Duecento anni fa Il Congresso di Vienna stabilisce l’annessione dei territori della Superba alla corona sabauda, segnando la fine della secolare repubblica marinara
“Gli stati che componevano la già Repubblica di Genova, sono riuniti in perpetuo alli stati di S. M. il Re di Sardegna, per essere come questi posseduti da esso in tutta la sovranità, proprietà ed eredità, di maschio in maschio, per ordine di primogenitura nei due rami di sua Casa, cioè il ramo reale e ramo di Savoia-Carignano”. Con queste poche parole, duecento anni fa, veniva cancellata per sempre la Repubblica di Genova, dopo oltre sette secoli di storia. È l’articolo 86 delle disposizioni finali del Congresso di Vienna, attraverso il quale i grandi stati europei cercavano di restaurare l’ordine mondiale sconquassato dalla Rivoluzione Francese prima, e dal terremoto napoleonico dopo. Un tentativo che vedeva nella creazione di autonomi e forti stati-cuscinetto, pronti a tamponare una eventuale “ricaduta” dell’epidemia francese, la strategia fondamentale per il mantenimento dello status quo: di questo “trend diplomatico” ne approfittò casa Savoia, che vide accrescere il proprio territorio, ottenendo il dominio sul quella antica repubblica marinara che da sempre ne frenava e contrastava l’accesso al mare.
Una rivalità, tra quella che sarebbe diventata la casa reale dell’Italia unita e la Superba, che fin dal XVI secolo aveva movimentato la vita nella riviera di ponente e nei territori controllati dai Liguri al di là dell’Appennino, il cosiddetto “Oltregiogo genovese”. La prima guerra combattuta contro i Savoia, Genova la sostenne per il controllo del piccolo feudo di Zuccarello, vicino a Savona, di cui ne aveva comprato, nel 1567, parte del territorio. Gli stessi diritti venivano, però, rivendicati dal Ducato di Savoia, finché, dopo ricorsi e sentenze imperiali, si venne alle armi nell’aprile del 1624: appoggiati da un contingente francese, le truppe piemontesi presero Rossiglione, Novi, Voltaggio e Gavi, intenzionate a conquistare lo stesso capoluogo ligure. Solo grazie all’arrivo di una cospicua flotta spagnola, le ostilità cessarono, riportando la pace e ripristinando i confini. Da quel momento in avanti, Torino, cercò in tutti i modi di avere la meglio sui liguri, destabilizzando il governo della repubblica, alimentando rivalità intestine, aprendo questioni territoriali, portando avanti alleanze strategiche: famose le congiure Raggio, Balbi e Della Torre, tutte fallite, gli assedi di Albenga, Oneglia, spalleggiati dalle navi francesi, che nel 1684 bombardarono la città, tentando addirittura uno sbarco nei pressi di Albaro. La Repubblica di Genova, come è noto, dopo i fasti del XVI secolo, si stava avviando inesorabilmente verso il declino, incapace di far fronte agli interessi dei grandi stati nazione, che potevano armare centinaia di migliaia di soldati, contro le poche migliaia a disposizione del doge di turno. Le rivalità tra le famiglie nobili e lo spostamento dell’asse commerciale mondiale verso altri mari, fecero il resto.
Così, nel giro di poche decadi, la Dominante aveva visto ridursi lo spazio commerciale e l’influenza territoriale e politica; il controllo della Corsica, da sempre ribelle al dominio genovese, già ridotto a poche città costiere, venne meno: dopo diverse rivolte, alcune foraggiate dalla diplomazia segreta sabauda, l’isola fu ceduta ai francesi, all’epoca alleati, nel 1769. Genova dovette subire l’occupazione austro-piemontese, scaturita dalla rivendicazione territoriale di Finale, finita male; le truppe straniere furono guidate da Botta Adorno, un nobile di origine genovese, la cui famiglia però era stata rinnegata ed esiliata dalla Repubblica in seguito ad un attentato. In quel contesto nacque l’insurrezione popolare di Portoria, che portò alla cacciata degli occupanti, sconfitti sul campo, però, solamente grazie al supporto di truppe franco-spagnole. Questo episodio, diventato simbolo mitizzato della lotta contro lo straniero, fu in realtà una sommossa contro l’oppressione nobiliare, che veniva esercitata attraverso il governo dogale, più attento ai residui interessi finanziari delle grandi famiglie che alla prosperità del popolo. Giovan Battista Perasso detto il Balilla, al quale negli secoli gli furono fatte indossare diverse “giacchette”, da quella risorgimentale a quella fascista, in verità, quel sasso l’aveva scagliato contro una rappresentazione di autorità, che, ancora una volta, vessava il popolo. Questa scintilla, infatti, portò alla formazione spontanea di un governo popolare, in netta contrapposizione alla classe dirigente, poi contrastato e non riconosciuto, che tentò una riorganizzazione della repubblica. Un germoglio morto sul nascere, ma che anticipava in qualche modo quello che la deflagrazione della Rivoluzione Francese avrebbe reso ineluttabile qualche decennio più tardi. La Repubblica di Genova, quindi, sul finire del XVIII secolo, era divenuta poca cosa: un territorio esiguo, fuori dalle rotte commerciali sempre più mondiali, totalmente dipendente dagli equilibri diplomatici internazionali, e alla mercé delle forze straniere, visto che nel 1776, l’esercito ligure poteva contare solamente 2418 effettivi.
Quello che accadde a Parigi, cambiò i destini dell’Europa, e Genova ne seguì la sorte: l’Assemblea Legislativa rivoluzionaria aveva proclamato i diritti dell’uomo, abolito la nobiltà, distrutto i privilegi feudali e del clero; queste idee raggiunsero rapide tutti i popoli, muovendone gli animi.
“Il re di Sardegna, Vittorio Amedeo III, proponeva un’alleanza tra i Governi italiani per opporsi al torrente rivoluzionario che dilagava ovunque – scrive Federico Donaver nel 1890 – ma la Repubblica di Genova, come quella di Venezia, protestò di volersi serbare neutrale, sebbene la nobiltà, nelle cui mani stava il potere, tremasse al progresso delle idee francesi”. Una neutralità che però non fu rispettata dalla flotta inglese, che, affondando una nave francese ancora in porto, volle provocare la reazione di Parigi, come diversivo, per alleggerire il fronte settentrionale: a comandare le truppe d’oltralpe, però, c’era Napoleone Buonaparte la cui rapida avanzata nel ponente convinse il governo genovese ad allearsi nuovamente con i francesi. Era il 1796, e in Francia la rivoluzione si stava assestando, resistendo ai reflussi realisti e a se stessa: il giovane generale corso, all’inizio della sua epopea, alimentando moti insurrezionali (tra cui la vera e propria guerra civile tra i giacobini locali e i cosiddetti “Viva Maria”, fedeli alle autorità cittadine) e facendo intervenire le sue truppe in Val Bisagno e Polcevera, impose una costituzione che concedeva l’autorità legislativa a due assemblee elette, e il governo al Senato. Il 2 dicembre 1797, quindi, la Serenissima Repubblica di Genova divenne la Repubblica Democratica Ligure a cui furono annessi alcuni territori d’Oltregiogo sottratti agli austriaci. Il generale Andrea Massena, guidò la resistenza all’assedio portato dagli inglesi e dagli austriaci, in guerra contro la Francia, riuscendo a respingerli sulla linea dei forti. Perfino Ugo Foscolo combattè per la repubblica giacobina genovese, rimanendo ferito nei pressi del forte Puin. Anche in questo caso, però il destino del piccolo seguiva quello dei grandi: con la svolta dittatoriale di Napoleone, la stagione democratica terminò anche a Genova, annessa de facto all’Impero dei francesi nel 1805, e il suo territorio diviso in tre dipartimenti, con qualche residua autonomia, concessa grazie alla mediazione di Luigi Emanuele Corvetto, che sarebbe diventato ministro delle finanze del primo governo francese post 1815. Dopo pochi anni, e dopo feroci guerre, la parabola napoleonica si chiuse con la vittoria delle potenze restauratrici europee, il cui precipitato diplomatico fu discusso e messo nero su bianco durante i lavori del Congresso di Vienna, apertosi ufficialmente nel novembre del 1814, presso il castello di Schonbrunn, in Austria.
Nel frattempo, durante il materializzarsi della disfatta francese, sotto la minaccia di assedio da parte di Austriaci e Inglesi, ricevendo promessa di ripristino e tutela e della antica autonomia, il 26 aprile 1814, le autorità della città proclamavano la rinascita dell’indipendente Repubblica Genovese. Ma la ritrovata libertà, durò pochi mesi. Come spesso accade, la Storia regala coincidenze simboliche: il 10 dicembre 1814, mentre a Genova si festeggiava l’anniversario della cacciata degli austriaci, seguita alla rivolta di Portoria del 1746, in Austria, in virtù di un accordo segreto, veniva decisa irrevocabilmente la fine dell’indipendenza genovese, nonostante i tentativi dei diplomatici Agostino Pareto e Antonio Brignole Sale, inviati dal governo repubblicano a trattare le sorti del piccolo stato ligure. Il 7 gennaio, per compensare la cessione della Savoia alla Francia, Vittorio Emanuele I, re di Sardegna, annetteva tutti i territori di quella piccola repubblica che per secoli la sua casa aveva combattuto, contrastato e disprezzato. Un disprezzo che sopravvisse alla pacificazione, visto che il sovrano discendente Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, nel 1849, a seguito dei moti insurrezionali scoppiati in città, definì i genovesi “vile e infetta razza di canaglie”, giustificando ed elogiando l’operato del generale piemontese Alfonso La Marmora, che aveva ristabilito l’ordine dopo aver bombardato e saccheggiato la città.
Con il Congresso di Vienna, dunque, veniva posta la parola fine alla storia della Repubblica di Genova; ma da questo scaturì un nuovo capitolo: la Superba e la sua gente, negli anni, furono il terreno fertile da cui nacquero uomini, idee e imprese che prima fecero l’Italia, libera, e poi la difesero dal nazifascismo. Se quindi non era più il vessillo di San Giorgio a garrire sulle antiche mura e sui palazzi nobiliari, testimoni di un fasto che fu, tra i monti e il mare della Liguria, era lo spirito di libertà a ispirare ad accompagnare gli animi del popolo, e a continuare a scriverne la storia.
Nicola Giordanella