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Un settore in eterno stallo con concessioni scadute e mancate gare di riassegnazione e che non porta soluzioni, ma problemi
Oggi, grazie all’idroelettrico, una parte importante della produzione elettrica nazionale è rinnovabile: nel 2016 si stimava il 15,3%. Tuttavia, più del 70% della potenza installata è costituita da impianti maestosi e in esercizio da prima degli anni Settanta. Ne deriva quindi un complesso di strutture troppo vecchio per stare al passo coi tempi in termini di adeguamento tecnologico e, soprattutto, sostenibile. Al contrario, invece, le numerose installazioni degli ultimi anni sono riconducibili al mini-elettrico con risultati non rilevanti in termini di produzione.
In futuro, il potenziale idroelettrico incorrerà in una decisa trasformazione a causa dei cambiamenti climatici. Si stima che per effetto delle variazioni delle precipitazioni annue – in diminuzione rispetto al passato – oltre che della maggiore evaporazione, il deflusso delle acque e, di riflesso, la produzione di energia elettrica nei prossimi anni calerà fino al 10%. Infatti, alla continua e inesorabile riduzione dei ghiacciai segue la scomparsa dell’acqua che deriva dalla loro fusione perciò, in un contesto così instabile, è bene rivedere lo sfruttamento dell’acqua allo scopo di produrre energia idroelettrica.
Come un film visto e rivisto, durante le forti ondate di maltempo, assistiamo alle stesse temute scene: piogge battenti che mettono in ginocchio intere comunità, a causa della cattiva manutenzione e pulizia dei torrenti che, puntuali, esondano e spazzano via tutto ciò che incontrano. Le conseguenze sono paesi che rimangono isolati, senza corrente elettrica e in grande difficoltà per giorni interi, oltre che danni materiali incalcolabili. L’emergenza climatica non è vicina, ma è già in atto, ed è ora che la classe politica stabilisca un piano d’azione rapido, efficace e soprattutto sostenibile. La recente proposta di del governatore Toti di installare degli invasi lungo i fiumi della Liguria per ‘disinnescarli’ e contenere le piene, non è passata inosservata e ben presto è arrivata la bocciatura da parte dell’associazione ambientalista Legambiente.
Mentre il governatore ligure pensa a emulare il cosiddetto ‘Modello Trentino’ tramite la creazione di mini-invasi lungo i torrenti della regione, c’è chi gli ricorda che le valli della Liguria a livello morfologico sono altamente diverse da quelle del Trentino. Inoltre, i nostri torrenti hanno un flusso molto variabile e per nulla costante – dipendente sostanzialmente dalle stagioni – e un mini impianto idroelettrico installato su un corso d’acqua per gran parte dell’anno secco equivale a mettere a rischio interi ecosistemi per produrre quantità di energia estremamente basse. Nel dossier sull’idroelettrico stilato da Legambiente nel 2018, emerge che nel 2014 oltre duemila impianti idroelettrici di potenza inferiore a 1MW hanno prodotto soltanto il due per mille dell’energia complessivamente consumata. Dallo studio ne deriva, poi, che costruire invasi – tramite il versamento di ingenti quantità di cemento – per ‘salvaguardare’ il territorio ligure innescherebbe un deterioramento del suolo, con conseguente incremento del dissesto idrogeologico.
L’obiettivo è di tutto rispetto: rendere meni pericolosi i torrenti e scongiurare le piene distruttive durante le ondate di maltempo come quella degli scorsi mesi che ha colpito l’estremo Ponente. I mini-invasi si pagherebbero da soli grazie alla creazione di energia elettrica e, in secondo luogo, conterrebbero l’acqua dei torrenti evitando inondazioni. Ma ci si è domandati come funzionano queste installazioni e se il gioco vale la candela? La questione del mini-elettrico in Liguria non è nuova: il Rio Carne, che score nell’imperiese, per anni è stato oggetto di battaglie, in quanto un progetto voleva la costruzione di una mini centrale idroelettrica lungo il suo corso che avrebbe però avuto un impatto negativo sull’ecosistema circostante. Il piano è stato stracciato soltanto grazie alla presenza di un ponte che ne ha impedito la realizzazione altrimenti la situazione, con tutta probabilità, sarebbe ancora irrisolta. Ma, nonostante i precedenti, il governatore ligure sembra intenzionato a riprendere in mano la tematica, anche se i tempi di realizzazione si ipotizzano superiori ad almeno un lustro.
In controtendenza con le dichiarazioni di Toti, solamente qualche mese fa, decine di associazioni ambientaliste protestavano contro tutti i progetti idroelettrici che mettono a rischio i corsi d’acqua e di conseguenza la fauna ittica che vive al loro interno. Si tratta della ‘protesta dei pesci’, nata per denunciare il furbesco modus operandi delle regioni che aggirano la Direttiva Quadro Acque, mettendo a rischio i corsi d’acqua naturali con progetti micro-idroelettrici totalmente incompatibili con la tutela del suolo e delle acque. La Direttiva Europea, infatti, punta a prevenire il deterioramento qualitativo e quantitativo delle acque, a migliorarne lo stato e ad assicurarne un suo utilizzo sostenibile. Quest’ultima stabiliva il 2015 come scadenza entro la quale tutte le acque europee dovevano risultare in buone condizioni, dove per ‘buono stato’ si intende la presenza una pressione antropica ridotta. L’obiettivo, purtroppo, non è stato centrato e probabilmente non lo sarà finché la legislazione in merito non sarà più severa e meno superficiale.
I piccoli impianti di sfruttamento delle acque a fini energetici apportano un contributo irrisorio al settore delle energie rinnovabili, ma l’impatto ambientale che ne deriva è devastante. Mentre l’attuale Decreto Rinnovabili FER 1 incentiva l’installazione di mini-centrali, ciò che andrebbe incentivata è la tutela di quei tratti fluviali ancora naturali delle nostre montagne e non la loro continua manipolazione. Per quanto gli impianti siano di dimensioni ridotte, questi finiscono per eliminare sentieri, territori per il pascolo, abbattere alberi e minacciare la sopravvivenza di specie rare di animali. Se nel secolo scorso quest’attenzione alla salvaguardia del paesaggio passava in secondo piano, all’interno di un’attività che offriva in cambio una grande domanda di manodopera locale unita ad un necessario presidio del territorio, oggi questi presupposti sono venuti meno per via della crescente automazione e dello sviluppo di sistemi di controllo da remoto. Senza contare la presa di coscienza rispetto alla crisi climatica che stiamo vivendo. È quindi alla luce del sole, ormai da anni, la consapevolezza che non vale la pena rovinare i nostri fiumi per una produzione così esigua di energia.
Sempre più ecosistemi sono ormai artificializzati – basti pensare che dal 2009 a questa parte sono sbucati oltre 3 mila nuovi impianti – e, complice il fatto di trattarsi di opere realizzate in luoghi perlopiù isolati, le trasgressioni alle normative vengono spesso non sanzionate. I dati non mentono: questi piccoli impianti costruiti lungo i torrenti sono inutili, producono poca energia, rovinano interi ecosistemi e arricchiscono solo i privati. In generale, ogni intervento di invaso comporta delle modifiche peggiorative sull’ambiente e di conseguenza sul patrimonio storico-culturale. L’impatto, in ogni caso negativo per il territorio, comporta lo sconvolgimento dell’ambiente naturale che viene brutalmente urbanizzato, mutamenti del microclima e dell’ecosistema. Insomma, mentre l’effetto di queste infrastrutture non sarebbe affatto irrilevante, non solo il gioco non vale la candela ma aumenterebbe il rischio di dissesto idrogeologico. In Liguria permane un problema di sicurezza ambientale che da tempo avrebbe dovuto essere affrontato, ma la risposta non sembra certo essere quella proposta dal governatore.
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad una spasmodica proliferazione di mini-centrali idroelettriche e al conseguente impatto negativo sull’habitat della flora e fauna. La manipolazione dei paesaggi naturali si ripercuote poi sul turismo, a causa della costruzione di opere di cementificazione e di strutture accessorie che rendono meno appetibili le destinazioni per i turisti. Come detto in precedenza, le attuali normative incentivano la loro propagazione e il business non accenna a smarrire il suo appeal, anche perché all’imprenditore che realizza una mini-centrale viene concessa persino la ‘pubblica utilità’ che comporta un ventaglio di vantaggi fra cui la possibilità di espropriare i proprietari dei terreni su cui si andrà a costruire.
Emergono poi delle contraddizioni di non poco conto in materia sul V.I.A (Valutazione Impatto Ambientale): in Liguria le mini-centrali elettriche – ossia quelle di potenza installata inferiore ai 100 KWh – non richiedono tale valutazione. Perciò, se un soggetto vuole realizzare un’installazione di potenza 400 KWh, può decidere con tutta convenienza di costruirne quattro di potenza 100 Kwh, sfuggendo così senza troppa difficoltà a quanto stabilito dalle normative sulla valutazione dell’impatto ambientale.
I nostri fiumi già sono provati dagli effetti della crisi climatica in atto e dunque da lunghi mesi di siccità, le installazioni di micro-idroelettrico provocano un ulteriore danno alle acque, le quali perdono la loro capacità di auto-depurarsi, di far crescere la vita al loro interno e si deteriorano, con il conseguente mancato raggiungimento degli obiettivi previsti dalle normative europee. È il cane che si morde la coda. Le mini-centrali idroelettriche funzionano in maniera ottimale se la portata d’acqua è costante tutto l’anno, ma se questa è variabile, per alcuni mesi le centrali rimangono necessariamente inattive, quindi con capitale investito immobilizzato. Si è notato come, prevalentemente, questi impianti vengano installati in aree montane gestite da piccoli comuni, dove è più difficile trovare strutture adeguate a verificare e ad approfondire in modo efficiente una documentazione progettuale e come spesso gli abitanti siano rimasti all’oscuro di progetti di questo genere.
La superficialità con la quale vengono approvati i progetti di mini-elettrico – senza minimamente considerare le conseguenze paesaggistiche o la presenza di specie protette – la dice lunga sul posto che ricopre la tutela della natura nella scala delle priorità. Occorre riscrivere le regole di tutela ambientale e di corretta gestione di questi impianti, regole che dovrebbero essere innovative e chiare, unite ad un sistema sanzionatorio rapido ed efficiente. Alla scadenza delle concessioni, servono gare per assegnarle con procedure regionali che stabiliscano criteri chiari di garanzia per le entrate pubbliche, eliminando lo squilibrio esistente in favore dei privati. Legambiente propone normative che prevedano la presenza di una commissione d’inchiesta in caso di contestazione e che sia obbligatoria la pubblicizzazione – fin dalle prime fasi – di un eventuale nuovo progetto per la costruzione di una mini-centrale.
E’ ai grandi impianti esistenti, e ormai parecchio datati, che bisogna guardare con attenzione in modo tale da mantenere, ma migliorare, la produzione idroelettrica dei prossimi anni. Secondo gli ambientalisti per l’installazione di altre centrali idroelettriche dovranno essere contemplate solo le reti già artificiali come acquedotti e fognature, siccome difficilmente sarà possibile individuare nuovi bacini con caratteristiche idonee alla costruzione. Nei grandi impianti le questioni più rilevanti riguardano l’elevata età – in media maggiore di 65 anni, mentre alcuni raggiungono quasi il secolo – e la conseguente assenza di adeguamento tecnologico e di manutenzione, spesso derivanti dai mancati rinnovi delle concessioni. Tale stallo si ripercuote sia sulla potenzialità produttiva, di cui se ne perde un 30% e sia sulla salubrità dell’ambiente, poiché la mancata messa a gara delle concessioni impedisce anche il compimento delle procedure di V.I.A.
Il ri-affidamento delle concessioni scadute con gara potrebbe essere finalmente l’occasione per rendere trasparente la gestione degli impianti e per evitare all’Italia, nuovamente, una messa in mora dalla Commissione Europea per il Mercato Interno come nel 2013. Paradossalmente, la ripetuta emissione di proroghe delle concessioni ormai scadute, ritarda le procedure di gara per la ri-assegnazione e non giova affatto alla produzione: dopo decenni di attività gli impianti e gli invasi necessitano di ingenti investimenti per essere rinnovati, per aumentarne l’efficienza e la sicurezza. Tali investimenti però per essere programmati e concretizzati, richiedono delle garanzie di redditività che sono possibili soltanto con adeguati tempi di ritorno e che sono bloccati in assenza di concessioni regolarmente rinnovate.
Paola Alemanno