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Mariagiovanna Figoli, il disegno che racconta l’architettura genovese

Si definisce «un architetto che dipinge», i suoi disegni sono immediatamente riconoscibili, uno studio dell'architettura genovese e del suo rapporto con il territorio


9 gennaio 2013Interviste

Quadro di Mariagiovanna FigoliMariagiovanna Figoli, originaria di Vernazza, vive a Genova dove ha lavorato tutta la vita: architetto, ha insegnato per decenni presso la facoltà di architettura della nostra città. Nell’ambito del suo ruolo di docente, ha improntato la sua ricerca, e di rimando anche l’attività didattica, a un principio per lei fondamentale: la comprensione dello sviluppo urbano in rapporto alla morfologia del territorio e al rispetto del carattere dei luoghi. Terminata l’attività lavorativa ha continuato la medesima ricerca declinandola in modo del tutto nuovo: attraverso l’arte. Dipingendo l’architettura che tanto ama, cercando di raccontare il nostro tessuto urbano attraverso le immagini.

 

 

Lei è architetto. Come è giunta a fare pittura?

«La mia storia comincia da lontano: io sono stata un’allieva del liceo artistico genovese, quando c’erano Verzetti, Scanavino, Bassano, Bertagnin, Fieschi… artisti estremamente importanti, credo che la mia generazione sia stata molto fortunata ad incontrarli. Per me è stato un inizio appassionante, ho scoperto il mondo della pittura imparando a guardare “dentro” i quadri. La mia volontà poi di fare architettura mi ha portata ad abbandonare questo ambito, anche se solo in parte: ho dovuto frequentare la facoltà di architettura al Politecnico di Milano perché a Genova ancora non c’era, e i costi erano sostenuti. Io sono originaria di Vernazza, e d’estate stavo là: dipingevo e vendevo quadri coi cui proventi riuscivo a pagare le tasse universitarie. Terminata l’università feci per un periodo l’architetto presso diversi studi, ma capii che la professione era un po’ difficile per me, perché non ero capace di farmi pagare dai clienti! Poi ci fu un incontro casuale con un professore presso lo studio dove lavoravo allora. Mi vide lavorare e notò che ero molto brava nel disegno; sotto suo suggerimento iniziai ad avvicinarmi alla carriera universitaria, facendo l’assistente nei corsi di disegno dal vero e progettazione, fino all’incarico ufficiale di docente di progettazione architettonica, ruolo che ho ricoperto fino a che sono venuta via dall’università, avendo raggiunto i 40 anni di anzianità di servizio».

Quadro di Mariagiovanna Figoli«Facendo progettazione io ho sempre dedicato particolare attenzione alla città, alla sua forma e sviluppo in rapporto alle vicende storiche, questo è sempre stato un mio interesse: pensavo che gli studenti non potessero progettare alcuna cosa senza prima conoscere la storia e l’evoluzione architettonica del luogo oggetto di studio, nello specifico Genova, non ignorando ovviamente anche tutto ciò che accadeva nel resto del mondo a livello di progettazione, ma imparando a inserirsi in un contesto precostituito e di valore com’è il tessuto architettonico genovese. Ho sempre perseguito questo obiettivo, con fatica anche, perché insegnare progettazione non è una passeggiata. Terminato il lavoro come docente, mi sono trovata a dover decidere cosa volevo fare, non potevo stare senza far nulla. Ma anche lì, le cose sono accadute per caso: non avevo mai pensato di mettermi a dipingere, e non considero nemmeno pittura quello che faccio, lo vedo piuttosto come un proseguimento della mia ricerca sulla città e sulle sue architetture, solo fatta in modo un po’ diverso; l’incontro casuale con un’amica che ha sempre dipinto mi ha messo in testa l’idea e ho cominciato a fare qualcosa. A me i primi risultati non piacevano molto, agli amici sì; un giorno incontro Raimondo Sirotti e gli chiedo di dare un’occhiata a questi lavori, chiedendogli di essere assolutamente sincero. Con mia grande meraviglia mi dice che nelle mie immagini c’è “una grande forza”, e un modo di comporre che non usa nessuno. Decide di organizzarmi una mostra: cosa lontanissima da me, io avevo cominciato con l’idea di regalarne e al limite vendere qualche quadro ad amici e conoscenti! Così mi sono ritrovata a fare la mia prima mostra personale nel gennaio del 2009 presso la Fondazione Garaventa».

Come incide il suo essere architetto sulla visione che ha delle cose e sul suo approccio all’arte?

«Moltissimo, non lo posso ignorare. Saper leggere, capire l’architettura, vederne le contraddizioni e gli aspetti positivi è il tema, il mio tema. Però non sono una paesaggista: il paesaggio è una visione estatica di una certa particolarità panoramica, con l’intento di fermarne un certo momento, con quei certi colori… la mia è una cosa diversa, io studio l’architettura da dentro, ne studio il rapporto con il territorio. Ci vogliono anni di studio, e il pittore che dipinge il paesaggio non ha questo retroterra, non gli è indispensabile, nessuno glielo chiede. Per me che nasco come architetto, che sono un architetto che dipinge, è importante far vedere interno ed esterno di un edificio: è un’immagine abbastanza normale pensandoci, un’immagine che tutti abbiamo. Faccio un esempio semplice, riferendomi alla mostra che ho fatto di recente sui teatri genovesi: io del Carlo Felice conosco un prima e un dopo, una distruzione e una ricostruzione, una collocazione che è Piazza De Ferrari, un percorso per arrivarci che mi fa passare per certe vie… quello che cerco di fare è condensare in un’immagine tutto ciò che so del soggetto».

Quadro di Mariagiovanna FigoliQuindi è presente anche l’elemento temporale…

«Sì. Di fatto, la mia pittura è un racconto. Credo che molti pittori lo facciano, ognuno con un linguaggio diverso. Questo è ciò che io voglio fare».

La leggerezza dell’acquerello e delle svelte linee di contorno, i piani sovrapposti su cui si affastellano scorci di luoghi ed edifici. Può spiegare queste scelte stilistiche?

«L’immagine che noi abbiamo delle cose non è puramente estetizzante, l’estetica è composta da cose vere, da strutture, materiali, emozioni… esce fuori quello che uno pensa di quell’oggetto, e quell’oggetto è necessariamente percepito in tanti momenti diversi. Certo poi interviene la composizione che deve essere equilibrata. Uso acquerello e tempera perché sono trasparenti, e la trasparenza mi permette di realizzare tutto ciò che ho detto, con l’olio non potrei. Qualcuno mi fa notare che il disegno nei miei quadri mantiene una certa prepotenza, forse è vero… io cerco di cancellarlo, però fa parte di me. Io alle medie non facevo economia domestica, disegnavo! Mi avevano dato da decorare una lampada per il preside… Il disegno è stato davvero il leit motiv di tutta una vita. Infatti quando si è imposto il computer ho avuto grossi problemi! Coi miei studenti del primo anno mi sono rifiutata di lasciare che iniziassero a disegnare col computer. Si inizia a mano, è importante, poi di certo si usa il computer, ma dopo: è come voler guidare l’auto senza aver prima imparato a camminare. Il disegno è un linguaggio, e come tale sta alla base della comprensione delle cose. Disegnare non è un dono di natura, si impara, e a qualunque età tra l’altro».

Un tipo diverso di scrittura insomma…

«Ma esatto! Tutti scriviamo, mica scriviamo tutti quanti dei romanzi o siamo tutti poeti, né entriamo a far parte della storia della letteratura. Scriviamo perché abbiamo bisogno di comunicare».

Quadro di Mariagiovanna FigoliQuanto influisce il fatto di essere ligure nella percezione degli spazi urbani e non?

«È un discorso molto complesso. Essere ligure non è così importante secondo me, ma l’ho capito dopo. Genova ha un certo impianto e si è evoluta in relazione al territorio; ho cominciato a fare confronti tra Genova e il resto della Liguria, e ho trovato che esiste un comun denominatore, uno standard: gli antichi erano estremamente seriali e organizzati, con una capacità di legarsi al territorio e usarne i materiali. Partendo da questo ho potuto fare confronti con altri territori e altre realtà, come Venezia o Roma, ed è stato allora che ho capito che sono ligure perché riesco a capire come la Liguria sia stata costruita, e quando l’ho capito è stata una scoperta affascinante.
La storia dell’architettura non è fatta dai monumenti, che sono come dei vestiti firmati, degli standard, che arrivano uguali per tutti, in un certo periodo, con un certo stile, e sono la chiesa, il palazzo, il castello. La vera storia è nelle case… l’abitare segue l’evoluzione culturale dell’uomo, è testimonianza dei bisogni di quel momento, ma anche del governo e dell’economia del territorio del tale periodo. E allora in un territorio delicato come quello ligure – e che è delicato ce ne accorgiamo solo in occasione dei disastri – perché non guardiamo come hanno costruito le case prima? Che sono sempre lì? Mentre quelli che vengono giù sono gli interventi dagli anni trenta in poi? Non abbiamo alcuna capacità di leggere criticamente: è per questo che sono molto preoccupata per le scuole d’architettura, perché non insegnano più queste cose».

Cosa crede sia importante trasmettere in quest’ottica agli studenti?

«Ho sempre chiesto loro che prima di fare qualunque traccia su un foglio bianco sapessero che non abbiamo bisogno di inventare niente. Nella storia, nessun artista e tantomeno nessun architetto ha inventato nulla: ha semplicemente trasformato le cose con i bisogni, che spingono a risolvere i problemi che pongono. I territori non sono tutti uguali, hanno strutture adatte a una cosa piuttosto che un’altra, possibilità e limiti. Bisogna porre attenzione a ciò che hanno fatto le comunità quando si sono insediate in un luogo. I Romani assecondavano il territorio. Ora, con tutti gli strumenti che abbiamo, è possibile che non riusciamo a capire nulla? Che per fare delle case in collina anziché adattarsi all’andamento naturale si debba sbancare l’intera collina per poi fare la casa come si farebbe in pianura? Ma perché? Non si può fare quello che si vuole, in architettura dovrebbe essere proprio proibito, e il primo obbligo, che è ciò che deve insegnare chi insegna urbanistica, è proprio questo: rispettare il territorio. Non possiamo continuare a cementificare tutto. E ci sono tante di quelle case sfitte e inabitate. Si arriva al paradosso, che mi provoca un vero dolore, in cui i discorsi sul recupero e sulle possibili soluzioni non li fanno gli architetti, ma altri. Almeno gli architetti dovrebbero ascoltare e saper interpretare le nuove necessità».

Quadro di Mariagiovanna FigoliLei è stata anche assessore provinciale, quindi direttamente a contatto coi problemi e le specificità del nostro territorio…

«La mia esperienza di politica attiva risale ai primi anni novanta. Ambiente e territorio erano le mie competenze, ambiti che erano appena “esplosi”, proprio nell’ ’88-’89 erano uscite le prime importanti leggi territoriali. La mia formazione culturale mi ha aiutata molto su come intervenire. Era importante organizzare il territorio, vederne le priorità; come assessore all’ambiente era chiaro che mi occupassi dei problemi idrici! Mettevo intorno al tavolo i sindaci di una vallata per cercare di risolvere e organizzare a livello collettivo, non potevo certo risolvere un problema per un comune sì e un altro no. Devo dire che nonostante le difficoltà iniziali poi questo approccio lo capivano, e si riusciva a collaborare. Io non ero portata a distribuire un po’ di finanziamenti a tanti comuni per non risolvere nulla in generale: era indispensabile organizzare; approvvigionamento e smaltimento delle acque era uno dei temi principali per me visto il ruolo che ricoprivo. Ho fatto guerre tremende per far rispettare il programma elettorale, perché si dicevano delle cose ma poi i fatti erano altri. Certo che i comuni preferiscono spendere per fare le sagre, ma esistono delle priorità, le responsabilità a riguardo sono troppo importanti, e se le cose non vengono fatte bisogna renderne conto. Infatti sono uscita perché ho capito che o si ha un gruppo con cui si riesce ad andare avanti, o da soli non si riesce a fare niente. Questa però è una grossa sconfitta per la politica, che rinuncia al proprio ruolo».

Tornando alla sua attività artistica. Quali sono i suoi soggetti preferiti e perché?

«Il soggetto fondamentale è la città, Genova ma non solo. All’interno di essa, gli spunti sono infiniti. Ho trovato bello individuare dei temi, come ho già fatto: il ponente, i teatri… la mia prossima mostra avrà come tema le ville. E la città ne suggerisce tanti altri, vie storiche, chiese… il mio cuore è sempre sulle strade comunque, e vicino a tutto ciò che su di esse si affaccia. La chiave di lettura è usare un linguaggio originale. Fare la prima mostra è stato come spogliarsi, perché nei tratti del dipinto esce fuori la persona, malgrado tutto».

 

Claudia Baghino
[foto e video di Daniele Orlandi]

Quadro di Mariagiovanna Figoli
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