Gli affreschi di Palazzo De Franchi, una delle novità dello scorso Rolli Days, testimoniano l'epica genovese che esaltava le famiglie nobili della repubblica. A cura di Antonio Musarra
Con la sua facciata anonima e il suo portale marmoreo – certo non grandioso –, Palazzo De Franchi rischia di mimetizzarsi tra i caseggiati che lo circondano nell’intrico dei vicoli del quartiere della Maddalena. Difficile costruire qui, nel fitto tessuto urbano della Genova medievale. Eppure, Giuseppe e Bernardo De Franchi vi si adattano, e nel 1563 iniziano a edificare la propria lussuosa dimora su terreni di proprietà Spinola e Grimaldi. Sono membri di una delle famiglie più in vista della Repubblica, che deriva la propria influenza dal denaro, accumulato con i traffici in terra di Spagna, e dagli incarichi ricoperti ai vari livelli dell’amministrazione pubblica. Nel giro di alcuni decenni, i De Franchi forniscono alla Repubblica ben due dogi, Girolamo e Federico, padre e figlio, che consolidano una fortuna fatta di denaro contante, investimenti, ma soprattutto proprietà immobiliari sparse dentro e fuori le mura.
Il loro è il tipico palazzo genovese organizzato intorno al cortile centrale porticato che si apre all’esterno verso l’alto per far penetrare nelle sale luce e aria fresca. Il fascino risiede nella decorazione ad affresco degli interni, che Federico De Franchi affida, nei primi decenni del Seicento, con una scelta singolare, a pittori di stile assai diverso come Bernardo Castello e Domenico Fiasella. In realtà, i due, qualcosa in comune ce l’hanno: conoscono bene la scuola genovese dell’affresco ma vogliono andare oltre la tradizione, e, cercando il salto di qualità, arrivano a proposte autonome.
Bernardo viaggia molto per le corti italiane. Si propone come pittore intellettuale in stretti rapporti con i maggiori letterati del suo tempo: da Ansaldo Cebà a Gabriello Chiabrera, da Giovanni Battista Marino a Torquato Tasso. Chiede a loro suggerimenti e accetta consigli che trasformano spesso i suoi cicli di affreschi in trasposizioni figurate dei temi prediletti da questi intellettuali.
Così accade a Palazzo De Franchi, nel grande salone al secondo piano nobile, dove Bernardo dipinge alcuni episodi della Gerusalemme Liberata del Tasso: il celebre poema che narra la conquista di Gerusalemme durante la prima crociata. Egli rilegge la vicenda in chiave decisamente patriottica, glorificando il contingente genovese in Terra Santa e il suo comandante, Guglielmo Embriaco. La volta è il teatro del racconto. Impaginata in maniera razionale, suddivisa in riquadri che ospitano un episodio dopo l’altro permettendo all’osservatore di seguire il filo della storia fino a giungere al grande quadro centrale, culmine della vicenda. Castelli e accampamenti di gusto scenografico fanno da quinte ai protagonisti, che dialogano tra loro come attori su un palcoscenico, vestiti con armature alla romana poco adatte alla battaglia, sottilissime e dai colori acidi; un tripudio di violetto, rosso slavato, giallo acceso e verdognolo.
Guglielmo Embriaco è il protagonista, perfettamente riconoscibile con la sua barba aguzza e il suo elmo piumato. Ora ordina ai Genovesi di dare fuoco alle navi per evitare che cadano in mano nemica, ora si inginocchia a capo scoperto di fronte a Gerusalemme e prega, ora dirige i carpentieri che costruiscono la torre d’assedio che ribalterà le sorti della battaglia. Al centro della volta, il pittore inscena l’ultimo assalto alla città. In primo piano, le schiere cristiane avanzano come in parata al suono dei tamburi, dietro i loro vessilli, verso le mura gremite dai difensori turchi che lanciano frecce e sassi sugli assalitori. A destra, la torre mobile è già appoggiata alle fortificazioni; i soldati si apprestano a salire sulla passerella per piombare addosso ai difensori. A guidarli è proprio Guglielmo Embriaco, che per il suo valore si era meritato il soprannome di Testa di Maglio. Infine, lo vediamo a cavallo che scaccia gli ultimi nemici dalle strade di una Gerusalemme tutta particolare, che con i suoi palazzi e le sue vie ricorda, più che una città orientale, la Genova di Bernardo Castello.
Diverso, il percorso di Domenico Fiasella. È originario di Sarzana ma a undici anni è già a Genova per imparare il mestiere del pittore. Dopo i primi insegnamenti si mette sulla via di Roma, il centro propulsivo della pittura italiana dell’epoca. Qui vede e impara dalle opere dei Carracci e soprattutto di Caravaggio, tornando in patria con un pacchetto di competenze estremamente aggiornate. A Roma acquisisce anche una certa fama tanto che le sue opere sono molto apprezzate sia dai suoi colleghi pittori – Guido Reni aveva per il Fiasella solo parole di lode –, sia dalla grande committenza e dallo stesso papa Paolo V Borghese, che teneva in gran conto una Fuga in Egitto del nostro che gli era stata regalata.
Nel salotto a fianco al grande salone, Domenico invade la volta con un solo riquadro in cui rappresenta un tema tratto dalla Bibbia, dalla storia di Sansone, il mitico eroe ebreo che traeva la sua forza smisurata dai lunghi capelli. Scelto da Dio per guidare la ribellione del popolo eletto contro i Filistei, aveva condotto una serie di azioni di guerriglia sempre più incisive tanto che gli ebrei, temendo ritorsioni, lo avevano catturato e avevano deciso di consegnarlo al nemico. Ma proprio nel momento della consegna, Sansone è invaso dallo spirito di Dio, che gli conferisce un’immensa forza, spezza le corde che lo tengono prigioniero e, raccolta una mascella d’asino trovata nei pressi, comincia a massacrare i Filistei. Fiasella lo rappresenta in questo momento di furia a dominare l’intero spazio figurato. Indossa un’armatura all’antica, alza la mascella d’asino e sta per vibrare un violento colpo sul guerriero che giace ai suoi piedi con lo scudo alzato per proteggersi. Intorno a lui, con straordinario virtuosismo, il pittore rappresenta numerosi corpi sdraiati in scorcio: morti dal colore livido, figure tramortite o accasciate che urlano di dolore. Un bambino e un ragazzo scappano dalla furia di Sansone, spariscono parzialmente nascosti dalla cornice dipinta, e nella foga finiscono per inciampare su uno dei cadaveri. Dietro Sansone, in mezzo a un paesaggio campestre illuminato dalle luci del tramonto, altri soldati: alcuni fuggono con gli scudi sulla schiena, altri serrano lo schieramento per tentare l’assalto. Su una collina, gli ebrei osservano la scena e forse capiscono in quell’istante che Sansone è veramente l’inviato da Dio che potrà liberarli dalla schiavitù.
Sansone è un’eroe positivo che, grazie all’aiuto dell’Onnipotente, riesce a vincere su nemici molto più numerosi perché la sua causa è giusta. Insieme ad altri protagonisti dei racconti biblici come Esther, diventa, in quel torno di anni, una delle allegorie della Repubblica di Genova, piccolo Stato ma sempre in grado di opporsi ai suoi avversari. Proprio pochi anni prima che Fiasella salisse sui ponteggi di Palazzo De Franchi, i genovesi si erano trovati a fronteggiare l’invasione del Duca di Savoia, Carlo Emanuele. Dopo un iniziale momento di sconforto, grazie all’unione tra il popolo e l’aristocrazia cittadina, la Repubblica aveva reagito sconfiggendo il duca così come Sansone aveva sconfitto i Filistei. Condottieri del passato e imprese del presente, glorie dello Stato che si riflettono sulla famiglia, questo avevano voluto i De Franchi per il loro palazzo. La decorazione delle pareti, oggi perduta, non poteva che rafforzare il potere di coinvolgimento di queste sale.
Matteo Capurro
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Matteo Capurro è laureando del corso di laurea magistrale in Storia dell’Arte e Valorizzazione del Patrimonio Artistico presso l’Università degli Studi di Genova. Si occupa di pittura italiana del Quattrocento, con particolare attenzione a Piero della Francesca, e di scultura in legno del Settecento, con particolare riguardo alla scuola genovese del Maragliano. Nel corso dell’ultima edizione dei Rolli days ha fatto da guida a centinaia di persone in visita a Palazzo De Franchi, per la prima volta aperto al pubblico, suscitando ampio consenso per la sua particolare verve espositiva. Gli abbiamo chiesto di mettere su carta quanto proferito dal suo verbo.
A cura di Antonio Musarra