Yasuo Sumi - Nothing but the future, la mostra antologica dell'artista giapponese è organizzata da Abc-Arte a Genova fino al prossimo 27 maggio. Alla scoperta della ribellione dell'arte non figurativa nel secondo dopoguerra
«Se questa è arte – dichiara nel 1947 Harry Truman, allora presidente degli Stati Uniti – io sono un Ottentotto». Una frase che, con grande economia di parole, misura la temperatura culturale di un lungo periodo della cultura WASP (White, Anglo-Saxon, Protestant) che ha dominato il panorama sociale. “Ottentotto” fa riferimento alla popolazione dell’Africa sud-occidentale che oggi viene chiamata Khoi, quasi spazzata via dal colonialismo olandese, la cui lontananza dai canoni di bellezza occidentali l’ha portata nei secoli a diventare sinonimo di bruttezza e barbarie – e la prova è ancora oggi nei nostri vocabolari. Il commento del presidente è riferito a una serie di opere dell’artista giapponese-americano Yasuo Kuniyoshi (1899-1956) in quei giorni acquistate dal Dipartimento di Stato per una mostra organizzata con l’intento di mostrare con quanta varietà le arti fiorissero nel paese del capitalismo. E non dobbiamo neppure pensare che si trattasse di arte astratta, così controversa che l’illuminato – per il tempo – fondatore del Solomon R. Guggenheim Museum di New York rifiutava di collezionarla, perché si trattava di opere che in seguito sono state definite “educatamente espressioniste”. Un’arte non figurativa, insomma, era simbolo di barbarie: tesi simili erano state sostenute anche nella Germania degli anni Trenta con la repressione di quella che dal regime era considerata “arte degenerata”.
Nel tempo della Guerra Fredda, però, l’Espressionismo Astratto, in quanto non figurativo, ha continuato ad essere usato come arma culturale. A metà degli anni Novanta una serie di articoli sulla stampa internazionale, infatti, offre prove e dichiarazioni di protagonisti a sostegno di quello che fino ad allora era stato solo un sospetto: un’intera divisione della CIA ha sostenuto l’Espressionismo Astratto con logistica e finanziamenti per contrastare il fascino del comunismo fra gli intellettuali, mostrando al mondo, appunto, come fosse la libertà dell’Occidente a portare a un vero fiorire delle arti, non il Realismo Socialista dell’Unione Sovietica con i suoi ritratti dell’Eroico Lavoratore. E l’astrattismo nelle sue molte declinazioni dalle diverse fortune – Informale, Cobra, Arte Concreta, eccetera – è stato considerato per lungo tempo, sino a metà degli anni Sessanta, la “lingua franca” delle arti.
La mostra delle opere di Yasuo Sumi – così come quella di Shozo Shimamoto al Museo d’arte contemporanea di Villa Croce nel 2008 – apre al visitatore una piccola finestra su questa lunga battaglia culturale. A metà degli anni Cinquanta, in un Giappone in cui la sconfitta bellica ha fatto saltare cardini formali saldi per secoli, un gruppo di artisti scopre – appunto – la libertà e trasforma il segno codificato dell’arte tradizionale nella propria declinazione delle diversità del modernismo.
Il Museo d’Arte orientale “Edoardo Chiossone” ospitato a Villetta Dinegro ci permette di avere ben più di un’idea del panorama artistico da cui il Gruppo Gutai, fondato a Osaka nel 1954 e di cui Sumi e Shimamoto hanno fatto parte, prende le distanze. Gli artisti del gruppo abbandonano le raffinate superfici della tradizione, il segno preciso del pennello intinto nell’inchiostro e il sereno bilanciamento della composizione dei volumi per il gesto, l’individualità, l’immediatezza.
Gesto, individualità e immediatezza che si possono leggere nelle opere esposte nella mostra Nothing but the future, esposte a illustrare un arco di produzione lungo decenni, dal 1954 al 2013. L’artista segna ogni superficie, che sia carta o rete metallica, con un gesto – scrive il curatore Flaminio Gualdoni nella presentazione – “non fatto da mano umana, tipico delle metafisiche occidentali, perché proprio l’interposizione di uno strumento in se stesso autre comporta lo straniamento d’ogni intento esecutivo e una precisa dichiarazione di an-artisticità”. Un segno d’individualità che nei lavori esposti vediamo tracciato con un pettine, con un abaco, con un ombrello: «La creatività di disegnare usando strumenti nuovi – ha dichiarato Sumi – è più efficace di quella che si può trovare nella propria mente, dove le scoperte sono limitate». E l’immediatezza del fare arte – valore ancora più importante in un Paese che s’era da poco, e con quanto dolore, lasciato alle spalle il fascismo – con la passione e la violenza come corollario, è ancora visibile nelle performance su YouTube di Yasuo Sumi all’opera, per chi si fosse perso Shimamoto live nell’atrio di Palazzo Ducale nel 2008.
Yasuo Sumi, Nothing but the future, antologica a cura di Flaminio Gualdoni, ABC Arte, via XX Settembre 11A, Genova, sino al 27 maggio
Pier Paolo Rinaldi
foto dell’autore
dal lunedì al venerdì, ore 9.30-13.30 e 14.30-18.30
INGRESSO LIBERO