Già questa sera potrebbero arrivare 6 profughi nella chiesa di Mura degli Angeli. Il parrocco, don Gianni Grondona, e il responsabile diocesano del servizio Migrantes, don Giacomo Martino, ci raccontano come funziona l'accoglienza dei migranti nella Chiesa genovese e non solo, dopo l'appello di papa Francesco
Il quartiere di Mura Angeli, nella Sampierdarena arroccata sulle colline, poco prima del cimitero della Castagna, è una sorta di piccolo borgo a sé stante. Il nome stesso in realtà non è ufficiale ma è stato dato dagli abitanti, dato che la “via principale” di questa sorta di paese nella città è via Mura degli Angeli.
In questa realtà circoscritta, uno dei punti di riferimento, assieme ai bar e ai giardinetti, è la chiesa di Santa Maria della Vittoria. Un edificio dalle forme oggettivamente sgraziate ma molto caro ai residenti, che probabilmente già da questa sera, ospiterà 6 migranti.
Don Gianni Grondona, parroco di Santa Maria della Vittoria, ex missionario e assistente spirituale della comunità “San Benedetto al Porto” di Don Gallo, ha accettato di rispondere all’appello lanciato dall’associazione diocesana Migrantes e di rendere questa casa di Dio, un rifugio per chi scappa da guerra e povertà. «I ragazzi avranno l’impegno di formare comunità tra loro e di inserirsi nell’ambiente del nostro quartiere» ci dice nella luminosa sagrestia in cui ci riceve, «ognuno di loro avrà poi un impegno specifico che stiamo ancora definendo, sotto forma di borsa lavoro e anche questo servirà a rendersi più autonomi, per imparare a gestirsi e anche per dare più dignità ai servizi che faranno». Non mero assistenzialismo dunque, ma un processo di integrazione ragionato e serio.
Processo che riguarda tutte le parrocchie genovesi che siano disponibili ad aprire i cancelli del proprio sagrato, con il coordinamento dell’ufficio diocesano Migrante, il cui responsabile è don Giacomo Martino. E’ lo stesso sacerdote che ci aiuta a capire come è organizzata l’accoglienza ecclesiale.
Quante parrocchie in Genova portano avanti progetti di accoglienza come quello che tra poco ospiterà Santa Maria della Vittoria?
«Al momento questa è la terza parrocchia (le altre due sono Nostra Signora delle Vigne, in centro storico, e San Giacomo, a Cornigliano, ndr), però ci sono già altre cinque parrocchie che entro la fine dell’estate sono pronte a fare questo bel gesto concreto di accoglienza».
Quanto e perché nasce Migrantes?
«Nasce oltre 28 anni fa a livello nazionale insieme con quello che è il vero inizio della migrazione come fenomeno. Parte come fondazione nazionale, poi si sviluppano le sue ramificazioni all’interno delle varie diocesi per dare un’accoglienza a quelle che sono le comunità religiose di migranti residenti nel nostro territorio, in particolare quelle comunità cattoliche per le quali si vuole dare un’accoglienza anche di Chiesa; persone che vengono da posti diversi, che pregano in modo diverso e che, giustamente, devono trovare un po’ del loro modo di essere Chiesa anche qui da noi».
Si rivolge solo agli immigrati cattolici o è di portata più generica?
«Beh in realtà il punto di partenza è quello, un’attenzione dedicata alle comunità religiose; poi naturalmente, di fronte a un Dio che non fa differenza tra le persone, cerchiamo di essere davvero aperti a tutti e, soprattutto, di aiutare per quanto possibile tutti coloro che in qualche modo si sentono ancora stranieri nelle nostre città».
Qual è la tendenza verso questa accoglienza in Liguria, estendendo un po’ il campo di analisi? È crescente, in diminuzione, vorrebbe di più, temeva di meno…?
«Diciamo che la Liguria, contrariamente a quello che è un po’ il pensiero comune anche di noi liguri verso noi stessi, è estremamente accogliente. È giusto quindi, credo, per la gente dare una progettazione e un significato a questa accoglienza, strutturandola per renderla efficace. Questo vivere in perenne emergenza fa male a tutti».
Migrantes opera sotto direttive della curia o è una realtà a parte?
«È una realtà ecclesiale. Questo progetto di accoglienza concreta, in particolare, nasce in un supporto al di fuori di quelle che sono le nostre originarie missioni che ci vengono affidate. Recentemente, a livello ligure ci siamo incontrati con i responsabili dell’ufficio missionario della Caritas e di Migrantes proprio per tentare di fare un lavoro insieme».
Domanda provocatoria: se uno dei doveri di un sacerdote è l’obbedienza e il papa poco tempo fa ha proprio chiesto di accogliere, perché non lo fanno tutti i preti?
«Beh indubbiamente l’accoglienza può essere espressa in tanti modi. Lo dico sinceramente: ci sono effettivamente a volte impossibilità ad accogliere date dalla mancanza di spazi o incapacità personali a essere direttamente coinvolti sul campo; ci sono persone che in un qualche modo possono per sensibilità essere diversamente accoglienti. Credo che, però, la parola del papa circa la necessità di accogliere non sia stato un ordine quanto un invito; ma un invito molto, molto, molto dettagliato».
Ai rifugiati Migrantes dà delle mansioni, degli indirizzi, li coinvolge in attività…?
«Noi cerchiamo di eliminare ogni assistenzialismo, di creare un popolo nuovo che abbia sempre maggiori opportunità di interazione col territorio, con le altre persone. Cerchiamo di non generare solo grandi “case” ma di scendere attraverso le parrocchie nella particolarità di una realtà piccola, in una relazione che è fondamentale. Dico un popolo nuovo perché, proprio come diceva il papa durante la giornata del rifugiato a gennaio, l’accogliere l’altro indubbiamente fa sì che noi accogliamo e l’altro si adegui un po’ al luogo dov’è accolto, ma è altrettanto vero che anche noi dobbiamo cambiare perché accogliere l’altro vuol dire cambiare, diventare un po’ come l’altro».
Il Comune e gli enti pubblici in generale collaborano con voi nella gestione di questa delicata questione, oppure vi lasciano a “briglia sciolta” e, diciamolo, anche un po’ da soli?
«L’iniziativa è a livello europeo, le opportunità sono date anche da una sorta di progettazione europea che purtroppo, secondo me, ancora oggi è troppo emergenziale e troppo poco strutturata, per cui davvero in ogni anno ci si trova, in questo periodo in modo particolare, con situazioni difficili da affrontare. L’altra sera ero a vedere la partita di pallone al palasport con oltre 150 ragazzi ospitati lì che attendono di trovare una collocazione e questo credo che debba essere completamente rovesciato. Recentemente in un incontro col Comune, che ci sta concedendo degli spazi dove vorremmo fare una sorta di campus formativo per i nostri ragazzi, si stava dicendo che si dovrebbe passare dai centri di accoglienza in emergenza, che si chiamano CAS, a quelli invece che hanno una progettazione di maggiore inserimento nel territorio, che si chiamano SPRAR. Oggi le parti sono invertite rispetto a quanto sarebbe ottimale, più del 90% è ai CAS e meno del 10% è agli SPRAR, dovrebbe essere il contrario».
L’accoglienza delle parrocchie è unicamente legata a quelle che sono le scelte, i suggerimenti, le richieste di Migrantes o può anche essere un’iniziativa spontanea del parroco?
«La Cei per queste iniziative ha prodotto un vademecum interessante. Si tratta comunque di progetti che prevedono un iter che ha un altissimo controllo da parte della prefettura. È necessario non solo avere un’importante esperienza ma anche darsi una struttura che, forse, una singola parrocchia non riuscirebbe a fare o rischierebbe di fare con un modo così particolare che non sarebbe poi effettivamente utile per chi viene accolto».
A denti stretti: lei crede nella possibilità che l’integrazione davvero in Italia possa diventare effettiva e che non si finisca invece come in America, dove dopo 150 anni di coabitazione etnica ancora adesso hanno luogo violenti scontri razziali?
«Ci sono mille numeri, mille statistiche. Sentivo un economista che diceva che le forti migrazioni poi bilanciano l’andamento economico del paese, oppure altri che evidenziano il problema demografico in Italia per cui ogni anno la differenza fra nati e morti è di 450.000 persone, ma francamente non mi aiutano molto i numeri. Forse sono un po’ idealista, ma credo che gli italiani abbiano delle belle risorse di accoglienza e culturali che, sicuramente a fatica, sicuramente con qualche incidente, potranno dare buoni frutti. Credo e spero che, in questo, davvero l’Italia possa essere ancora una volta un esempio di accoglienza, così come a nostra volta siamo stati, forse non sempre benevolmente ma, accolti».
Sorge spontaneo il timore, in un periodo di rischio continuo di scontri etnici e di tristissimi fatti di razzismo che colpiscono anche il nostro paese (l’ultimo e il più vicino a noi è l’aggressione, pochi giorni fa, per motivi unicamente razzisti di sei italiani ai danni di un senegalese diciannovenne a Imperia mentre rincasava dal lavoro), che possa verificarsi un qualche incidente in grado di rendere un bel esempio di accoglienza (e coerenza ideologica) un pretesto per aumentare il tono di voce per chi vive di slogan xenofobi. Don Gianni, parroco di Santa Maria della Vittoria, ci risponde con un sorriso: «Con la paura non si va da nessuna parte» replica sereno. Non si scompone nemmeno quando lo provochiamo sottolineando che qualcuno potrebbe urlare indignato “prima gli italiani”. Il sacerdote ricorda, infatti, che le parrocchie già pongono in essere numerosi servizi di assistenza agli indigenti, di qualunque etnia, sul territorio, come la distribuzione di pacchi viveri e indumenti. «Poi, se vuoi la risposta da prete – conclude – il vangelo di domenica scorsa diceva che un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…non diceva che era un uomo straniero, che era un uomo italiano, che era un uomo povero o che era un uomo ricco, che era bravo o che era cattivo; era un uomo, e quindi un uomo ha bisogno, un uomo si accoglie».
Alessandro Magrassi