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Progetto virtuoso o retorica del progresso? A Genova non c’è più spazio per nuovi buchi neri urbanistici
La retorica dovrebbe essere un ponte, una strada, ma in genere è una muraglia, un ostacolo.
(Jorge Louis Borges)
La zona urbana della Valpolcevera coinvolta dal crollo di Ponte Morandi ha una storia paradigmatica delle trasformazioni economiche di Genova. Come testimonia il nome stesso, fino alla fine dell’Ottocento, Campi era una zona agricola, punteggiata di orti e frutteti, nonché dalle residenze estive di famiglie patrizie genovesi. Nel 1898, per implementare gli stabilimenti di Sampierdarena e Cornigliano, venne aperta una grande officina siderurgica dell’Ansaldo, motore dello sviluppo economico cittadino al punto da far diventare Genova uno dei vertici del triangolo industriale italiano. Da allora le fabbriche a Campi si sono diffuse a macchia d’olio, facendo della bassa Val Polcevera, insieme al resto della valle e a tutto il ponente cittadino, uno dei poli produttivi della città. Questo processo ha reso Genova, morfologicamente priva di spazi e fragile, una metropoli industriale che, nelle fantasie dei progettisti degli anni Cinquanta e Sessanta, avrebbe dovuto superare il milione di abitanti. Nel 1967, per supplire alle rinnovate esigenze di questo spazio urbano congestionato, venne costruito il Ponte Morandi, un’infrastruttura salutata come un capolavoro ingegneristico e simbolo di uno sviluppo che si credeva infinito. Le cose andarono diversamente; il boom industriale cessò poco dopo, e con esso quello economico e demografico. A Campi, come in altri poli cittadini, le fabbriche vennero chiuse e i capannoni convertiti dalle grandi catene internazionali del commercio e della logistica. Negli ultimi trent’anni Campi è stata un’area destinata a far viaggiare, accatastare e vendere le merci, o da attraversare velocemente per raggiungere l’alta Valpolcevera, periferia sacrificata da decenni di sfruttamento produttivo.
I quartieri residenziali che insistono su questa zona sono stati socialmente disgregati da queste trasformazioni e sopravvivevano come aree economicamente e socialmente depauperizzate già da decenni. Non è un caso che le case in via Porro o al Campasso avessero tra i più bassi valori commerciali dell’intera città già ben prima della tragedia del 14 agosto 2018.
“Il Parco del Polcevera e il Cerchio Rosso” è il progetto vincitore del concorso internazionale, indetto dal Comune di Genova e dal Consiglio nazionale Architetti PPC, per il masterplan dell’area attorno al nuovo viadotto che sostituirà Ponte Morandi, viadotto disegnato da Renzo Piano e in via di costruzione ed ultimazione ad opera di Fincantieri e Impregilo-Salini. Il progetto, elaborato dalla Stefano Boeri Architetti in collaborazione con gli studi Metrogramma e Inside Outside, occupa l’area dell’ex parco ferroviario del Campasso, quella che sottende il viadotto, e copre una zona urbana corrispondente ai quartieri di Campi e del Campasso stesso. Suo nucleo centrale è il Cerchio Rosso, una pista circolare sopraelevata, pedonale e ciclabile, lunga un chilometro e mezzo che dovrebbe fare da collante tra i due versanti collinari della valle e da raccordo per i vari spazi sottostanti, culminante in una Torre del Vento alta 120 metri e produttrice di energia eolica. Sotto e attorno ad esso si dovrebbero sviluppare gli altri elementi del progetto: il Parco botanico del Polcevera, una serie di attività espositive e ricreative (un Parco dell’acqua, un Fun Park, tre giardini del Mediterraneo, delle Esposizioni e del Polcevera), l’installazione “Genova nel bosco”, un Parco dello sport con vari campi sportivi e palestre, la riconversione di una vasta rete di edifici e capannoni ad uso commerciale e produttivo ed una nuova stazione ferroviaria.
Il progetto elaborato da Boeri è molto ambizioso nel proporsi come spazio pubblico ed ecologico che riqualifichi una zona difficile e, contemporaneamente, come nuovo luogo simbolico della città, memoria del suo passato industriale e omaggio alle vittime del crollo di Ponte Morandi. Evocando “infrastrutture per una mobilità sostenibile ed edifici intelligenti per la ricerca e la produzione”, esso si pone “l’obiettivo di capovolgere l’immagine attuale della valle del Polcevera, da luogo complesso e tragicamente disastrato a territorio dell’innovazione sostenibile per il rilancio di Genova stessa”.
Il primo elemento del progetto che salta all’occhio è il tentativo di mobilitare l’orgoglio cittadino attraverso un richiamo romanticizzato all’immaginario dei suoi abitanti:
“La Torre del Vento e il Cerchio Rosso, il Parco del Polcevera e la sua varietà vitale cromatica e botanica, sono il saluto di Genova ai passanti del futuro. Il saluto al mondo da parte di una città di infrastrutture e parchi verticali, di camalli e nobildonne, di cantanti e ingegneri navali. Una Città Superba seppure affranta da una struggente Malinconia; bellissima seppur nell’asprezza delle sue irriducibili contraddizioni. Una Città di acciaio e mare, scolpita dal vento e dalle tragedie, ma sempre capace di rialzare la testa”.
Al di là del buffo accostamento di camalli e nobildonne, cantanti e infrastrutture, ciò che lascia più perplessi in questa operazione di immagine è il voler far convivere l’inconciliabile, ovvero la natura con ciò che da sempre l’ha negata e distrutta, l’industria, il verde e il mare con l’acciaio e il cemento, l’ecologia con la produzione:
“Il Cerchio Rosso, il Parco e le nuove Architetture attraverseranno e legheranno tra loro un territorio rigenerato composto di diversi suoli, colori e nature. Un nuovo ambiente caratterizzato da un’altissima biodiversità di specie viventi si tesserà con l’urbanizzato esistente, fatto di ferro e asfalto. Il Parco del Ponte, in questo modo, diventerà un sistema urbano allargato e radicato nel territorio e alternerà nuovi paesaggi resilienti, sistemi interstiziali, e dispositivi di connessione e energetici”.
Il progetto vorrebbe dunque sposare l’acciaio e l’asfalto che hanno reso moderna la città con “i colori ed i profumi caratteristici della mediterraneità di cui Genova è simbolo nel mondo”, celebrando questo improbabile matrimonio proprio in una delle zone più martoriate dal cosiddetto “progresso” industriale.
La retorica è nata nel V secolo avanti Cristo in Magna Grecia come arte del discorso e della capacità di persuadere l’uditorio ed è divenuta una delle arti più nobili del mondo classico. Cicerone affermava che un buon oratore deve saper docere, ovvero dare le informazioni sul fatto oggetto del discorso, delectare, ovvero esporre gli argomenti con vivacità evitando l’effetto noia, e movere, ovvero mobilitare i sentimenti dell’uditorio per coinvolgerlo e far sì che esso aderisca alle tesi esposte. Fin dalle origini, i fini della retorica prescindevano da un giudizio etico: “La retorica”, fa dire Platone a Socrate, “a quanto pare, è artefice di quella persuasione che induce a credere ma che non insegna nulla intorno al giusto e all’ingiusto” (Platone, Gorgia). Come tale la retorica si è evoluta nel corso dei secoli ed è a tutt’oggi una disciplina assai viva. Nel corso del Novecento i suoi principi sono stati assorbiti nella teoria generale della comunicazione, in particolare della cosiddetta comunicazione persuasiva, e sono stati abbondantemente utilizzati di volta in volta dalla propaganda politica e dalla pubblicità commerciale.
La maggior parte dei grandi progetti d’architettura contemporanei si fondano su un immaginario progressista, ecologico, sostenibile, smart, in linea con quanto l’epoca richiede. Come sostiene il sociologo urbano Garnier:
“Per rispondere alle critiche contro il carattere troppo tecnicista della smart city, si parla anche di “città inclusiva” (ovvero, includere gli esclusi dai presunti benefici della mondializzazione capitalista), di “città frugale” (ridurre non il consumo e la produzione, ma lo spreco),”città giusta” (lottare conto le diseguaglianze spaziali, sociali e ambientali), “città sostenibile” (tenere in conto gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, tra cui la diminuzione dell’impatto ecologico), “città verde” (preservare o introdurre la natura in un contesto artificiale) o “città resiliente” (affrontare con successo qualunque forma di vulnerabilità, in particolare quella legata al cambiamento climatico). Tra tutte queste, però, la più apprezzata continua ad essere la “città intelligente” (smart city), poiché materializza e simboleggia l’ingresso glorioso dell’urbanismo nella cosiddetta economia della conoscenza” (J-P. Garnier, Smart City. La “città radiosa” nell’era digitale, Nautilus 2018, pp. 11-12).
Nel caso del progetto di Boeri e associati, che rientra appieno in questa descrizione, le contraddizioni reali che soggiaciono alla sua retorica risultano particolarmente stridenti.
Il progetto s’incastra in un’area urbana iper sfruttata e congestionata, limitandosi ad occuparne gli interstizi senza prevedere una vera e profonda ristrutturazione fisica. Nel dettaglio, dalle tavole del progetto si può constatare come, sul versante ovest, il Parco dell’acqua, il Fun Park, il Giardino del Mediterraneo e quello delle Esposizioni sarebbero tutti compressi tra Corso Perrone, il Gasometro riconvertito in parcheggio multipiano, i capannoni dell’Ansaldo, un altro enorme parcheggio e tutto l’insieme insistente sotto il nuovo viadotto dell’autostrada. Allo stesso tempo, il Parco e le altre zone ricreative previste si innesterebbero su una striscia di territorio molto stretta, ritagliata tra le numerose vie a rapido scorrimento che servono a collegare la fascia a mare con l’interno valpolceverasco (Corso Perrone, Via Perlasca, Via 30 Giugno, Via Fillak) e la linea ferroviaria. A valle del Parco la destinazione d’uso dell’area rimarrebbe quella dei capannoni dell’area commerciale, a monte quella industriale dell’Ansaldo.
Il progetto di Boeri incarna un immaginario urbanistico preciso che ha come referente naturale quella middle class benestante, istruita e salutista che nel tempo libero va in bicicletta, fa jogging o legge un libro in parchi urbani verdi e ariosi, ma questo non è né il caso geografico dell’area in questione né tantomeno il corpo sociale degli abitanti delle aree di Campi e Campasso. Gli indicatori sociali che individuano situazioni urbane di difficoltà – alta percentuale di famiglie composte di anziani soli, concentrazione di immigrati in difficoltà, tassi di scolarizzazione e disoccupazione, indice di povertà – riscontrano valori molto alti nelle aree di Campi e del Campasso, facendone uno tra i quartieri più depressi della città.
“Trasformando l’area in un insieme attivo e diversificato, il paesaggio in pendenza creerà punti di vista sorprendenti e condizioni interessanti invitando le persone a divertirsi e a farne esperienza in molti modi ogni giorno. Utilizzato per la ricreazione, l’istruzione, lo sport, la meditazione o come luogo di incontro sociale e culturale, il parco, da est-ovest, collegherà persone di entrambi i lati del Torrente e attirerà tutti coloro che provengono da Genova, e non solo”.
Potrà un parco incastrato sotto l’autostrada, tra la ferrovia, quattro strade trafficate ed enormi aree commerciali, industriali e logistiche, modificare davvero la mentalità, la socialità e la vita quotidiana degli abitanti di quest’area?
La storia dell’architettura e dell’urbanistica è tristemente costellata di progetti che, avendo applicato un modello teorico sganciato dalla realtà dei luoghi concreti – ovvero non integrato da processi sociali, educativi e culturali che sanassero in modo incisivo situazioni incancrenite di abbandono e marginalizzazione urbani – si sono rivelati dei fallimenti quando non dei veri e propri boomerang, ovvero spazi ben presto muti che hanno finito per alimentare quel senso di tristezza e abbandono che avrebbero voluto combattere.
Inoltre, suscita più di una perplessità l’ipotesi che il resto della popolazione cittadina che ama godersi il verde e gli spazi aperti – in una città che possiede uno dei più grandi parchi urbani d’Italia (il Parco delle Mura, 617 ettari di colline e natura a ridosso del centrocittà), l’infinità di crêuze che s’inerpicano in collina nel silenzio, i numerosi parchi disseminati in molti quartieri o i lunghi tratti di costa e di mare accessibili – prenderà la macchina per andare a respirare un po’ di aria buona, “a riempirsi i polmoni”, sotto il ponte dell’autostrada a Campi. La presentazione del progetto, simile a quella di un’agenzia immobiliare, sembra voler presentare una facciata linda e invitante dietro alla quale si nasconde un appartamento non così diverso da quello abitato dai condomini precedenti.
Il boulevard citato in questo progetto è poco più che un feticcio, una fantasmagoria ideologica, uno specchietto per le allodole. Mettere due file di alberi ai lati della strada manterrà il Boulevard Fillak un viale a rapido scorrimento, tale e quale è stato prima del crollo di Ponte Morandi
In questo immaginario di propaganda la prevista trasformazione di Via Fillak in Boulevard Fillak risulta emblematica. I boulevards furono aperti da Haussmann nella Parigi della seconda metà dell’Ottocento come parte di un intervento urbanistico, economico e politico di un certo tipo. Prescindendo un giudizio di merito su quell’operazione, i boulevards erano il cuore fisico e simbolico di quella che Napoleone III voleva essere la prima metropoli del nuovo Occidente capitalista, la “capitale del XIX secolo” come la definì Walter Benjamin. I boulevards furono il risultato della demolizione fisica di un tessuto sociale popolare funzionale a costruire una Parigi borghese e turistica, fatta di ristoranti, locali, grandi magazzini, snodo di una ristrutturazione imposta dalle nuove necessità del capitalismo avanzato. Ma qui siamo a Campi nel 2020, in una delle mille periferie abbandonate da quello stesso capitalismo a distanza di oltre un secolo e mezzo di tempo. La demolizione di via Porro, imposta dal crollo del Ponte, non farà di via Fillak un boulevard. La gentrificazione che sottende la retorica dei nuovi boulevards postmoderni e che viene implicitamente evocata dal progetto è un fenomeno urbano contemporaneo che insiste sui centri storici o sui quartieri a ridosso di essi, mai sulle sue periferie post-industriali, assediate dai capannoni commerciali, dal traffico e dagli hub della logistica. Il boulevard citato in questo progetto è poco più che un feticcio, una fantasmagoria ideologica, uno specchietto per le allodole. Mettere due file di alberi ai lati della strada manterrà il Boulevard Fillak un viale a rapido scorrimento, tale e quale è stato prima del crollo di Ponte Morandi, e non il boulevard di una capitale del XXI secolo che Genova non sarà mai, nonostante la retorica dei camalli e delle nobildonne genovesi.
“Il tessuto urbano in cui si inserisce il progetto prevalentemente residenziale presenta una mancanza di luoghi pubblici per le attività della comunità. La ricostruzione viene quindi intesa tanto dal punto di vista architettonico quanto da quello sociale. L’obbiettivo infatti è quello di ricostruire un sistema urbano coeso, socialmente attivo e vivace, innovativo tanto da rivitalizzare non solo il quadrante stesso ma diventando attrattore per le zone limitrofe. A partire dalle richieste del bando pertanto, il programma funzionale all’interno del quartiere viene definito attraverso una serie di poli attrattori che spaziano dal mercato alla residenza fino ad arrivare a piccole realtà sportive, ricettive e commerciali mirate all’integrazione e alla generazione di un attrattività rispetto agli utenti delle fasce limitrofe”.
Se la presentazione del progetto è incentrata sulla volontà di ricostruire un tessuto sociale e pubblico, i dati concreti relativi alle architetture da costruire o convertire parlano di una realtà ben diversa: gli spazi previsti da dedicare alla cultura sono il 6 % (5 830 mq), al settore residenziale-ricettivo il 5,8% (5 612 mq), allo sport il il 9,4% (9 095 mq), mentre al commercio sarà destinato il 36,2% (35 172 mq) e a quello produttivo il 42,6% (41 368 mq). Il benessere e la qualità della vita degli abitanti promessi continueranno dunque a dipendere soprattutto dalla produzione e dal commercio, gli stessi ai quali da decenni quella parte di città è stata sacrificata.
In alcuni passaggi del progetto si legge in modo esplicito la gerarchia delle priorità stabilite: “I capannoni industriali esistenti vengono riconfigurati mantenendo le stesse funzioni, come l’incubatore d’imprese BIC, e inserendo funzioni produttive innovative (dalle nuove startup ambientali alla dislocazione di dipartimenti dell’IIT), anche ripensando la mobilità pedonale e carrabile di questa porzione di valle”.
Nello specifico, solleva particolari dubbi l’opportunità di inserire 35000 mq di funzioni commerciali in un’area già satura per la presenza dei vari Ikea, Leroy Merlin, Decathlon, Euronics ecc. e, poche centinaia di metri più a valle, dell’ex area industriale Ansaldo recuperata da decenni a principale centro commerciale di Genova, la Fiumara. A fronte di una necessità non reale in un’area già congestionata di attività di questo tipo, il pericolo è che questi nuovi spazi rimangano vuoti, aumentando quella mancanza di vita che inficerebbe la fruibilità dell’intero progetto da parte della popolazione. Più in generale, non si comprende come il previsto e augurabile “sistema urbano coevo, socialmente attivo e vivace” potrebbe svilupparsi se l’80 per cento dell’area del progetto dovrebbe essere dedicato all’estrazione di profitto, quando la storia urbana capitalistica degli ultimi 150 anni dimostra che laddove si innesca il ciclo produttivo-consumistico le comunità umane e le forme di vita sociali vengono irrimediabilmente erose e degradate.
La rinnovata polis evocata nel progetto sembra dunque sovrascrivere e coprire con una blanda verniciata di verde, sostenibilità e cultura l’ulteriore rafforzamento della metropoli produttiva. Ma come potrebbe essere diversamente, quando nessuno mette in discussione – e la gestione dell’emergenza attuale dettata dalla pandemia del coronavirus ne è la dimostrazione più clamorosa – la dittatura del profitto e del PIL? Il capitalismo continua ad essere una religione, come diceva Walter Benjamin già nel 1921, e gli architetti continuano a concepirsi come dei tecnici e non dei politici, come insegnava Le Corbusier negli stessi anni.
Elemento centrale del progetto è il Parco botanico del Polcevera, “un nuovo paesaggio che raccoglie la varietà delle piante e delle essenze del Mediterraneo”, che dovrebbe misurare 13 ettari e ospitare 2895 alberi. Per presentarlo Boeri fa appello al pezzo forte della sua poetica architettonica recente, il tema del bosco:
“Radici, tronco, rami, foglie. Stare in un bosco è come stare in una pinacoteca, tutto quel colore stimola l’immaginazione. Un albero col suo silenzio ci racconta il trascorrere del tempo con la stessa forza di un dipinto. Sta a noi leggerne la storia. Ogni radice, nervatura del tronco, ramo, foglia sono particolari che diventano metafore, simboli del nostro vivere. Ogni dettaglio ha racconti da narrare come una lancia di Uccello, una stele di Poussin, una schiena di Friedrich. Ogni pianta ha la sua personalità: incanta e stupisce, tranquillizza o inquieta, a seconda della forma, dei colori, della luce che la irradia. Di fronte alle sue fronde chiudiamo gli occhi, respiriamo a pieni polmoni e cerchiamo di assimilarne intensamente il profumo. Ogni persona si può identificare in un albero per atteggiamento, costituzione, ideale; ma nessuno potrà mai esserne padrone. Potrà solo, a sua volta, voler essere albero”.
innestare un bosco nei pochi interstizi lasciati liberi dalle infrastrutture, dai centri commerciali e dalle industrie – ovvero piantare degli alberi tra l’asfalto e il cemento – potrà creare forse un paesaggio, ma non un ambiente pubblico
Tralasciando l’effetto un po’ stridente di immaginare che un pur bel albero ombreggiato dal sovrastante viadotto autostradale potrà evocare la ricerca del dettaglio di un quadro di Paolo Uccello, Poussin o Friedrich, è l’intera impostazione di Boeri sulla funzionalità ecologica dei suoi boschi urbani che suscita molte perplessità, come dimostrano le numerose critiche rivoltegli, a partire dalla natura classista e spettacolare del celebre Bosco Verticale costruito nel Quartiere Isola di Milano. Scrive al proposito Fabrizio Bellomo:
“Questa forestazione urbana mi suona un po’ come la vernice utilizzata da certi street artist, la quale sarebbe capace di assorbire l’inquinamento e migliorare così l’aria circostante, bah… Va ribadito (e ha senso farlo!): questa teoria relativa al “…combatte(re) efficacemente il cambiamento climatico…” attraverso la piantumazione di alberi sui balconi di grandi grattacieli di cemento armato rimane un’abile operazione comunicativa. La forestazione di cui si parla altro non è che un escamotage di tipo visivo con cui rivestire grandi cubature di cemento, attraverso delle altrettanto grandi fioriere – sempre in cemento – le quali andranno a contenere gli alberelli rigorosamente selezionati dal paesaggista di turno.Tale genere di forestazione – solo per usare le stesse parole, poiché in realtà si tratta più di un pattern, di un rivestimento appunto –, finisce così per generare una patina di verde verticale che non farà altro che produrre (per la comunità) dei soli paesaggi, fotografabili e condivisibili, paesaggi dunque pregni di un alto livello di likeability. Piacenti e ruffiani. Il Bosco Verticale (già quello milanese) genera sicuramente un paesaggio ma non genera per questo anche un ambiente (pubblico). Per spiegarsi meglio: il paesaggio generato dal Bosco Verticale viene disatteso dall’ambiente cittadino che ci circonda mentre usufruiamo della veduta di questa struttura: asfalto e palazzi. Questa è un’architettura dissociata – e forse in un’epoca in cui la dissociazione fra quello che si è e quello che si fa è diventato un paradigma fondamentale per la sopravvivenza – vi è anche la motivazione dell’enorme successo di questi edifici”.(F.Bellomo, Le foreste sono orizzontali , https://www.artribune.com/arti-visive/2019/11/boeri-bosco-verticale-tirana-editoriale-fabrizio-bellomo/).
Le contraddizioni verticali del grattacielo ecologico milanese sono le stesse, riprodotte su un piano orizzontale, del Parco del Polcevera; innestare un bosco nei pochi interstizi lasciati liberi dalle infrastrutture, dai centri commerciali e dalle industrie – ovvero piantare degli alberi tra l’asfalto e il cemento – potrà creare forse un paesaggio, ma non un ambiente pubblico.
L’evocazione da parte di Boeri del sentimento romantico della natura, riscontrabile nel riferimento specifico a Friedrich, è particolarmente significativa. In un bel capitolo del suo libro L’arte del viaggiare, Alain de Botton, recatosi nel Lake District sulle orme del grande poeta romantico Wordsworth, ci ricorda come quest’ultimo, nel suo amore sconfinato per la natura inglese ancora per larghi tratti incontaminata della prima metà del 1800, notasse come città e natura fossero incompatibili: “Parte del suo biasimo era rivolto contro l’inquinamento, la congestione, la miseria e la bruttezza delle città, ma provvedimenti antitraffico e sgombro degli slum non sarebbero valsi a revocare la bocciatura di Wordsworth. A preoccuparlo non era tanto la salute degli abitanti, quanto l’effetto della vita urbana sulla loro anima” (A. De Botton, L’arte di viaggiare, Guanda 2002, p. 138). La natura, diceva Wordsworth, è un cosmo, un sistema complesso che ha tanto da dare e insegnare agli uomini ma solo quando conserva la sua integrità e autonomia; essa, al contrario del conciliarci con l’asfalto e il cemento, ci dovrebbe indurre “a cercare nella vita e nel prossimo ‘quanto vi è desiderabile e buono’. Essa era una ‘immagine della giusta ragione’ capace di correggere gli impulsi sviati della vita urbana” (ivi, p. 146).
Nel cuore del Parco del Polcevera verrà realizzata un’istallazione concepita dall’artista Luca Vitone, “Genova nel Bosco”, che prevede la piantumazione di 43 piante di specie diverse in memoria delle vittime della tragedia del Ponte Morandi, “a perenne ricordo del dolore e delle debolezze degli uomini” e come simbolo “dell’indomita forza di una città”. Spiega Vitone stesso:
“Ogni albero sarà dedicato a un personaggio ligure di ogni epoca dell’ambito culturale, da Montale a Pivano, da Germi a Villaggio, da Strozzi a Scanavino, da Alberti al Coppedé. Personalità nate nella regione o che nella regione hanno trovato linfa per la propria crescita, figure che con la propria immaginazione hanno contribuito a esportare nel mondo l’immagine di Genova e della Liguria. Ogni nome dell’autore sarà celato dal suo anagramma che darà il titolo alla pianta e sarà cura del visitatore, come in ogni gioco enigmistico, scoprire la persona a cui l’albero è dedicato. Un percorso libero che ognuno potrà intraprendere all’interno del Bosco e dove troverà diverse sedute caratterizzate da un disegno particolare a forma di ruota o di croce su cui potrà sedersi, leggere e riposarsi all’ombra delle fronde. La curiosità del visitatore sarà soddisfatta da delle schede botanico‐simbolico‐biografiche che per ogni albero/autore ne racconterà affinità, accostamenti e relazioni. Queste informazioni, con la relativa soluzione dell’anagramma, saranno disponibili con un’applicazione pensata apposta per il progetto”.
Ponte Morandi, così com’era e così come sarà nella sua nuova veste, è una necessità, l’infrastruttura di un sistema economico-politico – il capitalismo industriale – che ha portato benessere materiale ad alcune generazioni, ma che ha rappresentato anche un abbrutimento nocivo della qualità della vita quotidiana collettiva e che, come è sempre più evidente, sta portando il pianeta al collasso. Proprio la morfologia e la storia recente di Genova – dal crollo di via Digione nel 1969 a quello di Ponte Morandi, passando per le numerose alluvioni (di cui il Polcevera è stato spesso un pericoloso protagonista) che hanno provocato morti e disastri – dimostrano come la natura e i suoi fragili equilibri non siano più compatibili con un certo modello produttivo.
A fronte di tutto ciò, il voler celebrare il passato della grandezza industriale della città ricordando le vittime del collasso di uno dei suoi simboli con degli alberi non suona un po’ stonato? E non suona stonato anche il voler insistere nel celebrare il passato della città come un tutto indistinto, associando al crollo di Ponte Morandi poeti e letterati, quasi a voler santificare il modello di progresso produttivista come il migliore dei mondi possibili, anche quando i suddetti esponenti dell’arte e della cultura evocati nulla centravano con esso o addirittura palesemente lo criticavano (basti pensare alle biografie e ai contenuti artistici di un Pietro Germi e di un Emilio Scanavino)?
Quali sono “il dolore e le debolezze degli uomini” che dovrebbero essere ricordati? Le quarantatré persone inghiottite da quella voragine del 14 agosto 2018 sono morte per le responsabilità precise di un sistema economico-politico. Identificarle con altrettanti personaggi celebri che dimostrerebbero la nobiltà di Genova, la quale a sua volta si sovrapporrebbe al simbolo del vecchio Ponte Morandi, le disincarna e ne sfrutta l’orribile fine per celebrare un presunto spirito del progresso di cui esse sarebbero state vittime in un senso quasi hegeliano (“tutto il reale è razionale, tutto il razionale è reale”). In questo senso “Genova nel bosco” appare un’operazione triplamente subdola di spersonalizzazione di chi è scomparso quel giorno, assoluzione morale dei responsabili della tragedia, depoliticizzazione di un sistema. Operazione non soltanto retorica in questo caso, ma di sfacciata propaganda funzionale a suggellare nell’immaginario collettivo l’idea che quella tragedia sia stata un destino soggettivo e non una precisa colpa di chi gestiva quel tratto autostradale e quel viadotto, traendone lauti profitti e senza curarne la sicurezza.
Un sobria targa come quelle che sono sempre state utilizzate per ricordare i nomi delle vittime delle guerre, o ancora meglio una colonna infame come quella murata in piazza Sarzano dagli ex abitanti della zona di Via Madre di Dio dopo il suo abbattimento per ricordare le responsabilità politiche di un disastro urbano o sociale conclamato, parrebbero soluzioni più degne e appropriate per ricordare le vittime del crollo di Ponte Morandi, senza anagrammi, giochi enigmistici e presunte suggestioni bucoliche.
“Un Cerchio di acciaio, Rosso. Un anello che abbraccia – passando sotto il nuovo Ponte – un territorio di ferro, acqua, cemento e asfalto. Il Cerchio Rosso di acciaio, memoria di una potente tradizione di altoforni, gru, carroponti, corre attorno ai luoghi più vicini alla tragedia del 14 agosto 2018. Li abbraccia senza separarli dal loro contesto, ma anzi legandoli tra loro”.
Elemento centrale, cuore simbolico e raccordo materiale dell’intero progetto, è il Cerchio Rosso, progettato in prima persona da Stefano Boeri con l’intento di legare “concettualmente e fisicamente le diversità di un quartiere che ha sempre tenuto insieme industria, infrastrutture e case”. La storia, come già detto, è oltremodo ricca di progetti urbanistici nati con le più roboanti dichiarazioni e intenzioni progressiste e rivelatesi dei fallimenti sociali e ambientali. A Genova è fin banale citare i Giardini Baltimora – più noti come Giardini di Plastica – costruiti sulle sopra citate macerie della zona di Via Madre di Dio.
L’unica cosa certa che emerge al momento è una retorica di propaganda, allineata sui concetti di moda della contemporaneità, che risulta abbastanza discutibile nel confronto con la realtà dei fatti
Ma un altro esempio sovviene alla mente pensando ai percorsi sopraelevati del Cerchio Rosso: il quartiere periferico di Thameshead, nella zona sud-est di Londra, costruito alla fine degli anni Sessanta, contemporaneamente a Ponte Morandi e figlio dello stesso positivismo economico-sociale, per affrontare la carenza di alloggi della capitale britannica. Salutato come un progetto di avanguardia per il suo design sperimentale e brutalista (lo stesso dei palazzi dei Giardini di Plastica), Thameshead venne caratterizzato da un insieme di terrazze e da una fitta rete passerelle costruiti attorno a un sistema di laghi e canali. L’entusiasmo iniziale si scontrò con la realtà dei fatti e Thameshead divenne rapidamente un agglomerato insicuro e degradato, al punto che già nel 1971 Stanley Kubrick lo scelse per girarci alcune delle scene più celebri di Arancia Meccanica.
Una popolazione che non trovò risposte nel progetto degli architetti trasformò quello spazio in una zona insicura e degradata, tanto che ben presto le passerelle vennero chiuse. Se la scommessa architettonica del Cerchio Rosso si rivelasse un azzardo non è difficile immaginare un destino simile. Una comunità la fanno i cittadini quando si sentono protagonisti attivi del cambiamento e quando un progetto risponde con realismo e intelligenza alle loro esigenze. In questo senso “Il Parco del Polcevera” lo vivranno davvero gli abitanti del quartiere per “fare sport, giocare, raccogliere fiori e frutti, usufruire di aree dedicate sia agli animali sia agli aspetti ludici, educativi e di socializzazione”, come auspicato, o diventerà l’ennesima terra di nessuno per i novelli drughi della società occidentale post-coronavirus, opportunamente e ulteriormente distanziati socialmente?
Quale che sarà lo sviluppo reale di questo progetto, ci sono motivi per pensare che l’immagine progressista di rilancio della Valpolcevera incontrerà delle difficoltà concrete a realizzarsi. L’unica cosa certa che emerge al momento è una retorica di propaganda, allineata sui concetti di moda della contemporaneità, che risulta abbastanza discutibile nel confronto con la realtà dei fatti.
Una caratteristica fondamentale di questa propaganda è l’utilizzo abbondante, da parte di Boeri e associati, della neolingua tipica degli architetti contemporanei. Abbiamo visto come la cornice linguistica e ideologica generale del progetto si materializzi nell’affastellamento stridente che associa il passato industriale di Genova ai colori e ai sapori del Mediterraneo, la gloria trecentesca della Superba di Petrarca agli esiti catastrofici della speculazione edilizia e di infrastrutture obsolescenti come Ponte Morandi. Allo stesso tempo il linguaggio tecnico che descrive gli interventi concreti del progetto stesso sembra volersi legittimare alla comunità internazionale degli architetti d’avanguardia più che rivolgersi agli abitanti di Campi e del Campasso. Al di là dell’abuso snobistico di termini inglesi per esporre concetti che avrebbero un loro semplice equivalente italiano – shared surfaces, smart mobility, mixite funzionali, sheds, wayfinders, clusters, strips –, ci sono interi brani della presentazione del progetto che traducono l’impressione di tecnici che pianificano dall’alto la vita quotidiana delle persone comuni:
“Così come il programma funzionale, anche gli stessi involucri architettonici di progetto vengono ripensati trasversalmente alle fasce del quadrante, con l’obiettivo di sviluppare una semantica condivisa a micro e macro scala, alla base di un’identità comune e riconoscibile per il Quadrante”.
L’uso di questo linguaggio per una disciplina, l’architettura, che modella la vita quotidiana delle persone, e, nello specifico, per un progetto che modificherà la vita di una popolazione di condizione sociale ed estrazione culturale di un certo tipo, richiama la neolingua, termine inventato da George Orwell nel suo celebre 1984 per definire un linguaggio innovatore che, proponendosi come incomprensibile per i sudditi, proibisce loro ogni pensiero critico nei confronti dell’autorità costituita. Come la neolingua degli architetti contemporanei si inscriva nella tradizione della retorica piegata ai fini della propaganda e della pubblicità ce lo ricordano ancora le parole di Socrate riportate da Platone oltre 2400 anni fa: “Dunque, il retore e la retorica si trovano in questa posizione rispetto a tutte le altre arti: non c’è alcun bisogno che sappia come stiano le cose in sé, ma occorre solo che trovi qualche congegno di persuasione, in modo da dare l’impressione, a gente che non sa, di saperne di più di coloro che sanno” (Platone, Gorgia).
Nello specifico la neolingua della smart city, vero e proprio feticcio urbanistico della contemporaneità, ha degli obiettivi chiari all’interno dell’arte della retorica che ne deve promuovere la bontà e l’approvazione pubblica:
“Per portare a termine una politica urbana che dia la priorità agli interessi privati senza provocare opposizioni popolari, è necessario formattare l’opinione pubblica. Per questo le parole adoperate non sono soltanto descrittive ma anche stimolanti: devono provocare il sostegno e perfino l’entusiasmo della gente. Tuttavia, a differenza della propaganda dei regimi definiti totalitari […], la propaganda della smart city seleziona il proprio vocabolario adoperando la tecnica o, meglio, la tecnologia come referente ultimo o come garante di efficienza e obiettività. Presentato come una seconda natura, l’ambito tecno-scientifico imprime un marchio di ineluttabilità sulle decisioni che si pendono. Ormai non si tratta tanto di governare, quanto di gestire. Motivo per cui ai gestori e ideologi della smart city piace così tanto la parola “governance”, importata – come tante altre – dagli USA e presa dal mondo “apolitico” dell’impresa” (J-P. Garnier, Smart City, cit., p. 11).
Allo stato attuale, le politiche urbane cittadine indicate dal progetto del Parco del Polcevera non sembrano dunque prefigurare un vero cambiamento di rotta nella gestione dello spazio pubblico e di una strategia di reale coinvolgimento, partecipazione e miglioramento delle condizioni di vita di chi abita aree periferiche come quella della bassa Val Polcevera. Un progetto ridondante di ottimismo, verde, socialità e cultura verrà messo alla dura prova delle contraddizioni e dei limiti che emergono dal contesto reale di quella zona. Cosa si materializzerà nella vita reale dei cittadini di quelle aree, al di là della retorica e della propaganda, lo vedremo all’atto pratico. Speriamo di sbagliarci, perché Genova non ha più spazio per ulteriori buchi neri urbanistici.
Leonardo Lippolis
* tutte le citazioni riportate riguardanti il progetto “Il Parco del Polcevera e il Cerchio Rosso” sono tratte dalle tavole del progetto stesso e dalla sua presentazione da parte del Comune, consultabili entrambe sul sito https://smart.comune.genova.it/contenuti/il-parco-del-polcevera-e-il-cerchio-rosso