estratto da Abbey Road lato B, il lato della suite per intenderci: Golden Slumbers/Carry That Weight/The End.

Lunghissimo applauso. Inchino alla Beatles, come nel ’63. Alza la chitarra al cielo, mano che saluta: “Ciao ciao! Alla prossima volta! See you next time!”. Non si poteva chiedere di più. Sir Paul stasera ha dato lezione di grandissima musica, e ha dimostrato una volta di più, se ce ne fosse bisogno, che non c’è oggi gruppo in grado di far passare per vecchia o superata questa Musica.
Esco di lì scollegata dalla realtà, con gli ultimi versi ascoltati che mi risuonano in testa:

“And in the end
the love you take
is equal to the love
you make”

Grazie Paul. See you next time.

Claudia Baghino

Paul Mccartney in concerto
Paul Mccartney in concerto
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Paul Mccartney in concerto
Paul Mccartney in concerto
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