Originale o copia? Reliquia o leggenda? Dal Catino esposto alla mostra sugli Embriaci al museo di Sant’Agostino, e solitamente conservato nel tesoro della cattedrale, si può ricostruire tutta la storia medievale di Genova. E persino un “sacco” napoleonico
La si attendeva da tempo. La mostra sul Medioevo genovese, recentemente inaugurata presso il Museo di Sant’Agostino, è quel che si suol dire “un lieto evento”, soprattutto per un città che di quel Medioevo conserva ancora molto, anzi, moltissimo. Certo, sarebbe stato meglio rendere il percorso espositivo più lineare perché chi entra nella chiesa di Sant’Agostino si trova un po’ in balìa di se stesso; qualche pannello, inoltre, riflette schemi storiografici piuttosto compassati, senza contare che, a dispetto del titolo – Genova nel Medioevo. Una capitale del Mediterraneo al tempo degli Embriaci – di Embriaci si parla, in fin dei conti, poco. Ma, in fondo, si tratta di sensazioni personali: nel complesso, si può dire che il lavoro effettuato sia, comunque, eccellente. Chiunque desideri conoscere i punti salienti della storia medievale genovese ha tutti gli strumenti a disposizione; soprattutto, ha di fronte a sé tutto ciò che serve per farsene, in certo qual modo, un’idea chiara: tessuti, oreficerie, marmi, monete, e poi quel Catino, solitamente conservato nel museo del Tesoro della cattedrale di San Lorenzo, che non manca d’attirare su di sé lo sguardo del visitatore, anche di quello più distratto. Nell’inaugurare questa mia piccola rubrica mensile, mi sono detto: perché non trattare brevemente di qualcosa che raccolga in se la “genovesità medievale” nel più ampio significato del termine? Ebbene: come si vedrà, il Catino fa esattamente al caso nostro.
Sarebbe troppo lungo elencare tutti coloro che hanno tratto spunto dal Catino per trattare di un’epoca nella quale, per così dire, Genova iniziava a “insuperbirsi”. Mi riferisco a quel medioevo centrale, compreso grossomodo tra i secoli X e XIII, che vide i Genovesi dare abbrivio alla propria espansione sui mari. Tra tutti, ho scelto il mio preferito: quel D’Annunzio che tanta parte ha avuto nel raccogliere e rielaborare i caratteri di quel “medievalismo risorgimentalistico” (o, se si vuole, di quel “risorgimento medievalistico”), che aveva fatto del Comune medievale e della sua “sacra espansione” sui mari una delle proprie fonti d’ispirazione. Ebbene: nel corso della guerra italo-turca, egli unì la propria vena medievistica, d’ascendenza prettamente carducciana e, dunque, profondamente, civica, con i più ampi orizzonti mediterranei, producendo autentici capolavori quali la Canzone d’Oltremare, la Canzone del Sacramento o la Canzone del Sangue, contenute in Merope, ritenuto il quarto libro delle Laudi. Nella Canzone del Sangue, una copia della quale fu donata dal poeta stesso, nel 1911, al Consorzio autonomo del porto di Genova, D’Annunzio prende spunto dal Catino per cantare la potenza genovese nel Mediterraneo:
In Cristo Re o Genova, t’invoco.
Avvampi. Odo il tuo Cìntraco, nel caldo
vento, gridarti che tu guardi il fuoco.
Non Spinola né Fiesco né Grimaldo
trae con la stipa. Il sangue del Signore
bulica nella tazza di smeraldo.
S’invermiglia a miracolo d’ardore
il tuo bel San Lorenzo, come quando
tornò di Cesarèa l’espugnatore.
Tornò Guglielmo Embrìaco recando
ai consoli giurati, in sul cuscino,
tra la sesta e il bastone di comando,
tra la coltella e il regolo, il catino
ove Giuseppe e Nicodemo accolto
aveano il sangue dell’Amor divino.
Era desso, l’Embrìaco, figliuolto,
quei che fece al Buglione il battifredo
onde il vóto santissimo fu sciolto.
Con le mani che diedero a Goffredo
la scala invitta, sopra il popol misto
levò la tazza. E il popol disse: “Credo”.
E ribolliva il sangue ad ogni acquisto
di Terrasanta; e n’eri tutta rossa,
il popolo gridando: “Cristo, Cristo!
Cristo ne preste grazia che si possa
andar di bene in meglio”. E la Compagna
incastellava cocca e galèa grossa.
Come si vede, il Catino possiede un’intrinseca simbolicità. Ma di che si tratta? Che cosa sappiamo di questo piatto dalla forma esagonale e dal colore tanto particolare? In realtà, Caffaro, il primo cronista genovese, autore di un opuscolo espressamente dedicato alla partecipazione dei propri concittadini alla crociata, non ne parla affatto. È Guglielmo di Tiro, vissuto in pieno XII secolo, a citarlo per primo, riportando verosimilmente quanto circolava su di esso. A suo dire, i Genovesi erano soliti mostrarlo ai visitatori più illustri, sostenendone il carattere smeraldino, attestato, in realtà, soltanto dal colore. Verso la metà del Trecento, Francesco Petrarca lo dirà comunque meritevole di visita, e ciò a prescindere dal materiale di cui era fatto. E, certamente, il Catino merita d’essere visto, e studiato, anche solo per scoprire che è probabilmente di fattura islamica, databile al IX-X secolo. Ciò che colpisce il visitatore, a ogni modo (quantomeno quello più attento e preparato) è la connessione tra l’oggetto e le vicende graaliche. Intendiamoci: non è affatto certo che i Genovesi, o, quantomeno, che l’élite colta cittadina, credessero di possedere davvero il piatto utilizzato da Gesù nel corso dell’Ultima Cena (o da Nicodemo per raccogliere il sangue del Signore crocifisso); solo che era comodo farlo. Tali connessioni, sviluppatesi nel corso della seconda metà del Duecento, erano sfruttate per impressionare, per mostrare a prelati, diplomatici e ambasciatori in visita a Genova (sempre che questi si lasciassero impressionare) la gloria e la potenza della città. Nell’agosto del 1287, ad esempio, il Catino fu mostrato al vescovo nestoriano Rabban Bar Ṣaumā, proveniente dall’Oriente, che lo descrive come “un bacile di smeraldo a sei facce” nel quale “Nostro Signore aveva mangiato la Pasqua con i suoi discepoli e che era stato portato lì al tempo della presa di Gerusalemme”. Lo stesso Iacopo da Varagine, arcivescovo di Genova tra il 1292 e il 1298, lascia trasparire, tuttavia, nella sua Chronica civitatis Ianuensis, la sua incredulità al riguardo, preferendo discorrere della sua mirabile fattura: un oggetto tanto perfetto non poteva essere frutto dell’ingegno umano; ciò lo rendeva senz’altro degno di venerazione.
Il Catino, del resto, non fu mai al centro di un culto specifico: mai fu utilizzato, ad esempio, nella liturgia del Giovedì Santo o nella solennità del Corpus Domini (anche se permangano tracce di un suo utilizzo al principio della Quaresima); mai assurse al ruolo di reliquia, tantomeno di reliquia cristica. Non fu mai, ad esempio, fomite di miracoli, né meta di pellegrinaggio; e ciò, nonostante, le possibilità offerte dalla cosiddetta “materia di Bretagna” (per intenderci: tutto ciò che concerne santi graal, belle dame e cavalieri seduti attorno a un tavolo. Rotondo, naturalmente). Nel 1319, anzi, il Comune giunse perfino a impegnarlo al cardinale Luca Fieschi, come garanzia per un prestito di 9.500 lire, necessario per difendere la città contro l’assedio della coalizione ghibellina. Si trattava, a detta dei più, di un oggetto di valore (che fosse di smeraldo o meno poco importava): di una sorta di tesoro, testimone d’un epoca gloriosa per il Comune genovese, che aveva visto la cittadinanza fuoriuscire da un periodo di lotte civili e riunirsi sotto l’egida della croce. Un raro momento di concordia cittadina da serbare nella memoria.
Il Catino, dunque, possedeva un altissimo valore simbolico; e ciò ne aumentava l’appetibilità. Non a caso, nel 1409, l’arcivescovo di Genova, Pileo De Marini, avrebbe accusato il governatore francese della città di volerlo rubare. E non sarebbe stato l’unico: nel 1518, Antonio de Beatis, segretario del cardinale Luigi d’Aragona, si diceva preoccupato che l’oggetto – “il Sangradalo o il Catino dove mangiò Christo con li discipuli” – fosse sottratto e sostituito da una copia. Secondo Agostino Giustiniani, attento compulsatore delle memorie cittadine, nel corso del sacco di Genova del 1522 da parte delle truppe di Carlo V,
il preciosissimo Catino con tutta la sacristia di San Lorenzo furono in gran pericolo di essere saccheggiati, perché un capitano Georgio Fereexperte, alamanno, tentò romper le porte et il muro di essa sacristia, ma i preti i quali erano serrati in quella fecero gran resistenza et i Padri del Comune, con riscatto di mille ducati, ottennero che il capitano alamanno si levassi dall’impresa.
Da quel momento in poi, il Catino fu mostrato poche volte. Ciò avrebbe alimentato le leggende, oltre che le descrizioni contrastanti. Pare, anzi, che ne fosse fatta una copia, di diversa misura, da tenere in bella mostra, serbando in un luogo segreto l’originale. Tali misure, a ogni modo, non impedirono a Napoleone di portarlo a Parigi. Era il 24 aprile del 1806. L’imperatore lo fece esaminare da alcuni esperti, che lo dichiararono di vetro. Tuttavia, le sue misure differivano da quelle rilevate, nel 1726, da uno dei suoi più illustri studiosi, il religioso Gaetano di Santa Teresa, che lo aveva detto alto 16 cm contro i suoi 9 cm attuali. Il Catino, a ogni modo, sarebbe stato restituito, anche se soltanto dieci anni dopo; per giunta rotto in undici pezzi, di cui uno mancante. Ed è così che è possibile ammirarlo, assieme al suo carico di rappresentazioni e, perché no, al dubbio che si tratti effettivamente dell’originale, esposto in bella mostra, nella chiesa di Sant’Agostino.
Antonio Musarra