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Alluvione di Genova, analisi a sangue freddo: “non facciamoci prendere in giro”

Non limitiamoci a scagliarci contro il primo che passa, perché facciamo solo il gioco dei nostri politici. Tutto dipenderà, piuttosto, da come sapremo tenere il fiato sul collo della pubblica amministrazione e della stampa; da come sapremo pretendere, senza compromessi, che Genova torni ad essere una città sicura e prospera


17 ottobre 2014Rubriche > "Polis" Critica Politica

alluvione-genova-10-ottobre-2014 (15)Quest’alluvione non è come tutte le altre. Questa volta è diverso. Dal dopoguerra fino alla settimana scorsa le esondazioni del torrente Bisagno hanno avuto questa scadenza: 19 settembre 1953 (insieme al Trebbia); 7 e 8 ottobre 1970 (insieme a Polcevera, Leira e Chiaravagna); 27 settembre 1992 (insieme allo Sturla); 4 novembre 2011 (insieme a Fereggiano, Sturla e Scrivia).

È evidente che rovesci talmente abbondanti da far esondare il torrente raramente avevano luogo: e comunque mai più di una volta ogni ventennio. Ma questo tragico “appuntamento fisso” con i drammi umani e i danni economici è stato anticipato giovedì scorso, a distanza di soli tre anni dall’ultima rottura degli argini. Inoltre, in questo stesso arco di tempo, altri fenomeni distruttivi si erano già abbattuti su zone della costa più o meno vicine: 4 ottobre 2010, Sestri Ponente e territorio spezzino; 25 ottobre 2011, Cinque Terre e Lunigiana; 11 novembre 2012, Massa e Carrara.

Una simile frequenza non sembra trovare riscontro nel ventennio precedente (di cui si ricordano solo l’alluvione del 1993 sul ponente genovese, quella del 2000 su Imperia e Savona e quella del 2003 nelle provincie di Massa e Carrara). Sembra confermata, inoltre, anche la diversa natura dei fenomeni: tant’è che per la repentina e inattesa violenza sono già entrate nel linguaggio comune espressioni quali “bomba d’acqua” o “temporale auto-rigenerante”.

L’altro punto che segna un deciso “salto di qualità” nel rapporto tra l’uomo e la calamità naturale è il fallimento della prevenzione. Da un lato, infatti, la scienza non ha saputo lanciare un allarme nemmeno quando il disastroso rovescio era in corso; dall’altro la politica, accusata spesso di muoversi solo a “disgrazia avvenuta”, stavolta non si è mossa nemmeno dopo che la disgrazia era avvenuta per davvero, non potendo mostrare alla cittadinanza, a tre anni dai morti del Fereggiano, nemmeno una singola misura concreta presa a riduzione del rischio (ed è da considerarsi una “fortuna” che la tarda ora notturna della piena abbia contenuto il numero delle vittime).

C’è di peggio. Anche se i lavori per l’allargamento del tratto sotterraneo del Bisagno nel tratto che va dalla Questura al tunnel di via Canevari fossero stati completati, l’esondazione del torrente non sarebbe stata comunque evitata, ma solo ridotta in portata: segno che la presunta “soluzione” di tutti i problemi non sarebbe in realtà che l’ennesimo “tapullo”, di cui si fa gran parlare solo per non ammettere l’enorme dissesto idrogeologico che coinvolge non solo la zona del Bisagno, ma tutta la regione. Discorso simile per il mini-scolmatore del Fereggiano (qui l’approfondimento) da non confondere con l’unico intervento che davvero sarebbe in grado di mettere in sicurezza la Val Bisagno e il centro città, ovvero il famoso scolmatore del Bisagno, opera da oltre 260 milioni di euro che, a causa del suo costo, rientrerebbe nella categoria “opere impossibili”.


La lezione che questa alluvione nel suo insieme ci consegna è dunque spaventosa: non siamo al sicuro e non sappiamo cosa fare. Il quadro non è semplicemente quello della “calamità naturale complicata dai ritardi burocratici”: è molto peggio. È un mix di più fattori, quali appunto: progressiva tropicalizzazione del clima, fallimento dei modelli meteorologici predittivi, crisi della  rappresentanza politica e una tradizione radicata di sfruttamento edilizio del territorio.

Quello che non bisogna fare in un simile frangente è negare la realtà, solo perché essa appare talmente disperata da non lasciare intravedere soluzioni realistiche. Per quanto complicato, al contrario, il problema deve essere preso di petto: non solo per la memoria di quelli che sono morti e per scongiurare nuove stragi, ma proprio perché altrimenti Genova rischia di morire.

Se non ci si può fidare del meteo, dell’amministrazione pubblica e delle allerte degli esperti, allora è meglio mettersi al riparo da soli. Il rischio concreto, insomma, è che tutta la zona del Bisagno, da Molassana fino alla Foce, da Quezzi a Brignole, subisca un progressivo abbandono, con conseguente deprezzamento degli immobili residenziali e commerciali: cosa che comporterebbe la trasfigurazione del cuore pulsante della città in un malfamato ghetto fantasma.

Come se ne esce? Bisogna essenzialmente che la cittadinanza capisca cosa chiedere e come fare pressione. Le immediate reazioni di chi è stato colpito nella casa o nel lavoro, per un’elementare forma di rispetto, non si possono e non si devono sindacare. Ora però, passata una settimana, dovrebbe essere tornato il sangue freddo almeno per capire dove occorre incanalare la rabbia.

Dovrebbe essere il momento di dire che nessuno nega che la giustizia debba seguire il suo corso: ma certo non è portando alla sbarra un’altra Marta Vincenzi che le cose cambieranno. Purtroppo l’abbiamo già sperimentato. Allo stesso modo non è invitando Grillo o Renzi a spalare il fango che il rischio di una nuova esondazione sarà scongiurato. Bisogna, al contrario, che ognuno faccia la sua parte: compresa la cittadinanza e l’opinione pubblica.

Quest’ultima, in particolar modo, dovrebbe smettere di cavalcare proteste magari anche sacrosante, ma sostanzialmente inutili, contro quel “burocrate” o quel “politico”, senza spiegare alla gente la complessità del problema da affrontare. Semplificando le cose, infatti, si ottiene l’unico risultato di fornire alibi all’inattività di questa classe politica, che è ben contenta di cavarsela solo con il reperimento, da parte del governo, dei fondi necessari a ultimare l’allargamento del tratto sotterraneo del Bisagno.

Bisogna dire, invece, come le cose vanno fatte: mentre si accertano le responsabilità individuali, parallelamente si procede a un piano per la messa in sicurezza della zona. Si trovano esperti che, sulla base di modelli aggiornati, si assumano la responsabilità di definire pubblicamente la piena massima del torrente; dopodiché interviene l’amministrazione pubblica, stabilendo la necessità di un ulteriore margine di sicurezza, per scongiurare le conseguenze di fenomeni anche più violenti di quelli della settimana scorsa. E così via anche per gli altri torrenti a rischio. A quel punto si potranno programmare le necessarie opere pubbliche.

L’ampiezza della zona interessata e i costi del piano non devono spaventare. Dobbiamo ritornare a ragionare sulla base dell’idea che è la pubblica utilità a definire la spesa, non la capacità di spesa a definire gli interventi utili. Questa logica contabile ragionieristica, per cui si fa solo quello che si ha in tasca in quel determinato momento, è contraria al principio stesso del capitalismo, che invece si basa sul prestito e sul debito, con l’idea che una spesa non sia solo un costo, ma possa essere anche un investimento.

Altrimenti non si capisce come possano essere stati realizzati nel passato interventi imponenti che oggi paiono quasi impossibili. Parigi nel pieno del XIX secolo è stata sventrata dai boulevards di Hausmann: un’operazione che allora arricchì gli speculatori (come ci ricorda un famoso romanzo di Émile Zola), ma che ha regalato alla Parigi di oggi un’attrazione unica. Nel dopoguerra anche Genova ha conosciuto imponenti demolizioni: se è stato possibile abbattere una zona storica, seppure martoriata, come Via Madre di Dio solo per realizzare un vero e proprio obbrobrio socio-urbanistico, a maggior ragione si possono ampliare e riqualificare gli argini dei torrenti. A Valencia, in tempi più recenti, il rio cittadino, che esondava come il Bisagno, è stato deviato: al suo posto sorgono oggi i Giardini del Parco Turia.

Tutto questo per dire che le cose si possono fare: basta volerlo. È per questo che su questa rubrica ho insistito tanto sull’idea che lo Stato recuperi la sua autonoma capacità di collezionare e di allocare le risorse non sulla base delle regole contabili di Bruxelles, ma sul rispetto dell’interesse dei suoi cittadini. Perché si arrivi a questo, però, è importante che la cittadinanza sappia che non è sbagliato, anzi, è doveroso mettere la sicurezza davanti al pareggio del bilancio. Quando si ragionava così, non è vero che si sperperavano risorse: al contrario l’economia cresceva e il debito si ripagava.

È anche importante esigere di non essere presi in giro: siamo adulti e dobbiamo pretendere che ci vengano dette le cose come stanno. L’ARPAL, il Comune e la Regione devono prendersi la responsabilità di dire in pubblico se le opere da realizzarsi metteranno in totale sicurezza le zone a rischio rispetto all’intensità degli eventi atmosferici ai quali abbiamo assistito; in caso negativo, devono spiegare come mai non vengono progettati interventi più incisivi.

Non limitiamoci a scagliarci contro il primo che passa, perché facciamo solo il gioco dei nostri politici. Tutto dipenderà, piuttosto, da come sapremo tenere il fiato sul collo della pubblica amministrazione e della stampa; da come sapremo pretendere, senza compromessi, che Genova torni ad essere una città sicura e prospera. Se vogliamo farci chiamare davvero “superbi”, questo è il momento di dimostrarlo.

 

Andrea Giannini

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