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Quali sono le cifre che girano attorno al sistema teatro genovese? Quanti fondi servono per portare avanti un ente di caratura nazionale come lo Stabile o una realtà più di nicchia? Chi fa più fatica? Proviamo a rispondere a un po’ di queste domande, andando a mettere il dito nelle piaghe di questo settore e facendoci raccontare lo stato dell’arte dagli stessi protagonisti
Genova città dei teatri. La definivano così il sindaco e l’assessore alla Cultura di una manciata di anni fa, Marta Vincenzi e Andrea Ranieri. Un’esagerazione, forse, ma certamente un’espressione che dava piena dignità a una delle principali attrattive culturali della città.
Sul numero 61 di Era Superba abbiamo pubblicato una lunga inchiesta per approfondire il “dietro le quinte” dei teatri di prosa genovesi. Bilanci e finanziamenti, programmi e progetti, per restare in piedi in un momento di grande difficoltà per un settore che storicamente ha vissuto in primis grazie a quelle risorse pubbliche oggi sempre più in via di estinzione e che ancora è alla ricerca di nuove forme di sostentamento.
Vi proponiamo sulle nostre pagine online un viaggio a puntate fra i teatri cittadini, partendo da un quadro generale per poi concentrarci sulle diverse realtà, palcoscenico per palcoscenico: Teatro Stabile, Teatro della Tosse, Archivolto, Politeama Genovese, Altrove, Teatro della Gioventù, Teatro Garage, Teatro Akropolis, Lunaria, Ortica e Teatro Cargo. Analizzeremo, dunque, esclusivamente il teatro di prosa, lasciando ad altri contesti le analisi sul Carlo Felice e sulla Gog e le numerose attività di compagnie professionali o amatoriali che non hanno una sede fissa.
«Sono molto orgogliosa dei nostri teatri – dice la direttrice dell’Archivolto, Pina Rando – perché da Genova passa davvero il meglio del teatro italiano. Ognuno nel suo settore, rispetto alle proprie caratteristiche artistiche. Abbiamo un’offerta straordinaria rispetto al bacino d’utenza e i teatri, molto spesso, sono pieni». Non solo l’opera del Carlo Felice o la prosa dello Stabile ma anche gli spettacoli del Politeama e dell’Archivolto, le sperimentazioni della Tosse e il fermento di un nugolo sterminato di realtà più piccole e un po’ di nicchia.
Ma non è tutto rosa e fiori. Anzi. È proprio a partire dagli anni in cui si inneggiava alla città dei teatri che sono iniziati i dolori: la crisi e i tagli hanno ridotto al lumicino i finanziamenti pubblici e privati. Le piccole realtà, laddove non hanno alzato bandiera bianca, hanno comunque boccheggiato a fatica. E le difficoltà non sono mancate neppure alle istituzioni cittadine, come il Carlo Felice, l’Archivolto e, ultimamente, anche lo Stabile, spesso protagoniste sulle prime pagine dei quotidiani locali. «Se ci fossimo messi a lavorare tutti insieme in modo concreto, avremmo potuto davvero raccontare Genova come città dei teatri – riprende Pina Rando – ma quando c’erano un po’ di soldi si è fatto poco o nulla e quando invece ci sarebbero stati i presupposti per iniziare a concretizzare l’idea, non c’erano più i soldi per farlo».
Già, i soldi. Il problema è sempre quello. Secondo Laura Sicignano, direttrice del Teatro Cargo: «Il sistema dei teatri è assolutamente fuori dall’economia di mercato: se si pensa che i teatri debbano sostenersi solo con lo sbigliettamento, tanto vale chiuderli».
Ma quali sono le cifre che girano attorno al sistema teatro genovese? Quanti fondi servono per portare avanti un ente di caratura nazionale come lo Stabile o una realtà decisamente più di nicchia come il Verdi? Chi fa più fatica? Proviamo a rispondere a un po’ di queste domande, andando a mettere il dito nelle piaghe di questo settore e facendoci raccontare lo stato dell’arte dagli stessi protagonisti.
Il sistema dei teatri è assolutamente fuori dall’economia di mercato: se si pensa che i teatri debbano sostenersi solo con lo sbigliettamento, tanto vale chiuderli».
Teatri pubblici (Carlo Felice e Stabile), fondazioni (Tosse e Archivolto), associazioni (Cargo, Ortica, Lunaria, Akropolis e molte altre) e realtà esclusivamente private (Politeama). A Genova c’è un po’ di tutto e non è semplice riuscire a fare un discorso complessivo. «Ci sono realtà interamente pubbliche come il Carlo Felice o lo Stabile – spiega Laura Sicignano – Fondazioni che hanno importanti elargizioni da Ministero, Regione e Comune e tante altre realtà che cercano di mettere insieme gli scarsi contributi pubblici con quelli privati, spesso attraverso procedure burocratiche complicatissime per cui non c’è neppure la forza lavoro sufficiente per seguirle». I teatri genovesi hanno una natura giuridica estremamente variegata producendo realtà difficilmente comparabili tra di loro, sia dal punto di vista della produzione artistica sia da quello della sostenibilità economica.
Il primo elemento che riunisce grandi e piccole realtà è rappresentato dall’indispensabilità dei contributi pubblici, siano essi del Ministero, della Regione o del Comune. Basti pensare che nel 2015 solo per Stabile, Archivolto e Tosse sono previsti da Roma quasi 3 milioni e 200 mila euro, a cui vanno aggiunti i contributi non ancora deliberati per il Politeama, quelli che potrebbero arrivare per le compagnie teatrali e 25 mila euro per il Suq. A tutto ciò vanno sommati i contributi del Comune grazie al bando per la richiesta di finanziamenti per la stagione 2014/15 (a bilancio sono state confermate le stesse cifre dello corso anno, ndr), e della Regione, che storicamente ha puntato quasi esclusivamente sulle grandi realtà. Il tutto senza dimenticare la scomparsa della Provincia che per anni ha rappresentato più di una stampella soprattutto per le piccole realtà costrette a dire addio ai fondi statali e che devono spartirsi le poche briciole elargite dagli enti locali e lottare con le unghie e con i denti per portare a casa qualche sponsorizzazione privata.
Anche considerando le incertezze dei contributi locali, i finanziamenti pubblici al settore teatro nel suo insieme non sono comunque bruscoletti. Eppure, non bastano. Come sia possibile, prova a spiegarlo Stefania Bertini, di Assoartisti-Confesercenti: «La vita culturale e l’espressione teatrale non sono fatte solo di teatri e festival. I teatri, anzi, rischiano di fagocitare tutto nonostante siano sempre meno e i festival siano sempre gli stessi. In questo modo restiamo bloccati anche a vecchi sistemi di finanziamento: si cerca sempre l’appoggio degli stessi enti che, però, ormai non possono offrire più di quanto già non stiano facendo e, anzi, per farlo sono costretti a togliere risorse ad altri settori. Manca il coraggio di aprirsi a nuovi orizzonti anche sul fronte delle risorse, come la progettazione europea che richiede molto lavoro, è più incerta e soprattutto costringe al confronto e ad avere i conti veramente in regola».
Le maggiori difficoltà sembrano, dunque, subirle le realtà più piccole, come ben sintetizza Daniela Ardini, direttrice di Lunaria: «I teatri piccoli non riescono a crescere, i medi non si consolidano e solo i grandi hanno finanziamenti pubblici e leggi che li tutelano». Certo le spese hanno ordini di grandezza differenti ma anche le capacità di incasso. «Il problema è che il modello dei finanziamenti a pioggia, in cui si dà un contentino a tutti, è sbagliato alla radice e crea veri e propri danni economici – sostiene Massimo Chiesa, direttore del Teatro della Gioventù – perché chi riceve pochi spiccioli prova comunque ad andare avanti e si indebita, spesso non riuscendo a rientrare degli investimenti e magari per tenere aperta la sala solo poche decine di serate in un anno. Invece, ci vorrebbe una riforma del sistema a livello locale, un Fondo unico per lo spettacolo regionale e comunale gestito con competenza e che possa fare selezione: un tesoretto da dividere, premiando la storia dei teatri e la qualità delle proposte».
In una realtà che prova a studiare la strada verso la rinascita, non sembra aiutare molto la tanto contestata riforma Franceschini che si poneva proprio l’obiettivo di riorganizzare i finanziamenti pubblici, rivedendo il poco funzionale sistema di elargizione a pioggia del Fondo unico dello spettacolo e puntando sulle realtà di maggior valore. Ma la nuova classificazione dei teatri in Nazionali, di Rilevante Interesse Culturale e Centri di Produzione, al momento non sembra dare i frutti sperati: «È una riforma scritta male e applicata peggio – sostiene, senza indugio, il direttore dello Stabile di Genova, Angelo Pastore – che speriamo possa essere ripresa nel breve periodo attraverso un tavolo di confronto con il Ministero. Non crea posti di lavoro, non libera energie e creatività ma ingabbia ancora di più il sistema con il difetto strutturale di voler punire chi aveva già qualche difficoltà e qualche difetto, inserendo paletti sempre più stringenti, ad esempio disincentivando le co-produzioni. Il teatro, invece, dovrebbe essere una palestra per il cervello».
«Una pulizia andava sicuramente fatta – ammette il direttore del Teatro Garage, Lorenzo Costa – ma la terra bruciata che stanno facendo rischia di non poter più essere recuperata. Il Ministero sta mettendo in pratica un repulisti pericoloso: qui non si tratta di fare rottamazione ma di valorizzare chi ha decenni di esperienza in questo campo».
Così, laddove non arriva il pubblico, ci si aggrappa al privato. «La maggior parte delle piccole realtà – dice Giunio Lavizzari Cuneo, amministratore del Teatro Verdi – si regge esclusivamente sui contributi privati, se in essi consideriamo anche gli introiti della bigliettazione, che altro non sono che il sostegno pagato dal pubblico. D’altronde è così anche all’estero, dove tutt’al più esistono leggi che aiutano i grandi e piccoli teatri privati dal punto di vista delle agevolazioni fiscali ma non con contributi diretti. Diversa, invece, deve essere la situazione per il Carlo Felice e per lo Stabile che sono teatri pubblici».
L’appiglio privato più importante a Genova ha un nome e cognome ben preciso: Compagnia di San Paolo. Dalla Fondazione torinese solo per attività teatrale (esclusi dunque i contributi per musica e concerti che ammontano a circa 300 mila euro e quelli per Palazzo Ducale che nel 2014 ammontavano a 550 mila euro) quest’anno sono arrivati sotto la Lanterna 615 mila euro, a cui vanno aggiunti i contributi per lo Stabile non ancora definitivi ma che l’anno scorso erano di 400 mila euro. Anche in questo caso, però, vige al momento grande incertezza perché la stessa Compagnia ha annunciato che il 2015 è l’ultimo anno per i finanziamenti elargiti attraverso lo storico bando per le “Arti Sceniche”, dall’anno prossimo si cambierà regime, anche se non si sa bene come.
Risulta, dunque, difficile, se non impossibile, fare programmazione ad ampio respiro. Come se ne esce?
Genova sarebbe uno spazio/laboratorio straordinario per la cultura. Eppure, basterebbe vincolare i contributi pubblici ai risultati: ci sono tante realtà che ormai non sono più abituate a fare i conti con il pubblico»
«Se Genova, dopo 25 anni, vuole confermarsi veramente città dei teatri – è la ricetta di Angelo Pastore, neo direttore dello Stabile – deve fare un decisivo investimento culturale. Cultura e turismo possono salvare la città e la Regione». Anche perché «studi economici hanno dimostrato che le risorse investite in un teatro, vengono restituite sette volte tanto» sostiene il direttore del Teatro Garage, Lorenzo Costa.
«Bisogna reinventarsi un modello – riprende Pastore – seguendo l’esempio di Torino e del Piemonte che non hanno più la produzione delle utilitarie ma si sono reinventati in polo di lusso. Così anche noi dovremmo puntare a un target medio alto, creando nuove sinergie con altri poli di produzione culturale come Palazzo Ducale e il Carlo Felice». Secondo Pastore, pubblico e privato devono fare sistema per capire come rilanciarsi in un contesto che ha decisamente meno risorse: «Bisogna studiare una serie di nuove proposte e alleanze e guardare con più ampio respiro al teatro europeo». Tra le proposte concrete, ad esempio, la creazione di abbonamenti incrociati e la necessità di dare risposta in maniera condivisa alle tante realtà genovesi di produzione artistico-teatrale. «Non ne vieni a capo se non c’è un progetto forte – avverte il direttore – unire forze e risorse può tornare utile. Ciò però non significa necessariamente creare un ente unico: noi siamo persone serie e facciamo collaborazioni solo se c’è un senso, non facciamo operazioni tra il ridicolo e l’imbarazzante com’è successo in altre realtà italiane che si sono unite a caso solo per potersi fregiare del titolo di teatro nazionale».
Ci vuole però anche un po’ di autocritica, come emerge dalle riflessioni di Stefania Bertini, Assoartisti: «Probabilmente sarà perché mancano le risorse ma c’è pochissima disponibilità a crescere e innovare: non viene data linfa ai giovani autori, attori o registi che siano, che vedono bloccata la propria creatività. Ne risulta un mercato assolutamente statico. Ed è un peccato perché Genova sarebbe uno spazio/laboratorio straordinario per la cultura. Eppure, basterebbe vincolare i contributi pubblici ai risultati: ci sono tante realtà che ormai non sono più abituate a fare i conti con il pubblico. E poi manca una promozione organica del sistema teatro, assieme a un processo di educazione del pubblico su cui, invece, si punta molto in Europa. Che cosa si fa per fidelizzare gli spettatori? Che cosa si fa per formare nuovi interessati?» Sulla stessa lunghezza d’onda, Giunio Lavizzari Cuneo, amministratore del Teatro Verdi: «In un sistema in cui le risorse pubbliche sono sempre minori, è evidente che le amministrazioni siano chiamate a fare delle scelte sui propri investimenti. E credo che nessuno direbbe, ad esempio, di togliere i soldi da un ospedale a favore di un teatro. Quindi è giusto che i privati si reggano sulle proprie gambe. Ma non possiamo passare di colpo da un sistema di finanziamento all’altro: bisogna riflettere su questo tema e trovare delle nuove forme efficaci per rilanciare il teatro».
Anche Lorenzo Costa, direttore del Teatro Garage, tende ad assolvere gli enti pubblici: «La situazione economica è molto difficile e gli enti locali fanno quello che possono. Le piccole realtà come la nostra non possono fare altro che rimboccarsi le maniche per cercare di ampliare le possibilità di entrata, ad esempio incrementando le produzioni: ma non è un compito facile perché nella maggior parte dei casi non si tratta di prodotti commerciali».
Dare una risposta univoca alla crisi sembra essere un compito improbo, anche perché ogni realtà ha la sua specificità non solo artistica ma anche economica, che tende giustamente a custodire. Nei prossimi articoli, dunque, proveremo a puntare la lente di ingrandimento sui singoli teatri per capire meglio quali siano quelli più in difficoltà e dove si possa trovare qualche via d’uscita.
Simone D’Ambrosio