Dopo la vittoria storica durante la Regata delle Repubbliche Marinare, è necessario un excursus storico sulle rivalità delle antiche città di mare. Perché le contese un tempo si risolvevano in maniera molto diversa
E così abbiamo vinto. Dopo diciassette anni, Genova trionfa alla Regata delle Antiche Repubbliche Marinare. Se fino all’anno scorso la nostra unica soddisfazione era di veder Pisa in coda al tabellone generale che dal 1955 tiene traccia delle vittorie – per la cronaca, Venezia è a quota 33, Amalfi 11, Genova 9, Pisa 8 –, quest’anno la soddisfazione è maggiore, giacché il pisano si colloca secondo, dietro di noi. E rosica. È vero: è Venezia il nemico da abbattere. Ma prima di Curzola c’è la Meloria… (con buona pace degli Amalfitani, con cui, in fin dei conti, si va d’accordo; e che, comunque, non fan mica paura). Celie a parte, la manifestazione è, certo, ragguardevole; se non altro per il fatto di possedere l’alto patronato della Presidenza della Repubblica.
Sorvolo sull’opportunità o meno di seguitare a definir “repubbliche” le nostre città di mare medievali, secondo un uso risorgimentale oggi del tutto fuori luogo – ma, d’altronde, Regata degli antichi comuni marittimi italiani o Regata delle antiche città di mare rette a comune o Regata delle “città-porto” contro le “città con porto” suonano strambi –; del resto, si tratta d’un bel modo per rievocare un periodo storico di straordinaria complessità ma anche di grande fascino. L’età delle tre false rivoluzioni – la “rivoluzione commerciale”, la “rivoluzione delle strade”, la “rivoluzione nautica” (false perché nessuna d’esse repentina quanto il termine “rivoluzione” vorrebbe far credere) – vide le nostre città di mare, con le proprie navi e i propri cavalli, lanciarsi nel Mediterraneo in un moto d’espansione che le avrebbe portate a sviluppare una concorrenza commerciale senza precedenti, presto tramutatasi in guerra aperta. Se tra Pisa e Genova le ostilità hanno inizio nel XII secolo, tra Genova e Venezia si combatte a partire dal XIII. E se Pisa è presto sbattuta fuori campo, con Venezia si seguiterà a combattere sino al primo Quattrocento. Gli episodi sono noti, e non è il caso, qui, di rammentarli – anzi, posso annunciare che ho in cantiere un volume sulla battaglia della Meloria (1284) (che mi sta costando parecchia fatica, giacché le fonti da vagliare sono molte più di quanto si creda) –, ma lasciatemi rammentare un episodio poco noto. Diciamo degno del migliore humour medievale.
Verso la fine del XII secolo, Genovesi e Pisani intraprendono una dura lotta per il controllo delle isole tirreniche. Nel 1195, un aspro scontro ha luogo a sud della Corsica, nei pressi di Bonifacio, dove i Pisani hanno edificato un fortilizio facendone – secondo il contemporaneo annalista genovese, Ottobono Scriba – “una casa di pirati, una spelonca di ladri; e avevano anche posto per le strade e le rotte marine i lacci di Satana per prendere mercanti e pellegrini che andavano per mare”. Ebbene: nell’abbordare i mercantili nemici, pare che i Pisani si rivolgessero ai Genovesi presenti a bordo con cotali parole: “Sgualdrine, mogli di Veneziani! Avete osato andar per mare? Se vorrete andare ancora per mare, gettate la spada, deponete le armi e andate come vanno le donne, altrimenti noi vi taglieremo il naso!”
“Sgualdrine, mogli di Veneziani”: un capolavoro. D’attribuirsi – credo – più che ai Pisani, alla perfida inventiva d’Ottobono che, probabilmente, pensa proprio a loro mentre scrive, prendendo, peraltro, due piccioni con una fava nel dare delle donne di facili costumi ai Genovesi (e, se la mia ipotesi è corretta, ai Pisani); e per esser più precisi, associando tale modo di fare alle figlie di Venezia, che incarnerebbero il tipo antropologico suddetto. Ora, l’insulto sagace era qualcosa di consueto tra comunità in lotta. Numerose sono le accuse di tal fatta che costellano il nostro Medioevo. Secondo il veneziano Andrea Dandolo, ad esempio, i Genovesi non erano altro che figli di Saraceni, in quanto frutto d’uno stupro collettivo perpetrato ai danni delle loro donne nel corso del famoso attacco subito nel 934/935. L’anonimo veneziano, autore delle Prophecies de Merlin, si riferisce loro chiamandoli “Aufriquans”, in maniera più che dispregiativa. In effetti, tali accuse mantenevano vivo il senso d’appartenenza alla propria comunità; cementato dall’odio per il nemico e rivale. Ancora nel 1797, tale odio risultava vivo e vegeto. Il viaggiatore inglese Thomas Watkins, di passaggio a Genova, narra d’una singolare disputa tenutasi in un’osteria cittadina tra due veneziani e i genovesi presenti. La discussione verteva – afferma Watkins con un po’ di stupore –, «not as it would in England, on politics or pleasure», ma sopra i meriti dei rispettivi santi patroni: San Giovanni Battista e San Marco. Secondo i Genovesi, il Battista aveva compiuto molti miracoli, e per questo era da ritenersi «the greatest of all saints». Per i Veneziani, San Marco era, invece, superiore al Battista giacché sedeva in cielo a fianco della Vergine: era questo, dunque, il motivo per cui il patriarca di Venezia era superiore all’arcivescovo di Genova. Gli animi dovettero scaldarsi: un genovese, indignato per l’affronto subìto, estrasse un pugnale e trafisse al cuore il veneziano gridando: «Ti manda questo San Giovanne; che ti guarìano le osse di San Marco!». Il compagno fu trucidato il giorno dopo. Per Watkins, che non assistette di persona all’episodio – riferitogli da un francese residente a Genova –, il fatto sarebbe esemplificativo del «national character» dei Genovesi. Ebbene: normale amministrazione in un mondo come quello portuale in cui era facile menar le mani. Che dire? Meno male che le cose si risolvon oggi a colpi di pagaia.
Antonio Musarra