Le isole hanno innegabilmente un fascino speciale, ed i loro abitanti godono da sempre di una sorta di immunità, quasi fossero perennemente incolpevoli per un mondo che non hanno contribuito a cambiare, e del quale non si sentono responsabili. A Genova non ci sono isole, ma il quartiere di Albaro fin dai tempi più remoti […]
Autore Bbruno
Le isole hanno innegabilmente un fascino speciale, ed i loro abitanti godono da sempre di una sorta di immunità, quasi fossero perennemente incolpevoli per un mondo che non hanno contribuito a cambiare, e del quale non si sentono responsabili.
A Genova non ci sono isole, ma il quartiere di Albaro fin dai tempi più remoti è sempre stato una sorta di separato in casa per una città un tempo stretta fra porto e mura ed ora allungata sulle due riviere, dove ha superato insenature e colline mantenendo però enormi differenze fra una zona e l’altra, quasi ci fosse un arcipelago sparso casualmente sul territorio.
Per cercare di comprendere il dorato isolamento di Albaro occorre però fare un salto, anzi farne parecchi indietro nel tempo, fino alla cosiddetta “quarta repubblica” con il primo doge eletto a vita, Simon Boccanegra. A quel tempo il nucleo di Genova era molto più piccolo di quello che oggi noi chiamiamo centro, poiché ad est il fiume Bisagno tagliava in due la pianura agricola mentre la collina di San Benigno chiudeva la città a ponente, separandola nettamente dalla Val Polcevera.
I genovesi, per quanto conosciuti come mercanti e naviganti, vivevano anche, e forse soprattutto, di agricoltura. Alcuni testi riportano come, nel 1243 e nel 1284, pur nell’imperversare di battaglie sui mari, i comandanti in occasione della vendemmia riconducessero flotta ed esercito a casa per partecipare alla raccolta dell’uva.
“Città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura”, scriveva Petrarca nel 1358, non parlava certo della collina di Albaro, ma neanche un secolo dopo una raccolta di scritture notarili quattrocentesche, conservate presso l’Archivio vescovile di Piacenza, citano “Tra Capo di Faro ed Albaro si erge una Civitas Opulentissima” (che prevedono distrutta da un drago, ndr) ciò significa che la collina, per quanto fosse al confine, in qualche modo stava diventando parte di Genova.
La zona non rimase marginale a lungo poiché, oltre ad essere disseminata di monasteri e di campagne coltivate, era affascinante per la posizione. Secondo alcuni studi il toponimo “arba” cioè alba, proviene dall’esposizione a “oriente” della collina sospesa fra terra e mare.
Nonostante qualche monaco del tempo si lamentasse di un clima poco favorevole per gli ulivi, tormentati dai venti di scirocco, verso la metà del ‘500 quasi tutte le famiglie ricche e nobili possedevano terreni agricoli al di fuori delle mura. La zona di Albaro era il contesto perfetto per garantire reddito e piacevolezza della vita. Ben presto per soggiornare nei casali vennero costruite altre residenze, poi abbellite ed ampliate per portare la famiglia ed invitare ospiti di rango, tanto che la costruzione di ville nelle proprietà divenne anche un modo per rimarcare la propria solidità finanziaria e la propria posizione sociale.
Lo spazio a disposizione, raro per gli standard liguri, permise di adibire parte di terreni a parco, “asset” al tempo considerato parte essenziale della villa; ma se ancora possiamo ammirare molte di queste costruzioni, giunte quasi intatte fino a noi, spesso sono proprio gli spazi verdi che nel tempo sono stati in tutto o in parte sacrificati, vuoi per esigenze di infrastruttura urbanistica vuoi per la successiva lottizzazione.
Possiamo citare l’esempio di Villa Giustiniani Cambiaso, del 1548, oggi sede della Facoltà di Ingegneria, il cui parco fu rimpicciolito negli anni del primo dopoguerra; di poco successiva è Villa Saluzzo Bombrini detta “Paradiso”, posta sulla sommità di una collinetta in posizione meravigliosa e visibile a tutta la città, mantiene un ampio parco che fu comunque modificato per permettere la costruzione di Via Pozzo.
Queste, come numerose altre, erano disposte “a pettine” rispetto agli spartiacque delle basse colline; le facciate, infatti, dietro alti ed ampi muri, non guardano mai l’una all’altra ma verso le proprie corti, anche quando la stessa famiglia ne costruisce in serie più di un lotto, come appunto i Saluzzo, o i Brignole in Via Parini. In una città che della scarsità di piazze ha fatto la propria specificità, questo particolare ne chiarisce i motivi meglio di lunghe analisi: lo spazio è concepito entro le mura, e non fuori.
La moda di costruire residenze nobili non si fermò neanche nel secolo successivo, lungo i sentieri di campagna che da Sturla attraversavano San Martino per giungere ad Albaro, e nei poderi tagliati da stradine che risalivano dal lungo Bisagno. La collina era in pratica attraversata da una sola strada, che risaliva da Via Tommaseo e univa Via Pozzo (allora Via Olimpo) con Via Pisa a Sturla.
Nel 1797 la linea della storia della Repubblica di Genova fu sconquassata con la nascita della Repubblica Democratica Ligure, a seguito del dilagare delle idee rivoluzionarie “esportate” dall’esercito di Bonaparte.
Le famiglie avezze al potere della già da tempo indebolita Superba, schiacciata dai giganti degli stati-nazione e corrosa dalle rivalità oligarchiche, lottarono per mantenere le proprie prerogative, aizzando rivolte reazionarie.
Le famiglie avezze al potere della già da tempo indebolita Superba, schiacciata dai giganti degli stati-nazione e corrosa dalle rivalità oligarchiche, lottarono per mantenere le proprie prerogative, aizzando rivolte reazionarie. Famosa l’insurrezione invocata dal parroco di Albaro, che mobilitò anche i contadini della Val Bisagno: feroce la reazione dalle truppe franco-liguri, che occuparono Villa Bombrini Saluzzo e Villa Carrega, arrivando a posizionare due cannoni sulla collina di Albaro (mentre il parroco, non proprio un cuor di leone, fuggiva a Livorno via mare).
In pochi giorni l’insurrezione fu soffocata: il paese fu saccheggiato e furono bruciati locali pubblici e case. Nei decenni successive le rivolte contro i dominatori, francesi o piemontesi che fossero, non finirono qui, né per Genova né per Albaro ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Pubblicata su Wikipedia dall’utente Bbruno
Il malvisto dominio francese ebbe anche alcuni meriti, poiché iniziò subito un accurato censimento dei terreni e delle costruzioni: certamente per controllarne le rendite, allo scopo di imporre nuove tasse ai proprietari, ma anche per motivi tecnici, in quanto era sicuramente un primo passo verso quell’idea di organizzazione urbana che finora era mancata.
La città in effetti era priva di una strada carrabile che l’attraversasse tutta, ma non vi fu il tempo per progettarla poiché il congresso di Vienna nel 1814 sancì la definitiva annessione della Repubblica di Genova al Regno di Sardegna, che certo non apprezzavano particolarmente questa parte di territorio, come già in passato avevano dimostrato.
Il passaggio di Genova dall’indipendenza alla sudditanza di fatto significò anche profonde trasformazioni nella struttura economica, finanziaria e politica della città, aggravate dalla politica protezionistica adottata, che limitò ulteriormente i traffici portuali causando stagnazione nel commercio.
Albaro non risentì particolarmente, almeno all’inizio, di questo periodo di crisi: ai primi dell’800 era ancora “un’amenissima collina”, e la meta prediletta di numerosi ed illustri viaggiatori dai gusti ben più raffinati dei Sabaudi, provenienti soprattutto dalla Germania e dall’Inghilterra. I soggiorni ad Albaro dei visitatori più famosi (Byron, Mary Shelley, e dopo di loro Dickens) incantati dalla scogliera di Forte San Giuliano, dal borgo di Boccadasse, dalle passeggiate fra i vigneti sono ormai letteratura, come le pagine che hanno dedicato a questa parte di città. Le guide turistiche si dilungavano sulle bellezze delle colline disposte ad anfiteatro e dei superbi palazzi, magnifiche ville e giardini.
In seguito però i cambiamenti inevitabilmente iniziano a farsi sentire: i fondi agricoli non fruttavano più come in precedenza, a causa dell’ampliamento dei mercati e delle nuove possibilità di conservazione degli alimenti. Alcune famiglie di antichi possidenti cercando di aumentare i guadagni provvedono ad accorpare i terreni, ingrandendosi nel tentativo di migliorare le infrastrutture ammortizzandone meglio i costi; in questo modo numerose ville agricole passano di mano, introducendo personaggi emergenti della nuova borghesia imprenditoriale.
Con lo strutturarsi del Regno di Sardegna e la ripartenza degli scambi commerciali viene incrementata l’edificazione in tutta la città, in contemporanea con l’inizio di attività più prettamente industriali e la ripresa demografica: l‘architetto Barabino nel 1825 redige un “Progetto per aumentare le abitazioni nella città di Genova” dove appare chiaro quello che verrà da lì a poco, ossia l’espansione oltre le mura, e dove per la prima volta l’edilizia diventa uno strumento per attivare l’iniziativa privata e renderla funzionale allo sviluppo, ormai non più rinviabile, di infrastrutture e di servizi urbani.
Fino a questo momento, infatti, l’intervento pubblico in materia edilizia era interamente asservito agli interessi dei privati, che di volta in volta si rivolgevano all’ente chiedendo minuziosamente e contrattando ogni piccolo mutamento di costruzioni ed infrastrutture per renderle funzionali ai propri interessi: il processo per arrivare ad un’urbanistica progettuale, con un’idea di città e di espansione funzionale all’interesse della comunità sarebbe stato ancora lungo, ma le basi erano poste.
Nel 1873, accorpando i comuni di San Fruttuoso, Marassi, Staglieno, Foce e San Francesco d’Albaro si vengono componendo i progetti degli anni precedenti ed è un’epoca di grande euforia immobiliare: di quel periodo sono Via Assarotti, Via Caffaro e Via Serra, Via Roma e Galleria Mazzini. Anche Circonvallazione a Monte e Piazza Manin si aprono sulle pendici delle colline, e lungo la Val Bisagno magazzini, fabbriche e capannoni si alternano ai vecchi orti tenacemente mantenuti.
E la nostra collina di Albaro? Sempre a bassa densità di popolazione, sempre con le ville disposte a pettine lungo le crose e con solo l’Aurelia a collegare Sturla e Quarto; lungo la costa il borgo di Boccadasse ad un capo e quello della Foce dall’altra sono ancora abitati da pescatori e marinai, tutto apparentemente è sempre uguale. Ma alla vigilia del nuovo secolo c’è un primo “progetto di passeggiata a mare da Piazza del Popolo a Sturla”: con il pretesto di collegare meglio il quartiere con il centro città, si inizia a parlare di una strada fra la Foce e Boccadasse.
Si apre alla fine un concorso di idee per realizzare un adeguato accesso ad Albaro, ma nessuno dei tre progetti sarà accettato, poiché a questo punto diventa indispensabile la correlazione fra la strada ed un piano regolatore specifico per la zona che, in quanto residenza di grande pregio ambientale può “far servire quella regione per un agglomerato di persone facoltose, escluso qualsiasi concetto industriale” (dalla seduta del 16 dicembre 1896 della Giunta municipale).
Fra il 1900 ed il 1905, mentre si apriva un secondo concorso di progettazione per Albaro, i privati approfittando della richiesta di nuove case in zona si affrettavano a costruire, fiutando un prossimo cambiamento sia di valori che di regole. Di quel periodo si possono distinguere essenzialmente tre categorie di manufatti, uno di tipo “banale” medio-economico, nelle zone di Via Lavinia e Via Trieste; uno di livello superiore nella zona centrale di Via Albaro e Via San Luca d’Albaro ed infine la costruzione o la ristrutturazione di palazzine e ville, fra le quali Villa Canali Gaslini, in Corso Italia, ed il Castello Turke di Capo santa Chiara, dell’architetto Gino Coppedé.
Fu definita infine, con una sintesi quasi poetica, “una gentile città moderna” in grado di tener conto degli abitanti del futuro attirando contemporaneamente i migliori cittadini del presente
Le attese sul quartiere intanto si stanno facendo sempre più pressanti, da Albaro sembra passare la rappresentazione di una nuova città, da chi pretende che risponda a canoni di armonia urbanistica sul tipo dei colli fiorentini, a chi vuole adibire le nuove arterie viarie a pubblica passeggiata a chi infine la vede riservata al riposo ed al rilassamento delle classi elette. Fu definita infine, con una sintesi quasi poetica, “una gentile città moderna” in grado di tener conto degli abitanti del futuro attirando contemporaneamente i migliori cittadini del presente, tramite viali grandi ed ombreggiati, stabilimenti sportivi e risolvendo l’annosa questione dell’accesso al mare dei genovesi.
Quando finalmente viene approvato il Piano, nel 1906 (che diventerà legge nel 1914) si stava già ultimando la “città lusoria” tra Via Casaregis e Boccadasse, cioè Corso Italia, e i Bagni Lido. Questi, inaugurati nel 1908, si proponevano come valida alternativa ai più conosciuti stabilimenti balneari del Ponente Ligure (Sanremo, Ospedaletti, Bordighera) ed al fascino del Levante (Santa Margherita, Rapallo) offrendo anche sale concerto, ristoranti, teatri. Albaro riconquistava così, se mai l’avesse perduta, una dimensione ludica e turistica forse unica in città, che avrebbe mantenuto fino al secondo dopoguerra.
Durante la seconda guerra mondiale i bombardamenti non risparmiarono certo il quartiere: nel 1942 venne colpita la già citata Villa Saluzzo Bombrini così come altre residenze storiche; anche il Conservatorio Paganini riportò seri danni e numerose chiese subirono la stessa sorte, tra queste Santa Maria al Prato, quasi distrutta. Ad Albaro come nel resto della città si combatté duramente fra il 24 ed il 25 aprile del ’45, e proprio Via Pozzo e Via Giordano Bruno furono fra gli ultimi presidi abbandonati dai tedeschi prima della resa, unica in Italia, ottenuta da un esercito di popolo, quello genovese.
Questa è dunque la storia, abbreviata e sintetizzata, del quartiere che oggi noi conosciamo; per il suo aspetto relativamente preservato ed intatto deve molto ad uomini che, animati dalle più svariate intenzioni e dai diversi interessi e scopi, comunque in qualche modo arrivarono a blindare un progetto di città davvero “gentile” che negli anni è stata integrata, in qualche angolo forse violata, ma mai radicalmente rimaneggiata.
Nel dopoguerra si decise che il piano urbanistico di Albaro poteva mantenere validità fino al 1952: in quegli anni come sappiamo riprese vigore la febbre edilizia e la città, come abbiamo detto qui, cambiò aspetto: mentre a nord, sulle colline di San Martino e Borgoratti, soffiò una pesante speculazione che sembrava non voler mai terminare, Albaro, ebbe sorte migliore. Poche le palazzine modeste, ma tante le costruzioni derivanti dalla parcellizzazione e lottizzazione dei grandi parchi e delle grandi rendite terriere che erano sopravvissute nei secoli. Passeggiando tra le vie che si intrecciano nel quartiere è facile, infatti, imbattersi in muraglioni che racchiudono serie di palazzi, rimasti a memoria di potere “patrizio” che fu, diventato poi potere immobiliare.
Grazie ai vincoli posti e ad un credito di immagine ormai consolidato, e grazie al fatto di essere casa della classe dirigente della “Genova che conta” continuò ad essere “quell’amenissima collina, residenza degli strati più favoriti della popolazione” che ancora adesso sembra appartenere ad un altro mondo. Un’isola, forse.
Bruna Taravello