Intervista al fotografo Alessandro Ligato vincitore della prima edizione del concorso “Art Is Clear As Clouds Are”
Dal 17 marzo al 20 aprile, presso l’OpenLab Gallery di Vico Giannini 1 a Genova, è aperta la mostra personale di Alessandro Ligato, vincitore della prima edizione del concorso “Art Is Clear As Clouds Are” rivolto a giovani artisti emergenti e organizzato in collaborazione con il Balla Coi Cinghiali Festival.
Alessandro Ligato, classe 1980 e una formazione tutta artistica tra Dams di Brescia e Accademia di Brera, si esprime attraverso il mezzo della fotografia d’arte e presenta a Genova “Urbana Nostalghia”… quando il cielo stellato è il protagonista che non si vede…
Il lavoro che presenti in mostra è molto particolare. Puoi spiegarlo?
«Il progetto che presento presso l’Open Lab Gallery nasce due anni fa e parte dall’idea che la città è di chi la vive, e che al suo interno si può e si deve vivere tutta la gamma dei sentimenti immaginabili. La nostalgia, la malinconia e la contemplazione sono legati a un immaginario bucolico, io rivendico con questo progetto il diritto di viverli anche nell’urbanità; urbanità che di notte perde la sua frenesia e si dispone come la natura ad esserti vicina e confidente.
La modalità di operazione è stata performativa: comunicavo ai miei soggetti con una settimana di anticipo di scegliere un luogo che potesse metterli in questo stato d’animo, quando scendeva il buio loro si sdraiavano a guardar le stelle e io documentavo quel che succedeva; quindi primariamente lo scopo era di far vivere ai miei nostalghici un’esperienza sensoriale di confronto con se stessi e quel che li circonda; al contempo il mio scopo era quello di rendere visibile l’invisibile, ovvero loro vivono movimenti e paesaggi interiori e io col mio mezzo fotografo loro e quel che hanno attorno come rappresentazione visiva di quel sentire; il mondo fuori fotografato come specchio del loro mondo interiore.
La fotografia è per me un’arte magica e alchemica, il mio fotografare è racchiudere un mondo in un rettangolo che sia significativo ed evocativo anche di quel che ho escluso dal rettangolo; il cielo è negato nella fotografia perché solo vivendo l’esperienza è possibile perdersi a guardarlo.
Fin dall’inizio ho capito che l’installazione di questo lavoro in galleria doveva essere pienamente conforme all’esperienza vissuta dai miei soggetti, è per questo che in galleria ho installato le fotografie su lightbox, le sale sono buie con la proiezione del cielo sul soffitto, ci sono materassi e cuscini per sdraiarsi, in modo che lo spettatore in una mimesi possa sdraiarsi e condividere -anche se in piccola parte- l’esperienza dei soggetti da me fotografati.»
Nell’osservare le tue foto la prima reazione è stata cercare di riconoscere il luogo, in seconda battuta il forte rimando alla prosecuzione dello spazio oltre il rettangolo dell’immagine, verso un cielo che non vediamo ma che sappiamo essere lì e dispiegarsi immenso agli occhi della persona sdraiata, fa venire voglia di entrare nella foto e sdraiarsi accanto al tuo soggetto.
C’è una chiave di lettura precisa per queste immagini? Un messaggio per il fruitore?
«Ognuno è libero di sentire quel che vuole, quello che mi preme è che non sia un vedere ma appunto un sentire… non un’esperienza legata solo alla vista ma che muova sensazioni interiori legate al vissuto personale di ogni visitatore».
Ho visto che lavori con la fotografia analogica e in particolare col banco ottico. I tempi e i modi di questa tecnica sono antitetici all’immediatezza e alle peculiarità della fotografia digitale. Come nell’annosa disputa tra fautori dell’mp3 e cultori del vinile, quando si tratta di contrapposizione analogico-digitale di solito si creano fazioni tra loro inconciliabili. Appartieni a una di queste o lavori con entrambe le tipologie? Cosa hai scelto per le foto in mostra e perché?
«Io lavoro sempre con la fotografia analogica, come nella musica c’è chi suona il pianoforte e chi il sintetizzatore, uno non è meglio dell’altro; semplicemente è radicalmente diverso. Per me il fatto di lavorare in analogico risponde al bisogno di fotografia come oggetto fisico: poiché cerco sempre di cogliere sfumature, sentimenti, insomma ciò che non è visibile, ho bisogno che ciò sia documentato su un supporto fisico cioè sulla pellicola. Lavorare in analogico col medio e grande formato è da sempre per me legato a una fotografia intesa come visione e pensiero, il clic finale è l’1% del lavoro; è un lavorare per sottrazione e non per sovrabbondanza: il digitale ti fa fotografare e poi scegliere, io sono conformato per scegliere e poi fotografare.
Lavorare in analogico significa anche avere tempi di latenza in cui l’immagine non è visibile e visionabile, è solo immaginabile, cosa che trovo bella ed educativa a livello progettuale; queste macchine fotografiche di grande importanza fisica mi danno anche la possibilità di vivere non solo con un dito il fotografare e il luogo in cui sono, ma anche di sentirne il peso e l’anima attraverso la fatica, questo credo ti metta in una posizione di maggior ascolto del luogo o della persona che ti sta attorno».
Oggi chiunque possieda una reflex digitale e Photoshop si dichiara fotografo, apre un account su Flickr e inonda il web di scatti rielaborati. È la caratteristica di internet, democratizzare le cose e renderle accessibili a tutti. In questo modo però c’è una proliferazione incontrollata e pochissimo filtro. Cosa pensi di questa realtà? È un bene o un male? Stimola le idee e la concorrenza o rischia di oscurare persone meritevoli nel mare magnum della rete?
«Non credo che la rivoluzione digitale si possa definire come una democratizzazione, ha dato sì la possibilità a tutti di fotografare ma spesso ciò implica e ha implicato il fatto che queste persone non inizino a fotografare per rispondere a un forte bisogno interiore. Oggi ci sono più fotografi che medici o fruttivendoli e ciò un po’ mi inquieta soprattutto perché più bella è la reflex minore è l’umiltà del fotografo che si crede un professionista solo per il fatto di aver tra le mani 5000 euro; credo che per dare un giudizio sul digitale dovremmo aspettar una decina d’anni e veder cosa resta di tanto strepitare e fotografare come pioggia nei monsoni.
Ci sono però realtà notevoli che sono nate e si sono diffuse attraverso internet e i social network; io per esempio ho imparato a fotografare, sviluppare e stampare in analogico su Flickr in un gruppo che si chiama “Fotografia analogica- italia”; nella massa di immagini da cui siamo inondati si trovano anche moltissime di qualità; anche se abito in provincia posso seguire blog di fotografia scandinava ovvero non fermarmi a quel che il mainstream mi impone come idea di fotografia, ma andare a scavare ovunque e scoprire micro realtà notevoli. Credo che tutto ciò sia molto positivo; insomma il problema non è il digitale o il web ma le mani e le menti che lo usano».
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
«Per il futuro ho in mente più progetti di quanti ne possa materialmente realizzare, ma quotidianamente con rigore li porto avanti, per me fotografare non è una cosa diversa dal vivere, risponde a un mio bisogno di analizzare e riflettere sulla realtà. In particolare in questo momento sto portando avanti un progetto di arte pubblica sul quartiere del Carmine a Brescia, tra mille difficoltà economiche continuo a far quel che sento con la ferma convinzione che condividere i propri mondi interiori sia alla base di una vita sociale degna di questo nome».
Claudia Baghino
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