Considerazioni per una Genova senza il ponte alla prese con un oggi distopico
“C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera”.
Walter Benjamin
Il crollo di casa Usher è uno dei racconti più celebri di Edgar Allan Poe incentrato su di una vecchia dimora decadente abitata da un fratello e una sorella gravemente malati che, durante un nubifragio in una notte di tregenda, crolla in un cumulo di macerie. Focalizzando l’elemento orrorifico nello sgretolarsi di uno dei più nostri saldi punti di riferimento, la casa, e insistendo costantemente sulla suggestione che il collasso della stessa fosse lo specchio della decadenza della famiglia che l’aveva abitata (il narratore sottolinea l’“accordo perfetto tra il carattere del luogo e il carattere delle persone che vi abitavano”), Poe a metà dell’Ottocento, ci ricordava una lezione fondamentale troppo spesso dimenticata da architetti, urbanisti e politici a venire, ovvero che le architetture, gli edifici e i luoghi da noi costruiti e abitati non sono pura materia inanimata ma espressione e riflesso del lato morale della nostra esistenza.
Anche ponte Morandi, il 14 agosto scorso, si è dimostrato essere una struttura decadente, trascurata, e si è disintegrato durante un nubifragio. Le stesse sensazioni evocate dal narratore del racconto – tristezza, angoscia, paura – assomigliano a quelle provate dai genovesi in conseguenza al suo collasso. Oltre al lutto per la morte delle persone rimaste sepolte sotto le macerie, è stato lo sgomento per lo sfaldarsi improvviso e apparentemente incredibile di un elemento portante della quotidianità di tutti ad attanagliare la città.
Il crollo di ponte Morandi è stato l’ultimo, più clamoroso, sia materialmente che simbolicamente, di una sequenza catastrofica che fa di Genova una sorta di casa Usher postindustriale, nella quale sembra esserci la stessa consequenzialità, lo stesso “accordo perfetto” tra il carattere e il destino del luogo e quelli delle persone che vi abitano. Questa sequenza è cominciata con via Digione e i suoi diciannove morti nel 1968, ed è proseguita con la lunga serie di alluvioni, crolli, smottamenti e relativi morti che hanno attraversato la città dal 1970 al 2014. Il collasso del ponte, giunto all’apice di questa escalation, sembra così porsi come un riflesso della decadenza pluridecennale della città.
la città si sta gradualmente svuotando e i quartieri e le infrastrutture costruiti in modo scriteriato in quegli anni si stanno dimostrando sempre più spesso delle trappole mortali
Quella che sta inesorabilmente crollando da cinquant’anni è la Genova costruita a cavallo del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, la città esplosa in modo selvaggio sull’onda del sogno di una metropoli che allora raggiunse gli 800.000 mila abitanti e che fu progettata per un piano che avrebbe dovuto superare il milione. Quel mito durò poco e si eclissò con la crisi industriale degli anni Settanta. Da allora le grandi fabbriche hanno chiuso, le aree produttive sono state riconvertite, la città si sta gradualmente svuotando e i quartieri e le infrastrutture costruiti in modo scriteriato in quegli anni si stanno dimostrando sempre più spesso delle trappole mortali. La speculazione edilizia che ha cementificato le alture della città tombando torrenti (emblematico il caso del Bisagno e del Fereggiano in Val Bisagno) e la costruzione di infrastrutture avveniristiche come la sopraelevata e ponte Morandi rispondevano alle esigenze di una previsione di sviluppo che si è dimostrata non sostenibile dalla geografia di un territorio tanto bello quanto delicato, rendendo Genova un tragico paradigma dell’incompatibilità tra paesaggio naturale, industrializzazione forzata e urbanizzazione capitalistica.
Genova è una città stretta e lunga, compressa tra il mare e le montagne, priva di spazi, “città verticale” (Caproni) come poche altre al mondo. Per natura e per secoli dipendente dal rapporto col mare, essa ha vissuto in modo drammatico l’industrializzazione. Già la sua prima ondata, quella compresa tra fine Ottocento e primi del Novecento, ne aveva stravolto la fisionomia, trasformando il ponente della città e la retrostante Valpolcevera da luoghi di mare e di campagna in sobborghi industriali, tanto che Sampierdarena divenne una capitale della produzione dell’intero paese, non a caso ribattezzata la Manchester d’Italia.
Ma è stata la ricostruzione avvenuta a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta a segnare la pagina peggiore della città, il suo punto di non ritorno, facendo guadagnare a Genova una serie di tristi primati nel catalogo dei peggiori scempi urbanistici contemporanei. In centro città, la distruzione dell’antichissimo borgo di Piccapietra e il successivo sventramento di quello intorno a via Madre di Dio con le relative modernizzazioni, volute dal Piano regolatore del 1959, portarono a compimento la demolizione della Genova storica avviata, attraverso un’impressionante arco temporale, già a metà dell’Ottocento, con il risultato di cancellare per sempre un enorme tessuto sociale popolare e vitale e sradicare le persone dal loro ambiente per disperderle nelle periferie dormitorio che la cementificazione selvaggia andava creando sulle colline (Begato e le “Lavatrici” di Prà gli ultimi tristi prodotti di quel processo trascinatosi fino agli anni Ottanta). Nel frattempo Cornigliano, grazie all’apertura dell’Italsider, visse la rapidissima trasformazione da zona di villeggiatura celebre per le sue ville, il lungomare e Castello Raggio, in uno dei quartieri più inquinati d’Italia, emblema dell’assurda ed illecita coesistenza di un grande stabilimento industriale nel cuore di un quartiere popoloso. Infine, a metà anni Sessanta, arrivò la costruzione di ponte Morandi, un viadotto ingegneristicamente ardito ideato per creare un collegamento veloce attraverso la Valpolcevera nell’area di Campi che violava qualsiasi logica urbanistica e di buon senso nel suo imporsi e incastrarsi sopra una serie di palazzi preesistenti.
Proprio Campi offre una storia paradigmatica delle trasformazioni urbane cittadine. Come testimonia il nome stesso, fino all’Ottocento, essa era una zona agricola che ospitava anche residenze estive di famiglie patrizie genovesi. Con l’apertura delle Fonderie Ansaldo, nel 1898, orti e frutteti che caratterizzavano il tipico paesaggio agrario genovese scomparvero per far posto a capannoni, magazzini e ciminiere, inaugurando un processo durato fino agli anni Sessanta, quando la crisi industriale globale ha avviato la dismissione delle fabbriche e la sua trasformazione, tipica di tutte le città occidentali, in un’area destinata ai centri commerciali e alla logistica. L’ultimo progetto in ordine di tempo, temporaneamente bloccato dal crollo del ponte, è non a caso l’apertura di un grande magazzino di Amazon, un hub logistico di una delle più grandi aziende mondiali.
Il dibattito pubblico è pervasivamente monopolizzato dalla retorica del progresso, della crescita e dello sviluppo, in cui il benessere della collettività viene subdolamente e volutamente confuso con l’aumento degli indici di profitto dei colossi del capitalismo, a cui tutto si deve adeguare, comprese le città e la vita delle persone in esse. In questo senso l’unico criterio di giudizio ammesso per ogni trasformazione urbana è la sua utilità e la sua funzionalità nel progetto della megamacchina capitalista ed il totalitarismo insito nel monopolio di questa verità non discutibile è tale per cui, nell’immaginario collettivo, l’utilità viene a coincidere con il bello. Solo alla luce di questo meccanismo si può spiegare come un viadotto in cemento armato alto novanta metri e costruito sopra una serie di palazzi popolari per farci transitare automobili e merci, possa essere considerato da molti suoi abitanti un simbolo della grandezza di Genova ed una fonte di orgoglio cittadino. Il mito della produzione, condiviso ed esaltato dal PCI e dalla sinistra che erano al governo della città e delle sue trasformazioni in quegli anni, è tragicamente riuscito a far assumere l’estetica del mondo industriale e infrastrutturale come qualcosa di naturale, bello e nobile.
In questo senso il più che comprensibile affezionamento degli sfollati di via Porro,ad un’intera vita trascorsa in quelle vie, non toglie l’innegabile bruttezza di quelle zone della città, sacrificate e stritolate dalle necessità infrastrutturali del capitalismo
Eppure quando l’industrializzazione fece breccia in Europa ormai centocinquanta anni fa, una critica spietatamente lucida al terrificante abbrutimento del paesaggio, delle città e della vita delle persone costrette ad adeguarvisi indotto dal capitalismo non mancò. Scavalcando il rigido economicismo di Marx attraverso il progetto rivoluzionario di un “socialismo della bellezza” che imponeva all’arte il ruolo innovativo di fondersi e trasformare qualitativamente la vita quotidiana e sociale delle persone, un personaggio come William Morris aprì una prolifica corrente artistico-politica, giunta fino al Bauhaus, che si prodigò per far sì che l’industria si ponesse al servizio dell’uomo e non viceversa. Di quella temperie, che nutriva la sua lucida critica dalla presa in visione diretta delle trasformazioni in atto, oggi non è rimasto pressoché nulla, eppure l’urgenza posta dalla catastrofe ambientale in atto a livello mondiale suggerirebbe di riscoprirne l’importanza.
In questo senso il più che comprensibile affezionamento degli sfollati di via Porro (molto meno quelli del Campasso, alcuni dei quali hanno esplicitamente gioito della possibilità di abbandonare quel quartiere) ad un’intera vita trascorsa in quelle vie, non toglie l’innegabile bruttezza di quelle zone della città, sacrificate e stritolate dalle necessità infrastrutturali del capitalismo. D’altronde basta sfogliare la bellissima serie fotografica di Giorgio Bergami del 1963 dedicata alla speculazione edilizia, o quella del meno noto Michele Guyot Bourg realizzata negli anni Ottanta e significativamente intitolata Vivere sotto una cupa minaccia, per vedere emergere nitida un’immagine della “vita agra” (bellissima definizione di Luciano Bianciardi) a cui quel modello di sviluppo costringeva migliaia di persone, immagine che stride assai con la retorica, imposta come una sorta di mantra, delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Italia del boom economico.
La retorica della gloria di Genova la Superba, che ci viene propinata ad ogni piè sospinto, ha radici lontane. Al volgere dell’anno 1100, quando Genova divenne una città ricca e importante, un ruolo non indifferente al suo decollo lo diede la partecipazione attiva alla prima crociata, con il celebre assedio a Gerusalemme guidato da Guglielmo Embriaco, quando i genovesi capirono quale fosse la posta in gioco in Medio Oriente, ovvero la possibilità di mettere le mani su una ricchezza inimmaginabile, possibilità ottenuta al prezzo delle successive guerre agli infedeli e relative carneficine. Similmente, quando nel corso del 1500 Genova divenne la città forse più ricca e potente d’Europa, lo fece inventando le banche e finanziando la conquista spagnola del Nuovo Mondo che portò allo sterminio delle civiltà amerindie.
La differenza tra il benessere conquistato allora e quello ottenuto tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra attraverso le varie fasi dello sviluppo industriale, è che allora una parte della ricchezza acquisita veniva reinvestita in opere che restituissero collettivamente qualcosa di quella grandezza. Come insegna Karl Polanyi nel fondamentale La grande trasformazione, i sistemi economico-sociali che hanno preceduto l’economia di mercato imposta dal capitalismo industriale, per quanto cercassero il profitto in un’ottica precapitalistica, subordinavano quest’ultimo ad altre relazioni sociali (come il prestigio e il posizionamento), in un contesto che non faceva mai venire meno principi di reciprocità e redistribuzione. Così, nel XII secolo, parte dei profitti dei genovesi ottenuti nei commerci con l’Asia Minore e con le Crociate vennero reinvestiti per costruire la Cattedrale di San Lorenzo, mentre quelli derivanti dai sontuosi prestiti alla Corona spagnola del XVI secolo portarono le famiglie genovesi a costruire Strada nuova, via Garibaldi, con lo sfarzo dei suoi palazzi nobiliari.
Al prezzo delle contraddizioni del protocapitalismo dell’epoca, un rapporto utilità e bellezza di fatto esisteva. Nulla di ciò è rimasto nel benessere indotto dallo sviluppo industriale capitalistico che, sempre per citare Polanyi, è l’unico, nella sua spietatezza, ad aver azzerato qualsiasi interesse sociale e collettivo in nome dell’autoregolazione dell’economia di mercato. Seguendo questa logica diventa facile capire perché sviluppo e progresso siano venuti a coincidere totalmente con la bruttezza e il degrado dell’ambiente fisico e naturale; l’anonimato dell’economia di mercato si riflette nella sua estetica e nei suoi luoghi. La città industriale è inequivocabilmente brutta ad ogni latitudine e Genova non ha fatto eccezione. Le più importanti opere architettoniche, urbanistiche e infrastrutturali della Genova del boom economico, dal Biscione alla nuova Piccapietra, da Ponte Morandi ai Giardini di plastica sorti sulle macerie di via Madre di Dio, al netto dell’orgoglio e di ingegneri e architetti moderni e di un dibattito assai sterilmente postmoderno sulla relatività del concetto di bellezza, difficilmente verranno accostati nei posteri alla Cattedrale di San Lorenzo o ai palazzi di via Garibaldi.
D’altronde è la stessa politica amministrativa della città d’oggi a confermare nei fatti questa lezione. Genova, con le sue anomalie e i suoi ritardi, sta faticosamente cercando di ricalcare lo stesso percorso già consolidatosi in tutte le città storiche dell’Occidente europeo, con una polarizzazione centro-periferie di valorizzazione del primo e abbandono delle seconde. Quando la nuova giunta ha preso in mano l’amministrazione ha puntato le carte del rilancio di una città in costante declino da decenni sulla turisticizzazione del centro storico, vista come una delle poche possibilità di rilancio. Prima del crollo di ponte Morandi e della relativa emergenza, buona parte dell’attività di propaganda e legislativa della giunta era stata indirizzata a valorizzare il patrimonio storico-artistico del centro città secondo le logiche sperimentate da decenni della gentrificazione, puntando cioè a rendere le bellezze storiche del centro città merci ad uso e consumo dei turisti a detrimento della vita dei suoi abitanti storici. In questo senso rientrano piani come quello per via Prè e le varie ordinanze anti degrado succedutesi nell’ultimo anno. Eclissatasi l’utopia della metropoli industriale, la città è rimasta con un tesoro storico da mettere a profitto e un tessuto periferico fatalmente destinato all’incuria e al degrado. Ma lo stupro di questo territorio così difficile e delicato ha trasformato questo disordinato labirinto – fatto di palazzi affastellati in verticale sulle alture (degni dei collage del dadaista Paul Citroen sulla metropoli), di tombature dei fiumi, di infrastrutture avveniristiche – in una macchina pericolosa e spesso mortale. A Genova la natura si sta vendicando della protervia dell’uomo e fa pagare conti salati ad ogni errore e gesto di noncuranza. L’utopia industriale degli anni Sessanta si è trasformata oggi in distopia e ponte Morandi, celebrato dalla copertina della “Domenica del Corriere” del 1 marzo 1964 come fantasmagoria di un futuro radioso, si è svelato, il 14 agosto 2018, scenario drammaticamente reale di un film apocalittico.
La Valpolcevera di oggi è un emblema di questo malato rapporto centro-periferia. Alla gentrificazione del centro storico, nello schema universale che regola la città contemporanea, fa sempre da contraltare l’ulteriore radicalizzazione delle periferie in discariche dove concentrare la stragrande maggioranza della popolazione che non può permettersi un’abitazione nei quartieri residenziali, centri commerciali, capannoni, hub logistici e infrastrutture dove far viaggiare, accatastare e vendere le merci. Così, in continuità con il processo storico cominciato con la trasformazione dell’area di Campi da zona agricola in sobborgo industriale, la Valpolcevera è destinata a vedersi gravata di nuove infrastrutture invasive come la Gronda e il Terzo valico, nonché di nuovi mostri come l’hub di Amazon. Un viaggio di due ore compiuto oggi nel caos del post-crollo in queste zone tra svincoli, aree industriali, viadotti, deviazioni e nuovi bypass costruiti in fretta e furia rende abbastanza tragicamente l’immagine di una distopia urbana postindustriale. Un William Morris catapultato a Genova oggi avrebbe un’amarissima conferma di quanto denunciava alla fine dell’Ottocento, mentre gli abitanti di quelle zone, costretti a snervanti quotidiane ore di coda, comprensibilmente vincolati alla ragione pratica del ritorno alla normalità, sembrano accettare stoicamente tutto questo.
le sue strade e le sue architetture ci parlano, hanno significati precisi, ma noi non abbiamo il linguaggio per comprenderli. Così, per molti, ponte Morandi, essendo sempre stato presente nel proprio orizzonte visivo e nell’abitudine del quotidiano, è come se fosse eterno, parte naturale dell’ambiente
Il valore di un pensiero critico radicale sulla città di Genova non risiede nel proporre un ritorno impossibile ad un passato irrecuperabile (anche se in molti hanno riscoperto il piacere di antichi e suggestivi passaggi pedonali come salita Bersezio, una delle più antiche mulattiere di Genova, per bypassare ingorghi automobilistici infernali) o sognare un non-luogo (u-topia) desiderabile ma irreale, quanto stimolare quella conoscenza e quell’immaginazione che hanno il potere di aprire possibilità e scenari inediti e alternativi al pensiero unico dominante che vorrebbe che accettassimo questo come il migliore e l’unico dei mondi possibili. Esercitare questo spirito critico, coltivare questa immaginazione, ci permetterebbe di non subire con rassegnazione la propaganda dello sviluppo e del progresso monopolizzata da chi detiene il potere per tutelare i propri interessi.
Non è un caso che nelle nuove riforme scolastiche la storia e la storia dell’arte vengano gradualmente ridotte nelle programmazioni. Lo scopo evidente è implementare il processo per cui non siamo più in grado di immaginare ciò che non conosciamo e non vediamo; solo la conoscenza storica o la capacità immaginativa possono permettere di rappresentarci ciò che appartiene al passato per poter ampliare lo spettro di comprensione e azione sul presente. Le persone non sanno più leggere la città e i suoi significati: le sue strade e le sue architetture ci parlano, hanno significati precisi, ma noi non abbiamo il linguaggio per comprenderli. Così, per molti, ponte Morandi, essendo sempre stato presente nel proprio orizzonte visivo e nell’abitudine del quotidiano, è come se fosse eterno, parte naturale dell’ambiente. Da qui il senso di sgomento per il suo crollo, come per la casa Usher di Poe; da qui l’affezione per esso non come un’infrastruttura in cemento brutale ma necessaria, perché utile, ma come un qualcosa di bello e di cui andar fieri, un motivo di orgoglio indiscutibile per la comunità. Nell’appiattimento sensoriale di oggi la città com’è oggi è sempre stata così e non può che essere così, esattamente come la vita in essa.
Quando il sindaco e i vari prelati del profitto si riempono la bocca dell’opportunità offerta dal crollo del viadotto per ripensare le periferie, per progetti di riqualificazione della Valpolcevera, mentono sapendo di mentire, esattamente come quando promettono la ricostruzione del ponte in un anno sapendo che ciò sarà impossibile, come ha confermato la recente relazione di architetti e ingegneri presentata al sindaco stesso.
La consistenza di queste promesse si manifesta in modo emblematico in uno dei vari progetti che sono stati presentati per la ricostruzione. Nella gara subito scatenatasi e capeggiata dall’archistar e gloria locale Renzo Piano, ha fatto capolino un architetto bergamasco che ha presentato un progetto tanto magniloquente quanto delirante. Evidentemente ispirato dal più famoso e reazionario architetto del Novecento, il sommo Le Corbusier, tale architetto bergamasco Stefano Giavazzi ha presentato un piano (elaborato evidentemente senza nessuna conoscenza diretta del territorio in questione) che ingloberebbe il nuovo viadotto in un modulo reticolare prefabbricato in acciaio, una megastruttura-diga che ostruirebbe totalmente la visuale della vallata per ospitare al suo interno le molteplici funzioni di una micro città verticale, con abitazioni, uffici, palestre, centri commerciali, addirittura passeggiate e piste ciclabili sopra l’autostrada (e sorvoliamo sul dettaglio macabro della proposta di palestre di arrampicata e di bungee jumping). Nonostante l’evidente mostruosità estetica di una struttura che avrebbe decuplicato lo scempio paesaggistico del vecchio ponte Morandi e della palese demenzialità di andare a ostruire un torrente che ha già dato tragiche dimostrazioni della sua potenza distruttrice e alluvionale, questo progetto, che sembrava destinato ad una rubrica di barzellette, ha invece ottenuto un grande successo a livello mediatico per bocca di Beppe Grillo e del ministro Toninelli, i quali hanno gridato alla genialità dell’opera dichiarandola subito come una proposta da tenere in seria considerazione. Nell’ottica populista del M5S, sempre attento a cogliere ciò che muove la pancia degli elettori, questa megastruttura avrebbe risposto in un colpo solo alla grave carenza strutturale di servizi che attanagliano periferie tipiche come la Valpolcevera, evitando semplicisticamente l’impegno gravoso di organizzare la loro diffusione capillare sul territorio, l’unica risposta che avrebbe un senso per i suoi abitanti. L’arroganza impregnata di vacua retorica con cui il ministro Toninelli ha risposto a chi contestava la sua propaganda a favore del progetto, facendogli notare le sue grossolane falle, è un’ottima summa dello spessore del pensiero della classe dirigente sulle città: “Si tratta di gente che non capisce come una grande opera possa condurre a riqualificare, a ridisegnare, a ripensare la vocazione di un’intera area, trasformando magari in luoghi da vivere e da fruire anche quei ‘non luoghi’ che oggi spesso vediamo essere le aree sotto i ponti, ricettacolo per lo più di degrado”.
Da che il capitalismo ha cominciato a manifestarsi nella sua preistoria, il “nostro” progresso ha sempre fatto pagare il suo prezzo a qualcuno. Abbiamo già accennato a come la gloria della Superba si sia fortificato anche grazie alle guerre in Terrasanta e al finanziamento della Conquista del Nuovo Mondo. Così lo sviluppo garantito dall’industrializzazione di primo Novecento si è basato soprattutto sulla produzione delle armi innovative utilizzate nella Prima guerra mondiale, tanto che nel 1914, all’alba dell’ingresso dell’Italia nel conflitto, Genova ha ospitato una Esposizione internazionale che celebrava il colonialismo italiano (come dimenticare il ruolo pionieristico del genovese Rubattino nella sua nascita?) e metteva in mostra le meraviglia belliche costruite dai cantieri dell’Ansaldo che di lì a pochi mesi avrebbero contribuito al più grande massacro che l’Europa avesse mai conosciuto. Infine lo sviluppo del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, di cui ponte Morandi è diventato il simbolo, ha lasciato una scia nera e impressionante di morti: oltre tremila, secondo le stime ufficiali solo dal 1994 al 2015, quelle per tumore da esposizione all’amianto contratto dagli operai nei capannoni dell’Ansaldo, Ilva e Fincantieri: una morte ogni tre giorni per oltre vent’anni, cifre degne di una guerra a bassa intensità. Senza contare quelle su cui non esistono dati ufficiali per l’inquinamento industriale a Cornigliano e in altre zone periferiche della città.
Come Genova dimostra l’incompatibilità tra un certo territorio e un certo sviluppo urbanistico, così, su scala globale, il pianeta sta dimostrando quella ben più decisiva con il capitalismo tout-court. Oggi è la comunità scientifica e non la fantascienza distopica o qualche gruppo ambientalista radicale a prospettare scenari apocalittici imminenti, tanto da avere collocato nei prossimi dodici anni il punto di non ritorno verso la catastrofe climatica irreversibile. Se tra le cause principali di questa catastrofe ci sono inequivocabilmente la sovrappopolazione mondiale, la produzione industriale, l’emissione di sostanze inquinanti derivanti dal traffico e dalla circolazione delle merci, perché a Genova dovremmo puntare sul rilancio della città ripristinando e implementando esattamente tutto questo? Nella nostra piccola storia locale vediamo un riflesso della stessa apparente schizofrenia, che in realtà è palese malafede di chi ha il potere di decidere, visibile ovunque a livello globale. I politici fingono di preoccuparsi della catastrofe climatica, ma nel concreto, in quanto rappresentanti delle lobbies economiche, si muovono nell’unica direzione di protarne e potenziarne le cause. Ne è palese esempio la gioia con cui le grandi compagnie mercantili marittime (nel caso specifico la Maersk fa da pioniere), le stesse per le quali il porto di Genova è uno snodo vitale e fondamentale, hanno pubblicamente accolto la recente, definitiva, apertura di nuove rotte commerciali che permettono di abbreviare le tratte tra Asia e Europa bypassando il Canale di Suez, apertura resa possibile dallo scioglimento dei ghiacci dell’Artico.
Da un punto di vista del capitalismo Detroit è diventata il simbolo del declino urbano e industriale, ma concretamente è morta? No, anzi; approfittando degli immensi spazi vuoti lasciati liberi, gli abitanti che hanno deciso di restare hanno dato vita a una delle rivoluzioni verdi più riuscite al mondo, facendo di Detroit la capitale mondiale degli orti urbani
Alla luce di ciò sarebbe così folle se, di fronte alla lunga serie di crolli culminata con ponte Morandi, ne traessimo la lezione più semplice, quella di ripensare lo sviluppo della città in termini diversi, accettando magari di ridurci in dimensioni e abitanti per guadagnarne in spazi e qualità della vita, accettando e valorizzando la natura e la bellezza del nostro territorio? E’ davvero utile e necessario (e a chi?) puntare sulla turisticizzazione, sul porto, su nuove infrastrutture?
La storia recente di Detroit negli Stati Uniti ci dimostra che il progresso non è unico e lineare. L’enorme metropoli cresciuta intorno all’industria automobilistica è letteralmente collassata negli anni Settanta con la chiusura della Ford, Chrysler e General Motors, con una crisi pluridecennale che ha portato alla dichiarazione di fallimento del municipio per bancarotta nel 2009, e ad un dimezzamento della popolazione. Da un punto di vista del capitalismo Detroit è diventata il simbolo del declino urbano e industriale, ma concretamente è morta? No, anzi; approfittando degli immensi spazi vuoti lasciati liberi, gli abitanti che hanno deciso di restare hanno dato vita a una delle rivoluzioni verdi più riuscite al mondo, facendo di Detroit la capitale mondiale degli orti urbani. Dal 2000 ad oggi sono 1400 gli orti urbani gestiti dagli abitanti in cui si producono oltre 200 tonnellate di cibo all’anno e 45 le fattorie scolastiche in tutta la città.
La storia non è un processo lineare, ma procede a balzi. Nella retorica delle istituzioni e degli imprenditori genovesi, profusa a piene mani in questi mesi post-crollo, si è ripetuto come un mantra il concetto di “trasformare la tragedia in opportunità”. In realtà in greco la parola krisis implica, come corollario del concetto di pericolo, quello di scelta, la scelta che si è chiamati a fare nel momento della difficoltà. Nel caso della crisi posta dal crollo del ponte Morandi, si tratta quindi non di accettare come ineluttabile la via che ci indicano dall’alto, ovvero ricostruire tutto come e più di prima, ma appunto scegliere se optare per quella possibilità oppure ripensare la città e la vita in essa in una maniera differente. Non esiste un’unica strada, un unico orizzonte, un’unica scelta. Se noi avessimo la capacità di riattivare quell’immaginazione che fa a pugni con la rassegnazione e che non accetta passivamente le mistificazioni della retorica e della propaganda ufficiali, ecco che allora potremmo veder riapparire davanti ai nostri occhi un’immagine dimenticata – attualmente sepolta in qualche cartolina sbiadita – di una Valpolcevera ricoperta di campi ed orti all’interno di una città che non avrebbe più bisogno di quel viadotto, bello o brutto solo nella diatriba di architetti e ingegneri. Utopia? Provocazione? Forse, sicuramente un altrove più gradevole e sensato da vivere che la situazione globale mondiale ci suggerisce in modo drammatico ed urgente.
Leonardo Lippolis