La seconda puntata della rubrica dedicata alle curiosità del nostro passato di genovesi “superbi”, ci racconta la vera storia delle crociate dei genovesi, di cui spesso si è scritto ma a sproposito: la “crociata dei fanciulli” e la “crociata delle donne”. Un salto nel passato di circa 800 anni
Il legame tra Genova e le crociate è, in certo qual modo, strutturale. Caffaro, il decano dell’annalistica genovese, non esita a coniugare il sorgere della “compagna” – e, cioè, di quell’organismo dai labili tratti pattizi e istituzionali dal quale sarebbe scaturito il comune di Genova – alla partecipazione dei propri concittadini alla prima crociata, consumatasi nel decennio a cavallo tra XI e XII secolo. La crociata – si può dire – fu un fatto nuovo e per molti versi totalizzante, che avrebbe impregnato la mentalità collettiva per secoli. E di ciò i Genovesi sarebbero stati testimoni e partecipi. La stessa storiografia genovese avrebbe fondato sulla crociata la rappresentazione dei propri concittadini, affatto tratteggiati nelle vesti di mercanti – con buona pace della nota equivalenza Ianuensis ergo mercator – bensì di combattenti, anzi, di milites Christi, a dimostrazione di quanto quell’esperienza fosse penetrata nel profondo.
Ciò nonostante, grande fu lo stupore, a Genova, quando, nel 1212, giunse in città una nutrita massa di pellegrini – giovani, poveri, vagabondi e senza radici, o più semplicemente esclusi –, che diede vita a quella che è passata alle cronache come la “crociata dei fanciulli”. L’episodio – su cui si è scritto molto, spesso a sproposito – si inserisce nel quadro delle cosiddette “crociate popolari”: movimenti spontanei di uomini e donne, talvolta armati, speso usi alla violenza (in alcuni casi si parla perfino di cannibalismo, come nel caso dei Tafur della prima crociata), pienamente rientranti nel contesto più generale del movimento crociato, essendone sostanzialmente una delle variabili possibili e storicamente realizzate.
A incidere sull’immaginario dei cosiddetti pueri – i semplici – del 1212 furono le aspettative di rinnovamento della chiesa e le inquietudini mistico-religiose del tempo, corroborate dall’inizio delle campagne di predicazione volte a contrastare manu militari (ma col sostegno della croce) gli albigesi della Linguadoca – meglio conosciuti come catari – e i saraceni della penisola iberica, il cui messaggio conteneva pressanti appelli alla semplicità apostolica e alla penitenza. La volontà di liberare il Santo Sepolcro senza armi – vista anche l’ingloriosa fine della spedizione del 1202-1204, che era giunta a conquistare nientemeno che Costantinopoli – guidava quella turba di disperati, parte della quale, partita dai Paesi Bassi, dalla Renania e dalla Francia settentrionale tra la primavera e l’estate, era giunta a valicare le Alpi, alla ricerca di un modo per recarsi nel levante.
L’arrivo di un gruppo consistente di pellegrini a Genova è testimoniato dall’annalistica locale, che costituisce, a tutti gli effetti, una delle poche fonti riguardanti l’episodio. Secondo l’annalista Ogerio Pane, nel corso dell’estate giunsero in città, guidati da un certo Nicola – che sappiamo da altre fonti essere originario dei dintorni di Colonia – circa settemila persone tra uomini, donne e bambini:
Nel mese di agosto, di sabato, otto giorni prima delle calende di settembre, un certo fanciullo tedesco di nome Nicola entrò nella città di Genova, poiché era in pellegrinaggio, e con lui un’enorme moltitudine di pellegrini che portavano croci, bordoni e scarselle, oltre settemila tra uomini, donne, fanciulli e fanciulle, a giudizio di un uomo di senno. E la domenica seguente uscirono dalla città; ma molti uomini, donne, fanciulli e fanciulle di quella schiera rimasero a Genova.
La turba, dunque, avrebbe sostato per qualche tempo in città, o, più verosimilmente, al di fuori delle mura, probabilmente nei pressi della commenda ospitaliera di San Giovanni di Pré, che segnava allora il limite occidentale dell’abitato.
Qualche particolare è aggiunto da Iacopo da Varagine nella sua Chronica civitatis Ianuensis, composta alla fine del secolo (nonostante egli collochi erroneamente l’episodio nel 1222). A quanto pare, Nicola aveva promesso ai propri seguaci l’apertura del mare e l’agevole accesso alla Terrasanta. Ma, sfortuna volle, che il miracolo tardasse a manifestarsi. Ciò deluse le speranze collettive, sì che, dopo qualche tempo, la maggior parte dei presenti decise di abbandonare l’impresa e di fare ritorno alle proprie case. Iacopo, anzi, afferma che i Genovesi avrebbero insistito perché i pellegrini se ne andassero, sia perché diffidavano della loro giovane guida, sia perché avevano paura che il gran numero di persone presenti in città provocasse una carestia o, più in generale, problemi di natura igienica, sia, infine, per motivi di natura politica: il giovane Federico II Hohenstaufem aveva abbandonato la città da poco tempo, il 25 luglio; la presenza di una gran massa di tedeschi, ancorché pellegrini, avrebbe potuto dare adito a fraintendimenti, visti i contrasti in corso tra il sovrano e Ottone di Brunswick per il controllo della corona imperiale. L’impegno crociato dei pueri tedeschi, dunque, pareva del tutto fuori luogo.
Qualche decennio dopo, in pieno 1300, un altro episodio avrebbe fatto parlare di sé. In quell’anno, i mongoli, provenienti dalle steppe, calarono in Siria, sconfiggendo alcune armate mamelucche che controllavano la regione. La notizia – squisitamente falsa – della riconquista di Gerusalemme, contribuì a risvegliare gli animi, afflitti da quando, nel 1291, con la caduta di Acri, tutta la Terrasanta era stata perduta. Nell’estate del 1301, un francescano savonese, un certo Filippo Busserio, si fece latore presso papa Bonifacio VIII dei voleri di alcune nobildonne genovesi, appartenenti a famiglie dai nomi altisonanti – per citarne alcune: Carmadino, Ghizolfi, Grimaldi, Doria, Spinola, Cibo… –, le quali, «mente viros in corpore fragili», desideravano vestire lorica e corazza e partire alla riconquista dei Luoghi Santi. Inizialmente, Bonifacio accolse con soddisfazione i loro propositi, tanto più che a guidare la spedizione (definita significativamente «passagium quasi particolare» e, cioè, non proprio una crociata ma qualcosa di simile) sarebbe stato Benedetto Zaccaria, l’ammiraglio genovese che aveva trionfato sui Pisani alla Meloria nel 1284.
Il 9 agosto, il papa diramò alcune lettere nelle quali esaltava l’ardimento delle donne genovesi e denigrava l’atteggiamento di principi e dei potenti nei confronti della Terrasanta:
O miracoli, o prodigi! Le donne prevengono gli uomini nel soccorso della Terrasanta!
Al contempo, ordinava al frate minore Porchetto Spinola, amministratore dell’arcivescovado genovese, di predicare la croce in città, ingiungendo ai membri dell’ordine francescano di accompagnare la spedizione. Bonifacio si spinse sino a chiedere allo Zaccaria d’informarlo dei piani d’azione. Tuttavia, poco dopo, tornò sui propri passi, vietando alle dame genovesi di partire.
Perché? Difficile dirlo. Il sospetto è che il problema fosse rappresentato dallo stesso Zaccaria – un personaggio scaltro e facoltoso, dalla biografia degna d’un romanzo – che desiderava probabilmente ritagliarsi un dominio personale lungo la costa siro-palestinese. Il tutto, dunque, finì in una bolla di sapone.
E di quelle ardite femmine non si seppe più nulla.
Antonio Musarra