Nessuno ha voluto guardare il figlio di Totò Riina da Bruno Vespa, eppure un po’ tutti ne hanno parlato. Ma anche quei venti minuti, in cui il terzogenito della “Belva” non condanna le atrocità del padre, possono essere utili a risvegliare le coscienze di chi di mafia, stragi e maxi processi ha sentito, forse, solo parlare
Il 6 aprile nel suo programma “Porta a porta” Bruno Vespa ha intervistato Giuseppe Salvatore Riina. Trentanove anni, attualmente impiegato in una onlus, Giuseppe Salvatore è il terzogenito di Totò Riina, il capo dei capi, boss mafioso condannato a 19 ergastoli. Totò Riina ha la responsabilità, diretta o indiretta, della morte non solo di mafiosi e collusi vittime del gioco spietato al quale hanno deciso di dedicarsi, ma anche di magistrati come Falcone e Borsellino, giornalisti, politici, imprenditori, membri delle forze dell’ordine e tanti altri cittadini la cui colpa fu quella di opporsi ai soprusi di chi si impone con la violenza. Riina Jr. è stato intervistato in occasione della pubblicazione di un suo libro biografico nel quale racconta soprattutto il proprio rapporto con quest’uomo, suo padre.
L’intervista di Vespa ha suscitato scalpore. Guardandola effettivamente (come, a onor del vero, anche il giornalista fa notare a Giuseppe Salvatore) non si riscontra nemmeno una volta un “j’accuse” del figlio a carico del padre, una condanna delle sue atrocità o un rifiuto del suo stile di vita; d’altra parte, anche Giuseppe Salvatore ha scontato una pena di 8 anni e 10 mesi in carcere per associazione mafiosa. Il giovane Riina descrive la sua giovinezza priva di scuola, i suoi contatti con questa figura ingombrante che viveva nella latitanza, con serenità. Parla del padre con affetto e senza alcun accenno di rabbia o rigetto. Parla della mafia come qualcosa che «può essere tutto e niente».
In questo senso, ha ragione Rosy Bindi che ha evidenziato, preoccupata, il tenore negazionista delle dichiarazioni rilasciate da Giuseppe Salvatore Riina, che non parla mai espressamente di una struttura organizzata o di un’associazione tesa a delinquere e tende a minimizzare ogni volta che gli viene posta una domanda diretta sulla mafia. Ha ragione Pietro Grasso, che ha twittato: “Non mi interessa se le mani di Riina accarezzavano i figli, sono le stesse macchiate di sangue innocente. Non guarderò Porta a Porta”. L’affetto con cui Giuseppe Salvatore parla di suo padre è quello naturale di un figlio ma è inaccettabile che non abbia riconosciuto nemmeno lontanamente la ferocia dell’uomo chiamato anche La Belva nel suo già duro ambiente. Forse ha ragione anche Enrico Mentana che, durante un’edizione del tg La7, ha affermato che ospitare e intervistare qualcuno perché ha scritto un libro non è giornalismo. L’intervista di Vespa è stata, in effetti, dai toni molto bassi e abbastanza accondiscendente nei confronti di Giuseppe Salvatore; non un’intervista in grado di porre alla luce nuove rivelazioni o aspetti oscuri. Fatta eccezione per alcuni momenti, Vespa ha stentato a mettere all’angolo il rampollo del capo dei capi quando si trincerava dietro risposte decisamente evasive: ad esempio, quando gli è stato chiesto di esprimere un giudizio sulla condotta di suo padre, ha replicato che non era compito suo ma dello Stato; parole che possono “essere tutto e niente”, specialmente se si tiene conto che vengono da chi ha scontato otto anni di carcere perché affiliato a chi sceglie di condurre una vita in aperto antagonismo ai valori di quello Stato.
Eppure, nonostante tutto, forse quei venti minuti di intervista possono dare frutti positivi. La generazione di chi ha sempre sentito parlare delle grandi stragi e dei maxi processi ma non ha vissuto il periodo delle dirette dalle aule in cui si scriveva la storia dell’antimafia, ha bisogno di vedere interviste come queste per conoscere i propri nemici. Viene in mente Hannah Arendt e la sua lucidissima visione riguardante la banalità del male. Giuseppe Salvatore Riina, stando all’immagine che ha voluto dare di sé in quell’intervista, non ha mai considerato particolarmente assurdo lo stile di vita del padre. Lui stesso l’ha definito un uomo con dei valori che gli ha trasmesso, come il rispetto e l’importanza della famiglia. A noi una simile affermazione può sembrare assurda, la tragica pantomima di frasi da film hollywoodiani, ma a Giuseppe Salvatore e a chi, come lui, è cresciuto in quegli ambienti, no. Queste persone non sono grandi antagonisti da film, che bramano il male per il male, consapevoli dell’enormità delle loro azioni e sadicamente entusiasti di esse; sono uomini, donne, ragazzini nati e cresciuti in un ambiente in cui la mafia è la norma, dove bisogna essere più forti dei forti e più furbi dei furbi per emergere, tenendo fermi forse due o tre paletti “etici” (il rispetto per la famiglia, ad esempio) ma, fuori da essi, liberi tutti. Un mondo in cui se parli, meriti di essere ammazzato e poco importa se vengono uccisi anche innocenti nell’esplosione della bomba a te destinata: danni collaterali. Dove non puoi sgarrare, non puoi uscire, e anche se non sei dentro non puoi vedere o sentire, nemmeno casualmente, pena la morte. Un mondo che per noi è molto noir e a tinte fosche, che sa di pioggia e polvere da sparo. Ma non c’è traccia nelle parole di Giuseppe Salvatore di quest’immagine. Perché per lui è la banale normalità, che non stupisce né sconvolge. Perché forse davvero il male, la mafia, è prima di tutto l’assopimento della coscienza.
Come si risvegliano le coscienze? Come si combattono le mafie? Non bastano le leggi, né i fucili. I sacrifici di uomini eroici sono martirii in grado di ispirare intere generazioni, ma nemmeno quelli sono sufficienti. La formula, forse, è quella che aveva intuito don Pino Puglisi, un prete in grado di spaventare così tanto la mafia da venire ucciso: l’educazione. Un’educazione che deve partire dallo Stato e da noi tutti, in ogni momento della nostra vita. Perché se il più forte, il più furbo, è considerato quello che non paga il biglietto dell’autobus, poi quello che si mette in mutua per guardarsi la partita, poi quello che assume facendo contestualmente firmare la lettera di dimissioni, poi quello che evade di più…ecco, ben presto, in questa escalation, che appartiene in fondo a tutti noi, il più furbo diventa quello che riesce a minacciare, estorcere, finanche ammazzare per il proprio interesse, senza farsi scoprire. E, questo, non è più “arrangiarsi”, questo è mafia.
Alessandro Magrassi
foto di Simone D’Ambrosio