Il terzo appuntamento de "La Settimanale della Fotografia" porta a Genova uno dei fotografi più profondi e provocatori della scena internazionale: Mustafa Sabbagh
Il terzo incontro de “La Settimanale di Fotografia” porta a Genova un gigante della fotografia internazionale, che è al contempo un artista imprevedibile e provocatore. Nato in Giordania, da famiglia italo-palestinese, la sua fotografia è diventata fin da subito patrimonio mondiale per la moda e l’arte figurativa. La sua ricerca lo ha portato a stabilire che «La vera bellezza ferisce».
Come è iniziata questa storia d’amore con la Fotografia?
«È difficile dirlo, perché ognuno ha un suo linguaggio per parlare di certe cose. Forse la fotografia è stata sempre il linguaggio che mi apparteneva di più per parlare dei miei sentimenti verso il mondo. Certo, non sempre ci sono riuscito, ma per me ha la stessa valenza della parola. Quando ero piccolo, fotografavo per gioco, e quello che all’epoca avevamo a disposizione erano nelle polaroid, che sembravano per noi cose magiche: mi piaceva questa magia dell’immagine che appariva dopo una specie di pressione con il ditino. In realtà come tutti gli amori è difficile raccontarli e razionalizzarli».
Ma c’è stato un momento in cui ti sei accorto che era diventata la tua vita
«Ti dico la verità, non lo so neanche adesso, lo metto in dubbio sempre… come ogni storia d’amore, forse ha una data di scadenza, ma è scritta troppo piccola e non riesco a leggerla. Forse durerà all’infinito, o forse no, ma non vorrei darmi limiti, solo quando inizierò ad annoiarmi la lascerò, anche per rispetto della fotografia».
Durante il percorso, fonte ispirazione particolare
«Sono onnivoro, credo che un fotografo prima di tutto sia un accumulatore seriale, di cultura, immagini, film, suoni, sensazioni, incontro. Di questo ognuno fa la sua sintesi, lo spazio è quello che è, e si scarta quello che si ritiene superfluo. Prima o poi vengono fuori queste cose. Poi va detto che a me non piace razionalizzare, mi piace progettare, che vuol dire portare a termine delle idee. Ma devo dire che non mi piacciano neanche troppo gli obiettivi, perché potrebbero creare dei limiti, quando uno dovrebbe andare oltre ai suoi limiti».
Esiste una scelta sbagliata che credi di aver fatto e che non riferisti?
«Forse la mia troppa generosità: di fronte alla società io mi spoglio completamente, mi metto a nudo, e credo che sia un atto di generosità, e non di vanità. Questo mi è costato molta energia, ma ogni scelta che ho fatto la rifarei. Anche quelle sbagliate, perché ti lasciano qualcosa, costruiscono. Mi piace cambiare, e spesso quando vedo che i miei progetti stanno andando bene, mi viene da lasciarli li, perché credo che il peggior nemico di un creativo sia la noia. Per me è fondamentale trovare sempre tracce nuove, strade nuove. Per far capire agli altri che comunque puntare sempre sui punti migliori di se stesso, rischia di farti diventare come una fotocopiatrice».
Come definiresti la tua fotografia, se si può definire ….
«Forse sono egoista nel senso che io faccio sempre degli autoritratti anche quando “scatto gli altri”, forse in maniera onanistica, per un appagamento personale. Non penso che il mio dovere sia cambiare il mondo, il mio dovere è verso me stesso, cioè vedere il mondo attraverso di me. Mi piace il mondo com’è, anche con tutti i suoi problemi…».
Parliamo della fotografia degli altri allora… oggi siamo bombardati da immagini..
«Esatto, hai usato la parola giusta, siamo bombardati di immagini, non di fotografia. All’immagine manca il processo finale, rispetto alla fotografia che è un processo compiuto, dal pensarla fino a stamparla. Quelle che noi vediamo sono spesso immagini, che si fermano all’immateriale. A me interessa il processo finale, quello chimico… siamo bombardati di immagini ma conosciamo poco la fotografia».
E cosa si potrebbe fare?
«La quantità di informazione non è mai un difetto, dobbiamo solo allenarci a selezionare attraverso il nostro cervello qual è la parte più sana di quello che ci arriva. La fotografia è un processo democratico, tutti possono fotografare, ma come per le automobili, in molti hanno la patente ma in pochi finiscono a fare i piloti di formula uno. In realtà non cambia molto per il mondo della fotografia, e non credo sia pericoloso. L’unico pericolo che vedo è che chi si occupa di fotografia non sappia quello che sta facendo, il proprio ruolo e la profondità della materia».
Sei un fotografo di fama internazionale, ma perché hai scelto proprio l’Italia da cui tutti scappano?
«In questo momento storico credo che il mondo sia molto piccolo, non è importante dove hai il tuo armadio. Io posso spostarmi, e per una storia d’amore sono arrivato a Ferrara… il lato della vita privata è molto importante, e non voglio trascurarlo. In questo modo posso considerarmi fedifrago nei confronti della fotografia: io la tradisco sempre e lei non mi tradisce mai».
Cosa porterai nel tuo workshop?
«Farò lavorare loro, come ho sempre fatto. Non mi piace il fotografo vanitoso, che parla di sé, mi piacerebbe tirar fuori il meglio delle persone che ci saranno: sarà come una riunione di alcolisti anonimi, sarà un’orgia creativa. Ovviamente ho una specie di traccia nella mente, ma dopo poco, parlando con i ragazzi, avrà preso un’altra strada. Se non fosse così sarebbe falso. I cloni mi annoiano, e ce ne sono fin troppi in questa società, e non servono».
Che consiglio vorresti dare ai chi vorrebbe diventare fotografo
«Fammi questa domanda alla Settimanale, e vediamo cosa esce fuori…»
Nicola Giordanella