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Che fine hanno fatto i “matti” di Quarto? Dalla legge Basaglia, passando per la causa contro Asl, fino ad oggi, tra rivoluzione e normalità

Il lungo percorso che dal 1978 ha accompagnato il destino dei "matti" di Quarto, una storia che continua ancora oggi, tra successi e normalità


17 marzo 2017Notizie

manicomio-quarto-D3L’ex Ospedale psichiatrico di Quarto è stato “raccontato” molte volte, e su queste pagine abbiamo più volte documentato le novità che talvolta lo vedevano protagonista della sempre pretesa rinascita cittadina, fino alla resa totale alle leggi del profitto basato sull’urbanizzazione selvaggia. In ogni caso, un luogo caro e fortemente simbolico, da Collina dei matti a Polo di attrazione culturale oltre che sanitaria e sociale.

Oggi i progetti pubblici, seppur faticosamente, stiano andando avanti: il 23 Marzo, presso la sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale, è in programma un pubblico confronto fra il Municipio Levante ed il Coordinamento per Quarto da una parte, e rappresentanti delle istituzioni dall’altra, con l’intento di dar gambe all’accordo di programma da troppo tempo in sospeso.

Intanto le iniziative all’interno del complesso di Quarto procedono con buon ritmo e sempre più genovesi entrano nell’ex manicomio in cerca di corsi di formazione, seminari, laboratori e molto altro ancora. A volte capita di incontrare qualche ospite di quello che era uno fra gli ospedali psichiatrici più affollati, e sorge spontanea la domanda: ma dove saranno andati tutti gli altri pazienti ?

Che fine hanno fatto?

Ne parliamo con il dottore Natale Calderaro, allievo ed amico di Antonio Slavich e Franco Basaglia, che fu psichiatra a Quarto dal 1978 al 1985. «Arrivai in questo ospedale a fine 1978 chiamato proprio dal direttore Slavich e, tranne un breve ed intenso periodo in cui fui al Galliera, nel 1979, rimasi a Quarto fino al 1985». Una tempistica irripetibile, visto la rivoluzione giuridica in atto: «Al mio ingresso trovai nel reparto circa 150 degenti, molto diversi per età e per patologia, e francamente mi resi subito conto che il lavoro da fare era molto, e che non sarebbe stato per nulla facile. I primi tempi furono, infatti, molto duri: la Legge 180 era appena entrata in vigore e c’era grande confusione nei vari Ospedali e anche nell’opinione pubblica, divisa come al solito fra opposte fazioni». In ogni rivoluzione, si sa, ci sono molteplici sfumature. «A parole tutti erano d’accordo nel reclamare condizioni più umane per i pazienti psichiatrici, ma sui giornali si discuteva – e molto – sul metodo. Antonio Slavich era invece ben deciso nel suo programma riformista: ricordo che per prima cosa sequestrò tutte le camicie di forza con la stoffa delle quali fece rivestire le poltrone Frau del suo studio, per ricordare a tutti da dove si stava partendo. Fece segare le sbarre dalle finestre delle camerate, cercò di circondarsi, per quanto possibile, di persone di sua fiducia, che credessero nel progetto di far rientrare ogni paziente nel proprio ambiente, in modo da permettergli di ritrovarsi e ritrovare gli affetti, la famiglia, ma dove fossero anche ben accolti, ovviamente».

Un nuovo approccio che guardava non solo al presente ma anche al futuro dei pazienti: «Per questo le persone non venivano rispedite a casa come fossero stati degli oggetti, ma cercando prima di riallacciare la relazione con i familiari che erano invitati a venire in ospedale, superando la diffidenza che in certi casi era anche molto evidente». Ogni passaggio non era dato per scontato: «I pazienti erano accompagnati da noi (solitamente un dottore ed un infermiere) in visite “protette” nel loro ambiente – che talvolta sentivano come fortemente angosciante – finché il ritorno a casa non diventava una cosa del tutto naturale e comunque sempre seguita a distanza e in qualche modo monitorata prima da noi e poi dai SPDC». Un acronimo difficile che significava, e significa ancora oggi, perché esistono tuttora, Servizio psichiatrico diagnosi e cura. «Che poi eravamo sempre noi».

Ecco, ascoltando la narrazione del dottor Calderaro questo sembra essere stato uno snodo assai importante, anzi fondamentale, per tutto quello che è venuto dopo e che ancora vediamo a Quarto.  «In ogni caso era importante non svolgere questo lavoro di reinserimento in maniera ideologica – precisa lo psichiatra – perché quando c’erano forti resistenze da parte delle famiglie era fondamentale procedere gradualmente e senza imporre nulla. Poi nella stragrande maggioranza dei casi che ho seguito ciò che rassicurava maggiormente i familiari era la consapevolezza che noi del Servizio c’eravamo sempre, che saremmo intervenuti in qualsiasi momento fosse stato necessario e che ogni crisi che avessero segnalato sarebbe stata seguita con la massima attenzione».

Casa dolce casa, oppure no?

Manicomio di Quarto«Comunque – prosegue – non sempre il poter andare a casa rendeva felici i pazienti, anzi, talvolta li inquietava, perché la libertà come sappiamo è difficile da gestire, quindi per queste persone il lavoro da fare era più lungo e complesso». Un lavoro che partiva dai pazienti stessi: «Nessuno di loro fu forzato ad andare via e parecchi decisero di rimanere all’interno della struttura come ospiti; non uscivano magari da più di dieci anni e la loro casa ormai era il manicomio. In questi casi si cercò di portare dentro quello che loro non volevano o temevano di cercare fuori, dare un’occupazione, risvegliare l’interesse per il mondo esterno attraverso varie forme».

Una volta a “casa” il lavoro però continua: «Nel tempo abbiamo continuato a vedere questi pazienti ad intervalli regolari attraverso i Centri di Salute Mentale istituiti nel 1979 che hanno svolto, e tuttora svolgono, una funzione importantissima sul territorio, poiché si propongono non solo per l’emergenza ma anche per la prevenzione del disagio psichiatrico».

Alcuni degenti sono stati dirottati verso strutture private, ma secondo il dottor Calderaro non sono stati un numero significativo: «Credo che forse inizialmente qualche caso ci sia stato, ma non credo siano stati numeri importanti. Alla fine erano circa ottanta le persone rimaste ospiti dell’ex Ospedale Psichiatrico». Nel 2012 arriva la notizia che i pazienti erano stati «messi all’asta», a gruppi di 20, per essere affidati alle strutture che avessero vinto la gara d’appalto: «Scoppiò un putiferio che, paradossalmente, aiutò la rinascita di Quarto stesso. Infatti, attraverso l’Associazione famiglie pazienti psichiatrici (Alfapp), l’Asl fu denunciata e perse la causa, ritirando il provvedimento; da allora hanno ripreso vigore tutte le associazioni attorno a questo complesso portando ai risultati ottenuti lo scorso anno, anche grazie ad una inedita collaborazione fra gli Enti».

Semplicemente a casa

Conclude il dottor Calderaro: «Ormai saranno una cinquantina le persone residenti all’interno della struttura, parecchi di loro hanno piccoli incarichi lavorativi, tengono il bar ordinato, puliscono gli spazi sociali, hanno stretto legami molto solidi. Alla fine ci fanno pensare che il lavoro fatto è stato molto, e che certamente non è stato inutile. Ma anche che continua e dovrà continuare».

L’unica cosa che ci sentiamo di aggiungere ad una così completa relazione è che Quarto nell’immaginario collettivo ha il cuore in questa collina, matta per definizione: ed i suoi ospiti che qui vivono sono l’iconica presenza di un quartiere che guarda avanti ma che sempre da qui deve partire, qui dove tutto è cominciato.

Bruna Taravello


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