Tramonto di un fallimento urbanistico fuori tempo massimo o visione profetica di “una visione fredda del mondo”?
“I fautori della modernità ci hanno insegnato a non fidarci di noi stessi e a non amarci. Tutte quelle storie sulla coscienza individuale, sul dolore solitario. La modernità si basava sulla nevrosi e sull’alienazione. Basta guardare l’arte, l’architettura che hanno espresso. Hanno qualcosa di molto freddo”
(J.G.Ballard, Regno a venire)
Tra le tante mutazioni urbanistiche genovesi degli ultimi anni, il 2020 appena concluso passerà alla storia cittadina non solo per la ricostruzione del viadotto sul Polcevera sulle macerie di Ponte Morandi ma anche, seppur con meno clamore, per l’inizio dell’abbattimento della Diga di Begato, divenuta un simbolo della peggiore architettura e urbanistica del secondo Novecento genovese e italiano. Per comprendere il significato storico di questo luogo e il suo monito per il presente ed il futuro, è opportuno allargare gli orizzonti spaziali, temporali e mentali oltre gli angusti confini cittadini e del dibattito puramente specialistico.
Due eventi ed un architetto hanno segnato indelebilmente la storia e l’immaginario urbani dell’ultimo quarto del XX secolo. Il 15 luglio 1972 i tre edifici centrali dell’enorme complesso residenziale di Pruitt-Igoe, alla periferia di Saint-Louis, vennero fatti saltare in aria con la dinamite dalle autorità comunali su richiesta esplicita e unanime degli abitanti. Costruiti appena diciassette anni prima per ospitare la popolazione immigrata dalle campagne intorno alla grande città del Missouri, questi formicai urbani concepiti dall’architetto Minoru Yamasaki sul modello della “città radiosa” di Le Corbusier avevano letteralmente fatto infuriare i suoi abitanti, divenendo in poco tempo un ricettacolo di degrado, alienazione e violenza. La demolizione di quel complesso fu eclatante e divenne rapidamente il simbolo del fallimento di un modello urbano che imperversava dalla fine della seconda guerra mondiale. Come ricorda Tom Wolfe, fu “un avvenimento storico per due motivi. Uno: per la prima volta, nella storia cinquantennale degli alloggi operai, si chiedeva un parere ai clienti. Due: la vox populi. La vox populi attaccò subito a intonare in coro: “Blow it… up! Blow it… up! Fatelo saltare in aria! Buttatelo giù!” (T.Wolfe, Architetti maledetti, Bompiani 1997, p.78). Caso vuole che proprio nel momento in cui quei tre blocchi venivano fatto brillare con la dinamite (molto materiale informativo si trova in rete sulla storia e sulla demolizione di Pruitt-Igoe, materiale all’interno del quale spicca ancora per capacità evocativa un bel capitolo del poema visivo Koyaanisqatsy di Godfrey Reggio), Yamasaki stesse portando a termine il secondo grande progetto della sua carriera, le Twin Towers, cuore del World Trade Center di New York, all’epoca i due grattacieli più alti del mondo. Inaugurati il 4 aprile 1973, essi, come noto, vennero abbattuti l’11 settembre 2001: un altro crollo, non voluto in questo caso dall’esasperazione degli abitanti, ma programmato da un commando di terroristi islamici che scelse quei grattacieli per il loro valore simbolico di summa del potere dell’Occidente (il capo attentatore Mohammed Atta era tra l’altro un architetto, laureatosi in Germania con una tesi contro la modernizzazione occidentale della sua città, Aleppo). Solo diciassette anni visse il complesso di Pruitt-Igoe, solo ventotto le Twin Towers; difficile trovare un architetto del XX secolo divenuto più celebre di Yamasaki per il fallimento e la sfortuna delle sue creazioni.
Casermoni popolari modellati sul modello della casa per abitare di Le Corbusier e grattacieli in acciaio e vetro come simboli del potere sono due architetture archetipiche del capitalismo del Novecento e diffusesi in tutti gli angoli del globo. Anche Genova, nel suo piccolo e con i suoi tempi dilatati, ha il suo Yamasaki locale e una storia che riflette questi cambiamenti epocali. Anche Genova ha infatti un sede locale della World Trade Centers Association (l’Associazione mondiale dedicata alla promozione e alla facilitazione del commercio mondiale), il World Trade Center Genoa, un grattacielo di 25 piani alto 102 metri costruito negli anni Ottanta nella zona di San Benigno dall’architetto Piero Gambacciani. Anche Genova ha la sua Pruitt-Igoe, la Diga di Begato, costruita anch’essa negli anni Ottanta come parte di un più ampio progetto urbanistico e oggi in via di demolizione, ancorché non con la dinamite, ma smontata pezzo per pezzo. L’architetto progettista di Begato è sempre Piero Gambacciani. Lo stesso architetto per due luoghi simbolo della Genova contemporanea e lo stesso destino nel secondo caso sono due similitudini cariche di significato in quanto specchio di trasformazioni internazionali epocali, ma le date non sono un dettaglio. Se Pruitt-Igoe segnò uno spartiacque all’interno della modernità funzionalista già nel 1972, la costruzione di Begato a distanza di un decennio ne fa infatti un fallimento decisamente fuori tempo massimo.
Piero Gambacciani era nato a Prato nel 1923. Il padre Tullio era un anarchico e morì giovane lasciando la famiglia in difficoltà. Il giovane Piero si iscrisse alla Facoltà di Architettura a Firenze nel 1941, sotto il magistero dell’architetto razionalista Giovanni Michelucci. L’8 settembre del 1943 aderì alla Repubblica Sociale di Mussolini ed il 25 aprile 1945, a Novara, si ritrovò davanti ad un plotone di esecuzione di partigiani. Fucilato e creduto morto, fu portato in ospedale da un prete e sopravvisse, ma con una condanna a morte sulla testa; il fratello, che invece era un ufficiale dell’esercito di Liberazione, lo prelevò dal carcere, sottraendolo a possibili vendette e riportandolo in Toscana. Ripresi gli studi e laureatosi nel 1948, Gambacciani giunse a Genova al seguito di Michelucci, e da allora non lasciò più la città, morendovi nel 2008. A Genova Gambacciani raggiunse nel corso degli anni una posizione professionale di gran rilievo, realizzando, oltre ad una una serie di edifici privati, numerose opere di grande impatto architettonico e urbanistico per la città, in un lungo arco di tempo che va dal grattacielo della SIP di Brignole costruito negli anni Sessanta per finire con il complesso residenziale-turistico di Ponte Morosini e Ponte Calvi nell’area del Porto Antico realizzato negli anni Novanta. Prosecutore della lezione corbusiana del genovese Daneri, Gambacciani ha notevolmente contribuito a definire l’identità urbana di fine Novecento di Genova nel segno della modernità tardofunzionalista che celebra se stessa sulle macerie dell’eredità storica della città. In questo senso, oltre a Begato e al WTC che ne fanno lo Yamasaki genovese, va ricordata almeno Corte Lambruschini. Fino al 1982 lì, nel cuore del quartiere di Borgo Pila, sorgeva, unico caso a Genova, un caseggiato ottocentesco a corte; più che un enorme palazzo era un piccolo quartiere a sé che, all’interno di un vasto perimetro di abitazioni popolari e operaie, racchiudeva la grande corte, sede di un mercato interno. Nel 1982 venne decisa la sua demolizione e, sulle sue macerie, Gambacciani vi costruì il nuovo centro direzionale in acciaio e vetro culminante nelle due torri principali, alte cento metri e suddivise in venti piani, che incombono all’angolo di Corso Buenos Aires.
Ma torniamo alla storia di Begato. La costruzione della Diga avvenne a compimento di un progetto urbanistico ben più articolato e complesso che merita di essere brevemente ricordato. Questo progetto – nominato ufficialmente quartiere Diamante, dal nome del forte che sovrasta la vallata, mentre Begato è il nome storico della località e della frazione di paese che sorge a qualche chilometro di distanza – parte da lontano. Nel 1965 la variante locale del Piano nazionale delle “Aree 167” per l’edilizia residenziale pubblica aveva previsto di insediare sui rilievi collinari che circondavano le alture comprese tra la Valpolcevera e il centro di Genova una popolazione di circa 70.000 persone. Era il momento del massimo trionfo del boom economico e industriale della città, la quale, secondo progettisti e statistici, avrebbe presto superato il milione di abitanti (alcuni di essi vaneggiavano addirittura cinque milioni), e quel progetto prevedeva di urbanizzare tutte le colline genovesi fino al limite rappresentato dalla cinta dei forti.
i negozi non hanno mai aperto; i servizi non sono mai stati istituiti; il parco urbano circostante è sparito ingoiato dall’incuria; la strada di collegamento che serpeggia tra i blocchi edilizi sui due versanti della collina è una pura striscia di asfalto priva di qualsiasi dimensione di servizio ed utilità sociali tipica delle strade di quartiere
Quel sogno di “progresso” durò poco, colpito e affondato dalla crisi industriale dei primi anni Settanta; conseguentemente la popolazione di Genova si stabilizzò prima di cominciare a decrescere costantemente fino ad oggi, rendendo obsoleta quella idea di urbanizzazione massiva. Così il Piano Regolatore Generale del 1976 limitò l’applicazione di quel progetto a poche aree, la principale delle quali fu proprio Begato, che fino a quel momento era stata una collina boscosa della Valpolcevera punteggiate di case contadine con annessi orti, che storicamente vantava una produzione di pregio di prodotti della campagna (cfr E.Poleggi, P.Cevini, Genova, Laterza 1981, p. 211) e che era stata per lungo tempo un luogo di villeggiatura. L’insediamento della nuova zona 167 di Begato – anche Scampia a Napoli è noto come il quartiere 167, figlio della stessa legge – avrebbe dovuto dare alloggio a 21.000 persone, il quaranta per cento della popolazione della Valpolcevera di allora. La realizzazione dell’area fu rapida; nel 1980 gran parte degli edifici erano completati. Il modello era quello solito della “città radiosa” formulato da Le Corbusier; grandi unità di abitazione modulari, teoricamente dotate di negozi e servizi interni e immerse in spazi verdi, con strade che servissero da collegamento sia interno che con il resto della città. La realtà si mostrò da subito ben diversa dalle tavole intrise di ottimismo del progetto: gli edifici, realizzati con “sistemi edilizi industrializzati e prefabbricati” a basso costo, si dimostrarono di pessima qualità; i negozi non hanno mai aperto; i servizi non sono mai stati istituiti; il parco urbano circostante è sparito ingoiato dall’incuria; la strada di collegamento che serpeggia tra i blocchi edilizi sui due versanti della collina è una pura striscia di asfalto priva di qualsiasi dimensione di servizio ed utilità sociali tipica delle strade di quartiere. Insomma, detto in parole povere, Begato è diventata la variante collinare, caratteristica della particolare orografia genovese, di uno degli infiniti, anonimi, ghetti-dormitorio che si posso vedere ai margini di qualsiasi territorio urbano dell’Occidente, dalle banlieues francesi alle nuove periferie che, da nord a sud – Rozzal Melara a Trieste, il Corviale a Roma, le Vele di Scampia a Napoli, i casi più celebri a cui la Begato ha avuto “l’onore” di essere stata accostata –, hanno riempito le nostre città di megastrutture allucinate in uno scenario distopico. “Sono quartieri per molti versi cresciuti in parallelo, edificati a distanza di qualche anno, ultime espressioni dell’edilizia pubblica tra anni Settanta e Ottanta. Si tratta di modelli insediativi completamente avulsi dal tessuto urbano, di un’urbanistica collinare fuori scala e fuori luogo, nata in un’epoca in cui la città aveva disperata fame di case e poco denaro da spendere, realizzazioni già anacronistiche e tristemente superate rispetto ai modelli dell’edilizia popolare europea coeva. Quartieri segnati da numerose debolezze, che si manifestano non solo nel livello di reddito e nella composizione demografica dei residenti, ma sono evidenti anche sul piano territoriale e infrastrutturale. Zone ‘amorfe’ della città che hanno a lungo funzionato come strumento di confinamento sociale” (A.Petrillo, La periferia elevata a potenza? Il caso del CEP a Genova, in Indagine sulle periferie, “Limes”, n°4, 2016, pp. 81-82). D’altronde che un quartiere concepito così, a distanza di dieci anni dal fallimento proclamato da Pruitt-Igoe e nel contesto specifico di Genova, fosse un’idea funesta in partenza fu evidente già da subito a più di un addetto ai lavori. Nel 1983, nel corso di un Congresso che si tenne in città, Bruno Gabrielli affermava: “A me sembra incredibile che si mandi avanti una iniziativa del tipo appunto di Begato, senza valutare minimamente quali possano essere le conseguenze a livello urbanistico, a livello sociale, a livello economico” (citato in M.Vergano, La costruzione della periferia. La città pubblica a Genova, 1950-1980, Gangemi 2015, p. 103).
A coronamento del piano di Begato arrivò da ultima la costruzione della famigerata Diga. Le due imponenti costruzioni, comunemente denominate “Dighe Rossa e Bianca” per il colore dei rivestimenti, proprio come una diga idrica tagliavano la vallata da Est a Ovest, dando la possibilità, grazie ad alcune passerelle pedonali sospese a mezz’aria e colleganti i due blocchi, di passare da un versante all’altro senza mai uscire dall’edificio. Inutile sottolineare come il complesso ebbe un forte impatto ambientale e paesaggistico, ostruendo completamente l’orizzonte.
Lo scopo iniziale della Diga doveva essere quello di ospitare per un periodo limitato di tempo un alto numero di famiglie per lo più sfrattate dal centro storico. Pochi anni prima era stata completata la scellerata distruzione del quartiere di via Madre di Dio e si scelse di spostare gli sfollati in questi casermoni posti all’interno della Valpolcevera, lontani e isolati dai caruggi e dal centro in cui erano abituati a vivere. Costituiti da oltre 500 alloggi, i due complessi della Diga hanno ospitato oltre 1200 persone (rimasti poco meno di 800 al momento della demolizione), il corrispettivo degli abitanti di un piccolo comune concentrati all’interno di un unico edificio. A dispetto delle intenzioni dichiarate e col passare degli anni, la Diga è rimasta a tutti gli effetti una residenza stabile per la maggior parte delle persone lì deportate, mentre solo una minima percentuale di esse ha trovato una sistemazione diversa. A fianco dei primi abitanti la titolarità a vedersi assegnato un alloggio nella Diga – con canoni di affitto bassissimi – è stata per decenni riservata alle liste che danno diritto ad una casa popolare: persone e nuclei famigliari con difficoltà socio-economiche e altri tipi di indigenza. Questa concentrazione di disagio sociale unita al fallimento da subito evidente del modello architettonico-urbanistico ha rapidamente trasformato Begato intera e la Diga in particolare in un vero e proprio ghetto. E’ facile fare una breve ricerca in rete o sui giornali per trovare molte descrizioni e testimonianze delle condizioni di vita vissute dai suoi abitanti. Mutatis mutandis esse riecheggiano la descrizione fatta da Tom Wolfe a proposito di Pruitt-Igoe parlando di una situazione vissuta quasi mezzo secolo prima: “Questi campagnoli inurbati provenivano da zone assai poco densamente popolate … dove raramente si saliva a più di tre metri sul livello del mare ammenoché non ci si arrampicasse su un albero: ed eccoli alloggiati in casermoni di 14 piani, a Pruitt-Igoe. A ciascun piano c’erano ballatoi coperti, in obbedienza al concetto di Corbu delle “strade per aria”. Siccome non v’era nell’agglomerato, alcun altro luogo ove peccare in pubblico, tutto ciò che d’ordinario sarebbe avvenuto nelle bettole, nei bordelli, nei caffè, nelle sale da biliardo, al lunapark, all’emporio, nei campi di granturco, nei pagliai, nelle stalle o nei granai, aveva luogo in quelle “strade per aria”. In confronto a quei boulevards di Corbu, la Gin Lane (o Vico dei Beoni) di Hogarth sarebbe sembrata una strada tranquilla” (T.Wolfe, op.cit., p.78).
Come a Pruitt-Igoe, gli abitanti della Diga sono stati costretti a districarsi all’improvviso tra ascensori, ballatoi, scale interne prive di luce naturale e spazi labirintici, percepiti rapidamente come luoghi alienanti e insicuri. Si è subito imposta ad essi la sensazione di vivere asserragliati. Di conseguenza i pianerottoli sono stati rapidamente chiusi con inferriate, isolando così i singoli appartamenti, e gli spazi comuni dei ballatoi sono stati divisi verticalmente, per limitare la circolazione di figure estranee. Molti appartamenti vuoti sono stati occupati ma non attraverso forme di lotta organizzata di “diritto alla casa”, come in altre città e situazioni (per esempio alle Vele di Scampia), ma quasi sempre in una logica di marginalità e disperazione. Nel frattempo i box, mai terminati, sono divenuti una “zona franca” per ogni sorta di attività illecita. All’esterno l’assenza di negozi e botteghe, bar e qualsivoglia luogo di cultura e socialità ha alimentato lo stesso senso di insicurezza e gli spazi pubblici, le piazze e i presunti luoghi di aggregazione sono stati ben presto divorati dall’incuria e dal degrado. E’ lo stesso scenario che era già stato vissuto dagli abitanti di Pruitt-Igoe, al punto che proprio l’analisi di quel clamoroso fallimento spinse – nel 1973, appena un anno dopo la distruzione di Pruitt-Igoe stessa – Oscar Newman, allora professore alla Washington University di Saint Louis, a scrivere il saggio Defensible Space. Crime and Prevention Through Urban Design, divenuto subito un classico della microsicurezza urbana, la risposta tecnica ad una visione securitaria dell’ambiente metropolitano. Osservando come gli spazi pubblici di Pruitt-Igoe fossero divenuti oggetti di abbandono e, conseguentemente, ricettacoli di un alto tasso di criminalità, Newman ne fece un caso studio per proporre soluzioni “riparatorie” che andavano dal design deterrente alla promozione di attività di sorveglianza informale da parte degli abitanti. La teoria dello “spazio difendibile” di Newman – che ha ottenuto grande successo nei piani dei dipartimenti di urbanistica e nelle retoriche politiche sulla sicurezza imperanti da decenni – aveva come sottotesto il principio che la tutela della sicurezza degli abitanti di luoghi anonimi e marginali debba passare non per la messa in discussione radicale dell’idea di città alla loro base, ma per pratiche concrete di sopravvivenza in un territorio ostile, pratiche fondate sul sospetto e sulla diffidenza che, di fatto, implicano la rinuncia definitiva alla dimensione sociale e pubblica della città e l’abitudine a considerare strade e piazze come territori naturalmente pericolosi da cui difendersi.
Alcuni storici dell’architettura locali, ammiratori del funzionalismo di Gambacciani, lamentano come la sua fama sia rimasta ancorata alla dimensione cittadina genovese. Questa constatazione si potrebbe spiegare con il semplice fatto che egli si è mostrato un epigono limitatosi a declinare localmente una tendenza internazionale, facendolo, soprattutto a Begato, particolarmente male e fuori tempo massimo. Ma per comprendere il significato più profondo di ciò che hanno rappresentato Begato e tutti i ghetti realizzati ben oltre la dead line rappresentata dall’abbattimento di Pruitt-Igoe, occorre andare alla radice della sua idea architettonica e urbanistica, alla sua matrice ideologica e pragmatica primigenia, ovvero all’opera e al pensiero di Le Corbusier.
Negli ultimi anni in Francia sono uscite diverse monografie che hanno ricostruito i legami profondi di Le Corbusier con l’estrema destra francese degli anni Venti e Trenta, sia in campo culturale che politico, legami spintisi fino all’ammirazione esplicita per Hitler e al collaborazionismo attivo con il regime di Vichy, e per altro ben occultati da Le Corbusier stesso nel secondo dopoguerra e trascurati dalla critica per decenni. Sarebbe facile fare un parallelismo con la militanza fascista del giovane Gambacciani, ma non è questo il punto interessante della questione che ci interessa.
Ciò che emerge di più interessante da questi saggi è il riduzionismo freddo e totalitario del suo pensiero. L’uomo, diceva Le Corbusier, è come un’ape costruttrice di cellule geometriche, o come una formica, «con delle abitudini precise, un comportamento unanime» (citato in X. Jarcy de, Le Corbusier, un fascisme français, Albin Michel 2015, p. 175). La vita dell’uomo moderno si riduce a quattro bisogni fondamentali: lavorare, riposare, abitare, circolare, e la città contemporanea deve rispondere nel modo più funzionale ad essi. La risposta architettonico-urbanistica naturale al loro soddisfacimento è la standardizzazione: in primis la standardizzazione della casa, una “macchina per abitare” che va organizzata nelle “unità di abitazione”, concepite ognuna come una piccola città verticale racchiusa in un unico edificio, capace di ospitare 1500 persone; contemporaneamente la standardizzazione della città, una macchina ortogonale, fredda e impersonale, votata al puro funzionamento della produzione economica; infine – e come conseguenza delle prime due – la standardizzazione della vita dei suoi abitanti, organizzati come masse laboriose e disciplinate che, come negli alveari e nei formicai, devono seguire percorsi obbligati e sempre uguali a se stessi. La fabbrica fordista, la catena di montaggio, “l’organizzazione scientifica del lavoro” di Taylor erano un modello assoluto di efficienza utilitaristica per Le Corbusier e per l’urbanistica funzionalista di quegli anni; lo erano ovviamente per il capitalismo, ma lo erano anche per i regimi totalitari. Questi ultimi non ressero, il capitalismo sì e si sarebbe aggiornato ed evoluto.
Il destino di Begato era già scritto nella convinzione di Le Corbusier che «fosse necessario disciplinare urbanisticamente le masse laboriose e, contemporaneamente, ghettizzare ai margini nel tessuto urbano, come corpi infetti, gli elementi non produttivi, i poveri, i marginali, i superflui.
Il capitalismo ha infatti fatto tesoro se non del modello integrale di città ideale di Le Corbusier, sicuramente del suo spirito ordinatore, modulando l’organizzazione urbana della vita sociale in funzione delle proprie esigenze economiche. Di radere completamente al suolo interi centri storici per sostituirli con griglie di grattacieli destinati ai luoghi del potere e dell’amministrazione – la soluzione pensata da Le Corbusier per tutti i centri urbani – se la sono sentita in pochi, anche se la tendenza a conservarli è stata dettata quasi unicamente dalle ragioni del profitto incarnate dal turismo e dalla gentrification; oppure lo si è fatto solo parzialmente, come avvenuto in modo clamoroso a Genova a Piccapietra e nel quartiere di via Madre di Dio. Di ammassare i poveri nei ghetti di periferia modellati sul principio delle “città radiose” nessuno si è fatto invece scrupolo. Il destino di Begato era già scritto nella convinzione di Le Corbusier che «la gerarchia è la legge del mondo organizzato nella natura come tra gli uomini» (Le Corbusier, Arte decorativa e design, Laterza 1973, p. 16) e che fosse necessario disciplinare urbanisticamente le masse laboriose e, contemporaneamente, ghettizzare ai margini nel tessuto urbano, come corpi infetti, gli elementi non produttivi, i poveri, i marginali, i superflui.
Le Corbusier amava definirsi un tecnico che risolve problemi e non un politico: «Tenevo molto a non uscire dal piano tecnico. Sono un architetto, non sono disposto a fare della politica. Che ciascuno nel proprio campo, secondo la più rigorosa specializzazione, conduca la propria soluzione alle estreme conseguenze» (Le Corbusier, Urbanistica, Il Saggiatore 2017, p. 290). Questa presunta neutralità è il tratto fondamentale del pensiero totalitario; in una vita sociale organizzata dall’alto in modo così capillare, gerarchica e razionale, dove nessuno può mettere in discussione l’ordine generale (ovvero fare politica), ognuno deve limitarsi a svolgere il proprio compito come un tecnico. La categoria fondamentale del pensiero di Le Corbusier non era dunque il nazifascismo – tant’è vero che egli si rivolse con altrettanto entusiasmo anche a Stalin – ma il totalitarismo economico-produttivista, l’ordine razionale e l’efficienza di un mondo industriale, tecnico e utilitarista: “una visione fredda del mondo”, per dirla con Marc Perelman, della quale le forme urbane delle “città radiose” sorte tutte uguali ai quattro angoli del globo, da Pruitt-Igoe fino a Begato (passando per le periferie delle città del socialismo reale, non a caso perfettamente speculari a quelli dell’Occidente capitalistico), hanno rappresentato una manifestazione tanto orribile nei risultati quanto coerente negli scopi. «L’opera-sistema di Le Corbusier è fermamente associata ad una visualizzazione totalitaria della vita, ad una compulsione ripetitiva dell’idea di macchina (umana, architettonica, urbana), all’inquietante progetto di un urbanismo della rarefazione visiva, al freddo allineamento di blocchi di edifici e unidimensionali. […] Poiché Le Corbusier non fu solo lo specchio della società dei suoi tempi, egli certamente fu l’espressione vivente e dunque pericolosa di quei tempi, l’individuo-soggetto, ma soprattutto il soggetto-progetto che ha cristallizzato nella propria persona il cupo divenire della città, l’anticipatore che ha proiettato, con un saper fare sicuramente inedito, un’esistenza sottomessa ad un behemoth urbano mostruoso» (M.Perelman, Une froide visione du monde, Michalon 2015, pp. 70-71).
L’organizzazione totalitaria delle forme di vita dell’uomo all’interno della città alveare è dunque la cifra urbana del Novecento inventata da Le Corbusier e pedissequamente ripresa da mille suoi seguaci, tra cui Gambacciani. In uno degli altri suoi progetti della metà degli anni Ottanta, modellando il nuovo quartiere di Quarto Alto secondo gli stessi schemi architettonici e urbanistici di una ennesima piccola “città radiosa” – e, non a caso, molti dei “profughi” della Diga di Begato vengono oggi ricollocati proprio a Quarto Alto -, Gambacciani ha definito il grattacielo più alto del complesso “il supercondominio” (citato in A.Vergano, op.cit., p.119). Non so se Gambacciani avesse letto e conoscesse Il condominio scritto da Ballard nel 1975 e volesse così fare del citazionismo autoironico. Non lo credo, visto che quel romanzo è una denuncia spietata della psicopatologia indotta dalle forme della macchina per abitare corbusiana, ancorché in una versione “borghese”, e che quasi tutti gli altri suoi romanzi dagli anni Settanta in poi sono incentrati sulla descrizione di una cupa distopia sociale incentrata sui non-luoghi caratteristici del tardocapitalismo. Nel suo ultimo grande romanzo prima di morire, Regno a venire, Ballard è arrivato a definire il consumismo indotto dai grandi centri commerciali come una nuova forma di totalitarismo, la cui veridicità profetica l’abbiamo potuta verificare recentemente osservando le code che si sono create fuori dai grandi centri commerciali nel periodo del lockdown e delle restrizioni, quando, non potendo muoversi liberamente o andare fare delle scampagnate, le masse delle metropoli si sono accalcate alle loro porte: “La società consumistica è la versione soft di uno stato di polizia. Crediamo di poter scegliere ma è tutto già deciso. Dobbiamo continuare a comprare, se no falliamo come cittadini. Il consumismo crea grossi bisogni inconsci che possono essere soddisfati solo dal fascismo. O almeno il fascismo è la forma che il consumismo prende quando decide di invocare la strada della pazzia elettiva… Questa è una nuova forma di totalitarismo che opera nei pressi dei registratori di cassa” (J.G.Ballard, Regno a venire, Feltrinelli 2006, p.114).
“Nel quadro delle campagne di politica sociale di questi ultimi anni, per rimediare alla crisi degli alloggi, prosegue febbrilmente la costruzione di topaie. Di fronte all’ingegnosità dei nostri ministri e dei nostri architetti urbanisti non si può che restare ammirati. Per evitare ogni disarmonia, costoro hanno messo a punto alcune topaie tipo, i cui progetti vengono impiegati ai quattro angoli della Francia. Il cemento armato è il loro materiale preferito. Questo materiale, che si presta alle forme più elastiche, viene adoperato soltanto per fare case quadrate. Il più bel risultato del genere sembra essere la “Città Radiosa” del generale Corbusier, benché le realizzazioni del brillante Perret gli contendano la palma. Nelle loro opere si sviluppa uno stile che fissa le norme del pensiero e della civiltà occidentale del ventesimo secolo e mezzo. E’ lo stile “caserma” e la casa del 1950 è una scatola. Lo scenario determina i gesti: noi costruiremo case appassionanti” (Internazionale lettrista, Costruzione di topaie, “Potlatch” n.3, 6 luglio 1954). Questo scrivevano i più radicali nemici del progetto politico di Le Corbusier – l’Internazionale lettrista è il gruppo parigino di Guy Debord antecedente alla creazione dell’Internazionale situazionista – un anno prima che Yamasaki completasse il complesso di Pruitt-Igoe e trenta prima che Gambacciani, ignorando quella lezione storica, ripetesse lo stesso modello a Begato. Per i situazionisti, lo stile di vita che si incarnava nelle città ristrutturate secondo il dettato funzionalista corbusiano era il campo sul quale il dominio totalitario del capitalismo moderno – quello che Debord avrebbe definito “la società dello spettacolo” – si espandeva in modo subdolo e pervasivo, aggiornandosi ai bisogni imposti dalla ristrutturazione della società dei consumi degli anni Cinquanta, la stessa che si sarebbe evoluta nella distopia descritta da Ballard. D’altronde, vedendo sorgere alla periferia di Parigi le banlieues, già nel 1961, i situazionisti furono facili profeti delle sommosse che le avrebbero attraversate decenni dopo: “Se i nazisti avessero conosciuto gli urbanisti di oggi, avrebbero trasformato i campi di concentramento in case popolari… i privilegiati delle città dormitorio non potranno che distruggere” (R.Vaneigem, Commenti contro l’urbanistica, “Internationale situationniste”, n°6, 1961, pp. 33-37, Nautilus 1994). L’Italia non è la Francia, Genova non è Parigi, Begato non è Sarcelles; la composizione sociale delle banlieues ne fa un caso unico nel contesto europeo. Begato non è mai stata caratterizzata da rivolte e oggi viene smantellata sommessamente, senza la volontà popolare espressa attraverso assemblee pubbliche né l’atto spettacolare della dinamite di Pruitt-Igoe.
Neanche il WTC di San Benigno, ben difficilmente e per fortuna, sarà bersaglio di attacchi terroristici come il suo fratello maggiore di New York. Egli rimane lì dov’è, una gelida lastra di vetro e acciaio sulla spianata che ha livellato il colle di San Benigno che per secoli divideva Genova dal ponente cittadino. Su questa piana il WTC è giocoforza diventato il vicino e il contraltare postmoderno della Lanterna di Genova che da novecento anni guida la navigazione al largo delle coste liguri del Mediterraneo. A questo proposito è buffo e significativo il fatto che Hitler fosse convinto che il Reich nazista sarebbe stato millenario e che, a fronte di questo delirio, Le Corbusier nel 1933 scrivesse alla madre che “Hitler può coronare la sua vita con un’operazione grandiosa: la pianificazione dell’Europa. […] Questa è la fine dei discorsi da tribuna o da assemblea, dell’eloquenza e della sterilità parlamentare. La rivoluzione si farà nel senso dell’ordine» (cit. in M.Perelman, op.cit., p. 39). Quel regno millenario durò fortunatamente soltanto dodici anni, meno ancora di Pruitt-Igoe e delle Twin Towers. E’ facile immaginare che anche le forme e lo spirito dell’architettura genovese di Gambacciani non si avvicineranno minimamente alla vita della ben più gloriosa Lanterna. Lo smantellamento di Begato dopo meno di quarant’anni di esistenza s’inserisce in questo processo; e sarebbe bello che esso fosse l’alba di una presa di coscienza collettiva del voler farla finita per sempre con questa “visione fredda del mondo” incarnata dall’urbanistica totalitaria degli architetti del Novecento e del volerne ricostruire uno nuovo, di mondo, popolato di case davvero “appassionanti”.
Eppure le forme di vita imposte dalle “città radiose” di Le Corbusier, da Pruitt-Igoe a Begato, al di là delle loro vetuste forme architettoniche, sembrano incarnare una profezia nefasta proprio alla luce di quanto abbiamo vissuto in questo 2020: il distanziamento sociale, la vita quotidiana reclusa in cellule abitative segregate dal mondo esterno, il tramonto della vita sociale e pubblica surrogata dalla realtà virtuale, la mobilità esterna ridotta al lavoro e agli spostamenti per necessità. Tutto ciò che era stato pensato da Le Corbusier come struttura della vita ridotta ad ingranaggio di una megamacchina produttiva lo abbiamo sperimentato in prima persona con l’emergenza della pandemia. Il problema è che molti di coloro che, stando ai vertici del comando economico planetario, hanno il potere di decidere delle nostre vite non esitano a predire che questo modello, opportunamente edulcorato, dovrebbe essere in qualche modo mantenuto anche una volta sconfitto il virus e cessata l’emergenza. Secondo i loro piani lo stato di eccezione temporanea dettato dalla pandemia potrebbe diventare preludio di una rivoluzione permanente. Per i capi del World Economic Forum la pandemia dovrebbe infatti essere esplicitamente l’opportunità da non perdere per il grande reset (cfr. K. Schwab, T.Malleret, Covid-19: The Great Reset, Forum Publishing 2020), l’avvio di quella quarta rivoluzione industriale (K. Schwab, La quarta rivoluzione industriale, FrancoAngeli 2019) che, grazie alle mirabolanti conquiste dell’era digitale, dovrebbe rendere strutturali alcune di queste sperimentazioni. In questa visione di futuro prossimo, il trionfo della virtualità, lo smart working e la didattica a distanza, l’innovazione tecnologico-digitale, le prospettive transumaniste e cyborg che arrivano a mettere in discussione persino il significato stesso di “essere umano”, si innestano su una organizzazione sociale nella quale il distanziamento, la separazione netta tra la “libertà” interna alle mura domestiche e limiti sempre più necessari alla vita sociale e pubblica, sistemi pervasivi di sorveglianza che aggiornano tecnologicamente la teoria dello spazio difendibile di Newman, dovrebbero diventare la norma, aggiornando in senso autoritario il tardocapitalismo alle crisi (ambientali, economiche e sociali) da esso stesso provocato. Meno libertà, più sicurezza; di questo i capi dell’economia mondiale parleranno al prossimo incontro del World Economic Forum di Davos. L’obiettivo esplicito di questa operazione è rendere l’Occidente liberale competitivo con la Cina, la potenza economica più forte al mondo ed un modello di autoritarismo statale capitalistico che, se fosse ancora vivo, Le Corbusier apprezzerebbe sicuramente molto, sia da un punto di vista politico-sociale che urbanistico. Non a caso una delle immagini più forti e simboliche di questo 2020, l’inizio della rivoluzione indotta dalla pandemia, è racchiusa nel video impressionante degli abitanti di Wuhan costretti dal lockdown a stare chiusi negli enormi “supercondomini” di quella megalopoli-alveare di undici milioni di abitanti che cantano all’unisono dalle finestre delle proprie cellule abitative per farsi coraggio. Una visione che sembrava tratta da un mix distopico di Metropolis di Fritz Lang e un romanzo di Ballard e che si è invece rivelata la profezia di una trasformazione globale forse appena agli esordi.
In questo scenario la “visione fredda del mondo” non si incarnerebbe più, forse, nelle forme obsolete e ostili di Pruitt-Igoe e Begato ma potrebbe propagarsi come un virus silenzioso degno di quello de Il demone sotto la pelle di Cronenberg, coltivato proprio nelle viscere di una macchina per abitare corbusiana (significativamente ribattezzata L’arca di Noè) e da lì pronto a propagarsi per il mondo. Quel film del 1975, concepito come una distopia ballardiana (il film è dello stesso anno de Il condominio) sulle relazioni tra una certa architettura moderna e l’avvertito pericoloso disfacimento della società occidentale, assume oggi i connotati di una metafora ancora più densa di significato. Là, nella finzione cinematografica del 1975, l’isolamento salvifico dalla crisi della civiltà su quella sorta di arca allegorica che era la “città radiosa” si trasformava, proprio grazie ad un virus, nella creazione di un nuovo modo di essere figlio dell’ambiente insostenibile in cui veniva generato. Qua, nella realtà presente, un virus nato e propagatosi per l’invadenza dell’uomo urbanizzato nei confronti degli equilibri di un ecosistema pianeta che abbiamo trasformato in una specie di supercondominio-alveare ci costringe a rimettere in discussione l’idea che si possa continuare a concepire la nostra vita come funzione della megamacchina economica e produttiva.
Di ben altre dighe avremo bisogno in quel caso, ma, nel frattempo, visto che il futuro resta ancora una incognita e la storia una pagina da scrivere collettivamente, limitiamoci, dal nostro piccolo punto di vista locale, a rivolgere uno sguardo benevolo che le luci della Lanterna possano idealmente ricongiungersi con quelle provenienti dalle colline di Begato non più ostruite da una colata di cemento, esclusione ed alienazione.
Leonardo Lippolis