A Genova non serve la forza di rialzarsi: quello si fa per necessità di sopravvivenza. A Genova serve il coraggio di vedere i suoi errori, e di cambiare il suo modo di vivere
Riceviamo e pubblichiamo questa riflessione “ad alta voce”, che partendo da un personale punto di vista pone sul tavolo interessanti e forse inevitabili spunti di riflessione sul vaso di Pandora scoperchiato dalla tragedia del Morandi. Quanti “ponti” sono stati costruiti seguendo un progetto di progresso rivelatosi fallimentare nella restituzione allargata del benessere? Qual è il prezzo che Genova sta pagando? Era possibile fare diversamente e meglio? Ma soprattutto è possibile oggi fare diversamente e meglio? Tra “il comando dei mediocri” e “l’abitudine al brutto” quanti futuri abbiamo perso e stiamo ancora oggi perdendo?
di Giacomo D’Alessandro *
In vista dell’anniversario della tragedia di Ponte Morandi farò una riflessione che a molti suonerà provocatoria se non irrispettosa. Pace. Fermo restando il cordoglio sentito e necessario, penso sia importante richiamare l’attenzione anche su alcuni aspetti più scomodi che la realtà ci porta addosso, e che ci riguardano tutti.
Il Ponte Morandi, quel che ne restava, è stato disintegrato in 6 secondi ormai un mese fa. Chi vi ha assistito da vicino si è reso forse conto di cosa deve provare chi subisce oggi una guerra. Deve aver intuito lo sgomento di quando un’esplosione come quella, che pure era prevedibile e concentrata in un punto a distanza di sicurezza, ti incombe addosso ogni minuto del giorno e della notte. Quale dev’essere il trauma psicologico di bambini, donne, uomini, anziani costretti a vivere per mesi in un posto dove quello squarcio devastante può accadere senza alcun controllo, piombare sulla tua impotenza.
Pausa. Cosa c’entra questo con noi, Genova? Apparentemente niente. Suggestione. E invece, anche se non ci pensiamo mai, siamo tra i primi paesi al mondo ad esportare armi e bombe. Potremmo boicottare da anni questa industria di morte, col nostro voto politico, col consumo critico, abbandonando le banche armate a favore di banche etiche. Non lo abbiamo fatto. Non ci pensiamo. Che la nostra città abbia intrapreso una lotta contro le navi armate saudite è novità degli ultimi mesi, e si deve al collettivo dei portuali e a quelle associazioni di nicchia da sempre impegnate sul tema, con scarsa eco mediatica.
Riflettiamo. Non fermiamo lo sguardo al nostro cortile e al nostro ponte. Perché dice molto di più, questa esperienza anche emotiva, fisica, simbolica che le circostanze ci fanno subire.
A scomparire da Genova non è solo una via di comunicazione. È un “mostro” della cosiddetta civiltà moderna. Abbiamo l’onestà di dire che il Ponte Morandi era un “pugno nell’occhio” di cemento e metallo, che ha tranciato via l’orizzonte (e che orizzonte: il mar ligure rinomato in tutto il mondo) a decine di migliaia di persone per decenni? O siamo talmente assuefatti alle “necessità del progresso” da aver assunto come normale persino un’estetica – che è stata tutto fuorché a misura d’uomo? Ho ascoltato rispettosamente quegli abitanti scossi dai singhiozzi per un travolgimento emotivo, per un simbolo che ha accompagnato la loro rappresentazione della realtà quotidiana, e che adesso tragicamente è andato giù. Sia chiaro: non mi sfiora neanche l’idea di giudicare quel dolore. Non lo posso capire e non ho la pretesa di giudicarlo. Ho passato tanto tempo ospite di amici che vivono a Certosa, col ponte in faccia. Ho sperimentato quella quotidianità. Ma se ci fermiamo attoniti a quel dolore istintivo, alla retorica della città ferita, rinunciamo a chiederci che umanità siamo diventati.
Perché percepiamo bellezza, rassicurazione e famigliarità davanti ad un mostro? Peppino Impastato spese una bellissima riflessione sull’urgenza di insegnare la bellezza alla gente. Noi a che idea di bellezza ci siamo abituati? Come è successo? Cosa ha a che fare questa estetica pesante e violenta con la Genova dei caruggi, dei forti, dei palazzi mercantili e delle creuze? Del mare e dei monti, del vento e delle valli?
Almeno in questo, dovrebbe esserci un certo sollievo nell’aver “rimosso” un emblema della cementificazione selvaggia che ha aggredito il nostro territorio. Al di là del dolore umano e sociale che non si tocca (giova ripeterlo, perché già me li vedo i commenti di accusa), oggi potremmo avere la maturità di riflettere che un ponte del genere non avrebbe mai dovuto essere costruito. Si potevano studiare ben altre alternative, più umili, meno ambiziose, per rispondere alle necessità di un popolo. È lo stesso ragionamento che vale per tutti i palazzi-mostro delle nostre periferie, tirati su come carnai disumanizzanti sull’onda della necessità, e di cui oggi a livello sociale paghiamo lo scotto.
Abbruttire una valle e una parte di città – che nascerebbe per favorire la vita e la serena crescita delle persone – è qualcosa di cui abbiamo ancora necessità? Va bene, è stato considerato necessario e avanguardista in un certo momento storico; ma possiamo dirci oggi che il Ponte Morandi ha svolto una funzione sbagliata? Ovvero unire la città di ponente con il centro. Consentire di bypassare ad alta velocità la città, passandoci in mezzo. Ma che idea è? Come è possibile – ce ne siamo resi conto solo con questa tragedia – che una intera città si percepisca unità grazie ad un ponte autostradale? È normale? Che umanità siamo diventati? Che ne è stato delle naturali vie di collegamento costiero?
Scopriamo solo oggi che si potevano aprire strade alternative lato porto? Scopriamo solo oggi che si poteva tenere aperta la metro anche di notte?
Nessuno nega le esigenze e i compromessi del realismo; ma perché guardare ancora col para-occhi e come soluzione ripetere gli errori fatti? Scopriamo solo oggi che si potevano aprire strade alternative lato porto? Scopriamo solo oggi che si poteva tenere aperta la metro anche di notte? Sicuramente scopriamo solo oggi possibilità aggiuntive, come le biciclette elettriche e il monopattino elettrico, ai quali basterebbe una pista protetta che percorresse tutta la città costiera e le direttrici delle valli (più uno sharing efficace) per consentire la mobilità sostenibile “traffic-free” che in tante città europee è ormai il presente evoluto, e che sgraverebbe anche Genova di tanti problemi e tanto stress. Va bene, non è una soluzione per tutti. Certo che non lo è: non esistono soluzioni per tutti, è finita l’epoca del generalismo, delle realtà di massa. Le esigenze sono frammentate, la popolazione è frammentata, il territorio è spaccato. Per questo aggrapparsi ad un ponte non ha senso né verso il passato né verso il futuro: perché abbiamo da investire in micro-soluzioni molto più efficaci, umane e differenziate. Treni urbani, metro di superficie, piste ciclabili, bike e car sharing, impianti di risalita, zone di interscambio, navibus, sentieri urbani… E non state tutti lì a dire: “certo, certo, ma come si fa…” Si fa se si vuole. Se si investe lì e non altrove. Decenni fa si doveva fare.
Pensiamo al rumore, allo smog e alla bruttura che quel ponte ha imposto per decenni a decine di migliaia di persone residenti. Era necessario farlo così? Era impensabile costruire un tunnel di superficie molto più basso (come i ponti ferroviari vicini), dove possibile addirittura interrato, anche a costo di smontare un paio di palazzi? Sarebbe stato silenzioso, quasi invisibile, e col contenimento degli scarichi. Perché le cose brutte, se proprio necessarie, non le nascondiamo alla vita quotidiana di una città? Di questo progresso mi piacerebbe si parlasse.
l’inerzia dei vecchi e di personaggi mediocri al comando sempre e comunque, che tappano spazi e visioni, assecondando invece che guidando la popolazione
Di cominciare a demolire quegli eccessi di sovrastrutture pachidermiche, inefficaci, insicure, tristi e brutte con cui abbiamo soffocato la nostra vita quotidiana. E c’è poco da dare colpe alla politica, che è nostra espressione (o espressione del caso, visti gli ultimi dati di astensione). Genova non cresce, non cresce nel senso autentico di qualità, non di quantità, perché la sua gente non vuole vedere, non vuole capire, non vuole cambiare. E su questo c’è poco da fare, se non sbattere la faccia sulle continue tragedie e frustrazioni che in questi anni si susseguono. Ma c’è una tragedia più silenziosa che diventerà assordante: la fuga dei giovani e degli adulti più talentuosi, in cerca di spazi espressivi; l’inerzia dei vecchi e di personaggi mediocri al comando sempre e comunque, che tappano spazi e visioni, assecondando invece che guidando la popolazione. La sproporzione tra le due correnti è tale e tanta che parecchi giovani vivono e lavorano già da “vecchi dentro”, per potersi inserire nei gangli genovesi, e ritagliarsi un ruolo.
Ecco, non so se ho condiviso qualcosa di utile, probabilmente no. Ma la sensazione ad un anno da quel ponte che crolla, davanti a chi si ferma soltanto al dolore dell’imprevedibile, è un po’ questa. Di chi non sa più distinguere ad alta voce tra un ponte che non doveva cadere (e non doveva uccidere), ed una città che non doveva affidarsi ad un affare del genere, lasciandosi ferire e deturpare ben prima nella sua socialità, facendosi incapace persino oggi di immaginare alternative per una vita più umana, una vita più bella.
*Coordinatore Centro Banchi – Genova