Dal centro storico di Genova al ghetto di New York, il virus ricalca i confini delle disuguaglianze urbane
Il coronavirus non ha colpito con uguale intensità i quartieri genovesi. Lo ha accertato la recente instaurazione di zone rosse nei quartieri di Certosa, Rivarolo, Cornigliano in parte di Sampierdarena e sul 95% del centro storico, e poi la definizione delle zone di “coprifuoco”, dove dalle 21 della sera di giovedì 22 ottobre entreranno in vigore regole più stringenti per il contenimento del contagio.
Ma che la pandemia abbia diviso i territori e le città di tutto il mondo è un fatto ormai accertato. In ogni città, metropoli o megalopoli ci sono confini invisibili, ma netti e chiari, tra i quartieri che reggono meglio l’urto e quelli che invece pagano un prezzo salato in termini di contagi e vite umane. E i confini possono diventare fossati nei centri abitati caratterizzati da disuguaglianze più marcate. Tutte le ricerche e le analisi condotte negli ultimi mesi arrivano infatti alla conclusione che chi vive in quartieri poveri e socialmente disagiati ha più probabilità di ammalarsi e di morire di covid 19.
Prendiamo il caso di New York City, una delle città colpite più duramente dalla pandemia. Lì la diffusione della malattia e la distribuzione tra i diversi quartieri è mappata con precisione chirurgica e i numeri diffusi con una trasparenza ben maggiore rispetto a quella a cui siamo abituati. Nel momento in cui scriviamo questo articolo (sera del 21 ottobre 2020) «Molti dei quartieri con il numero più alto di casi pro capite – scrive il New York Times – sono aree con reddito mediano più basso e famiglie più numerose della media. Tra le zone più colpite ci sono comunità del South Bronx, nord e sudest del Queens e la gran parte di Staten Island. Se l’età è un fattore molto legato alla fatalità del covid-19, anche quartieri con alte concentrazioni di afroamericani e latinoamericani, così come quelli con residenti dal basso reddito, soffrono i più alti tassi di morti da covid 19».
Anche analisi e ricerche effettuate su città come Birmingham (Regno Unito), Mumbai (India), Nairobi (Kenya), Milwaukee (Stati Uniti), Montreal (Canada), Londra (Regno Unito) e Barcellona (Spagna) mostrano la stessa tendenza. Si tratta di città e contesti molto diversi tra loro, ma le aree più colpite dalla pandemia hanno caratteristiche ricorrenti: nuclei familiari numerosi che condividono spazi abitativi ridotti, presenza di lavoratori a basso reddito che non possono permettersi di lavorare da casa come fattorini, addetti alle pulizie, conducenti di mezzi pubblici, infermieri, badanti. O alti livelli di disoccupazione, povertà e disagio sociale in genere. Tutti fattori che anche in tempi normali portano a condizioni di salute peggiori, alla presenza di un numero più elevato che altrove di malattie croniche, che come ormai sappiamo spianano la strada al contagio e al Covid 19, che ha conseguenze più serie – persino fatali – più facilmente sui soggetti con patologie pregresse.
Paragonare le zone rosse genovesi con quelle di New York e delle altre città citate può essere azzardato. Troppo diversi i contesti, forse troppo piccola e “compatta” Genova per poter distinguere in modo netto i quartieri interni. Tant’è, in un quadro di emergenza sanitaria generale, le autorità hanno ritenuto di alzare ulteriormente il livello di guardia in un numero limitato di aree cittadine. In assenza di dati pubblici più precisi sulla distribuzione del contagio tra i quartieri (a parte qualche occasionale report dell’agenzia sanitaria regionale Alisa, il più recente dei quali risale a inizio mese) questa grave decisione amministrativa è al momento l’indicatore più chiaro delle disuguaglianze territoriali interne alla città di Genova di fronte alla pandemia. Decisione che ha interessato territori dove si ritrovano alcune delle caratteristiche che rendono i quartieri più fragili dal punto di vista sanitario.
Nel centro storico si concentrano alcune delle caratteristiche che ormai sappiamo contribuire alla diffusione del contagio: densità abitativa elevata ma anche appartamenti sovraffollati e talvolta occupati da più di un nucleo familiare, disoccupazione e povertà diffusa. Genova sotto molti aspetti ribalta il classico rapporto centro-periferie, con quest’ultime in molti casi più vivibili di un centro storico in molte sue aree degradato, povero, socialmente in difficoltà. E fragile davanti a un fenomeno come il coronavirus, che penetra più a fondo tra le pieghe del disagio.
Periferie in senso lato sono però Certosa, Rivarolo, Cornigliano e Sampierdarena, le altre aree rosse forse non a caso tutte e tre nella parte occidentale della città o in Val Polcevera, aree dal passato industriale e negli anni gravate di più servitù di altre. Aree che si trascinano dietro annose questioni sociali e che in tempi più recenti hanno visto suonare diversi campanelli d’allarme dal punto di vista sanitario. Nel 2016, il consigliere regionale Gianni Pastorino segnalava un aumento della mortalità femminile del 30% in Val Polcevera. Il dato era stato fornito dal dottor Valerio Gennaro dei Medici per l’Ambiente, che negli ultimi anni si è dedicato allo studio dei tassi di mortalità nei vari quartieri genovesi. Il metodo utilizzato dall’associazione consente nel calcolare la differenza tra il numero di morti attese per cause naturali nei diversi quartieri e quelle che invece effettivamente si registrano. Secondo i risultati più recenti dell’associazione, ad avere più morti del previsto sono in genere proprio i quartieri ponentini e quelli della Val Polcevera, in particolare aree come Pra’ e Cornigliano, quest’ultima confinante o prossima alle attuali zone rosse.
“Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell’Italia” diceva il premier Giuseppe Conte all’inizio del lockdown di marzo, ma sembra che in quel tutti qualcuno debba e abbia rinunciato a qualcosa più di altri. A partire dalla salute e proseguendo dalla possibilità di accedere ad una vita sana e dignitosa, e in un ambiente urbano salubre. Questi pochi mesi tra la prima e la seconda ondata, già messa in conto e largamente attesa da tutta la comunità scientifica, hanno però dato l’impressione che nonostante queste evidenze, non ci sia stato un cambio di prospettiva o un intenzione di cesura con il passato. Niente è stato fatto per potenziare il servizio di trasporto pubblico mentre l’assistenza socio sanitaria alle persone in difficoltà è ancora saldamente incardinata nel centralismo delle strutture sanitarie, con tutti i problemi di accessibilità che si porta dietro. Le tutele per i lavoratori non hanno segnato svolte e l’istruzione pubblica non è stata messa in sicurezza, lasciando alla “facoltà di connessione” il discrimine per l’accesso al sapere.
Ma non solo: nelle scelte ambientali e urbanistiche sono stati riproposti gli schemi di un passato responsabile delle criticità di oggi: lo si evince dalla vicenda dei depositi chimici di Multedo, che con buona probabilità saranno spostati nella solita Val Polcevera, mentre per il centro storico si sta aspettando il progetto di riqualificazione dell’amministrazione comunale e che, secondo le prime anticipazioni, sembra essere incardinato sui parametri del “benessere commerciale” più che del benessere di chi ci abita. Se ci abiterà ancora. E chi oggi è in zona rossa, lo sarà anche domani, ovunque essa sia.
Luca Lottero
Nicola Giordanella