Il secondo incontro della Settimanale di Fotografia ha come ospite una colonna della fotografia italiana: Ferdinando Scianna, che ci racconta i nodi della sua lunga carriera
Nel secondo appuntamento de “La Settimanale di Fotografia” l’ospite è una colonna del fotogiornalismo, italiano e non. Parliamo di Ferdinando Scianna, classe 1943, che con le sue intuizioni, pratiche quanto istintive, ha segnato per sempre il modo di documentare la realtà, partendo da quella popolare a quella più legata alla cronaca.
Ferdinando, la sua lunga carriera è partita quasi per caso, seguendo la passione e l’intuito, raccontando la realtà che lo circondava. Quando ha capito che la fotografia era diventata la sua professione, la sua vita?
«Che fosse diventata una professione, l’ho capito con un certo ritardo. Quando ho incominciato, a 17 anni in Sicilia, senza nessun tipo di tradizione culturale che avesse a che fare con la fotografia; era più che altro un gioco, una passione, che non sapevo nemmeno potesse diventare un mestiere. Poi questa passione l’ho fatta diventare un metodo, una strada per trovare un sistema per fuggire dal destino preconfezionato che mi aspettava. Quindi ho iniziato a scattare in maniera più sistematica, guardandomi intorno… Dico sempre che ho incominciato a fotografare la Sicilia, perché la Sicilia era lì e io la potevo fotografare, e non il contrario, cioè era una realtà perché io la fotografavo. Da li è uscito il mio primo libro, che è servito come passaporto per emigrare come tanti dalla Sicilia, ma nel mio caso non sfuggendo dalla miseria ma inseguendo un sogno».
Ma la sua tecnica, che ha influenzato e continua ad influenzare molti fotografi, avrà avuto uno spunto…
«Ho molte domande inevase su questa faccenda, è difficile spiegarlo, ma quando ho incominciato non c’erano libri e poche riviste. Quando sono uscito con il primo libro, mi è stato detto che avevo forti influenze bressioniane: in realtà praticamente non lo conoscevo neanche; le prime stampe che ho visto, sapendo che fossero le sue, le ho viste anni dopo in casa del mio amico Sciascia. Leggevo quello che si poteva trovare nei pochi studi fotografici della regione. Quando ho preso il diploma liceale mi sono fatto regale una delle prime reflex in circolazione, con un solo obiettivo e il primo libro l’ho fatto così, sperimentando facendo. Non so se fu talento, io il talento non so cosa diavolo sia, e ho imparato le cose facendole… poi ho fatto il fotoreporter per l’Europeo, poi sono stato a Parigi come inviato, e nei 17 anni successivi ha sviluppato il mio stile».
Uno stile che ha conquistato, e influenzato, anche il mondo della moda…
«Negli anni 80, lasciando Parigi per tornare in Italia, è arrivata la richiesta imprevista e bizzarra di fare un catalogo di moda. Il mio approccio è stato quello del fotoreporter, perché era quello che sapevo fare, e la cosa ha incontrato i gusti del momento, ed ha funzionato».
Si è trovato a disagio?
«In precedenza avevo fatto delle prove, presentando dei provini per giornali di moda, ma erano talmente mediocri che la mia carriera di fotografo di moda sembrava finita li. Poi dopo tempo, avendo capito altre cose, sono stato capace di rispondere con un approccio diverso, istintivo, che ha funzionato».
La sua fotografia, soprattutto quella che raccontato l’espressione popolare della religiosità siciliana, è diventata iconica. Tanto iconica che forse oggi certe realtà sono perfino “schiave” di questa narrazione. Cosa ne pensa?
«Un pochino sento questa responsabilità, perché forse ho contribuito a trasformare quel tipo di indagine fotografica in una specie di luogo comune diffuso, soprattutto sulla tipologia “festa popolare”. Questa cosa, però, avveniva oltre 50 anni fa, cioè un’era geologica fa. Oggi è molto difficile oggi spiegare che il mondo di cinquant’ani fa, la passione per quello che mi circondava era maggiore della consapevolezza formale, una passione istintiva che poi ho dovuto digerire per farla diventare un linguaggio»
Di quel mondo, oggi cosa è rimasto?
«Il mondo di allora è diventato un luogo comune. La gente continua a fotografare quel mondo li escludendo quanto è successo nel frattempo, ricercando un passato che non c’è più, e la cosa rende tutto artefatto. In certe occasioni oggi ci sono più fotografi che processionanti».
E secondo lei ha senso?
«Rifarlo allo stesso modo non ha più senso, ci ho provato anche io anni dopo, ma andrebbe fatto contestualizzando nuovamente le cose che succedo, facendo capire che i riti sono diventati rappresentazioni: prima le processioni venivano fatteper se stessi, per ci si credeva, oggi si fanno più per turismo, per le foto, per promozione… ».
Per chi ci prova ancora cosa potrebbe suggerire?
«La professione di fotoreporter è in una crisi quasi mortale, non soltanto in Italia, ma nel mondo intero. Non ci sono consigli che si possano dare se non di fare quello che veramente ci appassiona, di cercare di fotografare la realtà intorno, perché se sarà difficile camparci per lo meno starai facendo una cosa che ti piace».
E allora un consiglio su cosa non fare?
«Spesso me lo chiedono, ma dovrebbero essere loro a spiegarlo a me, a spiegare come muoversi oggi, nel mondo di internet, telefonini… nel senso che oggi il mondo è talmente diverso al mondo in cui mi sono mosso e ho fatto la mia storia, che non c’è più. Bisogna trovare altri strumenti, altri interlocutori, altre modalità».
Scusi la domanda, ma nella sua carriera ha scattato migliaia di fotografie, ha una preferita?
«Scattare la foto è schiacciare un bottoncino che apre una finestra sul mondo di una frazione di secondo; quindi, nella maggior parte dei casi, non funziona, perché quello che vedi non coincide con quello che hai visto in quell’istante. Con il passare degli anni si impara a riconoscere quell’istante ma comunque non può esistere una solo fotografia è come domandare alla madre quale figlio preferisce, che probabilmente c’è ma non lo dirà mai…».
E allora le chiedo se secondo lei ci sono delle sue foto che sono state sopravalutate…
«Una quantità enorme! Credo che tutto la mia notorietà nasca da una sopravalutazione, e io credo di intendermi di fotografia (ride, ndr)… Ognuno fa quello che può fare, e se lo fa ha già compiuto il suo dovere».
A cosa sta lavorando oggi?
Oggi di tanto in tanfo faccio lavori che implicano un approccio più riflessivo, faccio ritratti e paesaggi. Inoltre, avendo fatto moltissime fotografie, molte per lavoro e innumerevoli per necessità personale, oggi lavoro molto sugli archivi, selezionando, relazionando, aggiungendo storie e parole. Come diceva Gassman “abbiamo un grande avvenire alle nostre spalle”…».
Nicola Giordanella