Con l'obiettivo di riavvicinare la città e il suo porto, il nuovo piano regolatore portuale prevede investimenti nell'ordine dei 2 miliardi di euro per il futuro dello scalo genovese. Un breve tour fra calate e banchine per imparare a conoscere il cuore economico e commerciale della nostra città, un'anteprima della lunga inchiesta che pubblichiamo sul numero 60 di Era Superba
«È proprio bella Genova» dice con ingenua e autentica semplicità un’anziana signora seduta dietro di noi, sul battello che ci conduce alla scoperta del nostro porto. Le nuvole pesanti e una maccaia che ha veramente poco di primaverile non sono il contorno ideale ma la vista della Superba dal mare è qualcosa che non può non lasciare estasiati, neppure con qualche goccia di pioggia.
Eppure i genovesi la città vista da qui, dal suo elemento naturale per eccellenza, la conoscono mica tanto bene. E, soprattutto, non conoscono bene quella cosa che si colloca proprio a metà tra la città e il mare. Stiamo parlando del porto, il nostro motore economico che troppo spesso è visto come una barriera, un muro tra la terraferma e l’acqua e non come elemento pienamente integrato nel cuore della città e di cui dovrebbe rappresentare un punto di forza irrinunciabile.
«Spesso le persone che parlano del porto – sostiene il viceconsole della Culmv, Silvano Ciuffardi – non lo conoscono perché lo vedono solo dalla città. Invece che considerare Genova una città–porto, si parla quasi esclusivamente del porto in città, come se ci trovassimo di fronte solamente a un fastidio di cui vorremmo fare volentieri a meno».
Ed è proprio questo, almeno a parole, uno dei principali obiettivi del nuovo piano regolatore portuale che prevede investimenti infrastrutturali per 2 miliardi di euro: riavvicinare i genovesi al porto, far sì che i cittadini possano tornare a vivere almeno una parte degli spazi portuali come successo al Porto Antico dopo l’Expo. Così, nel nuovo numero della rivista cartacea di Era Superba fresco di stampa, abbiamo deciso di dedicare un lungo approfondimento al porto che è e al porto che verrà, cercando di capire quali sono le grandi trasformazioni che ci apprestiamo a vivere nei prossimi decenni e quanto l’economia genovese possa ripartire attraverso il suo fulcro storico.
Anche perché il porto oggi dà da mangiare a molti genovesi e non solo. L’indotto dello shipping all’ombra della Lanterna coinvolge ogni anno almeno 30 mila lavoratori. Di questi ormai solo 1100 svolgono la mansione più antica, quella dei camalli della Compagnia Unica (tradizione vuole che persino Niccolò Paganini iniziò a suonare in questo ambiente, tra i colleghi del padre, durante le pause pranzo): «Negli anni ’80 – raccontano – eravamo più di 6 mila ma ora il lavoro è tutto automatizzato: per uno sbarco o un imbarco merci ormai è sufficiente una decina di persone, un gruista, qualche conducente di mezzi a terra e gli addetti al bloccaggio e sbloccaggio dei contenitori». Ma quando si parla di porto, ci si concentra quasi esclusivamente sui problemi delle infrastrutture e meno sulle difficoltà dei lavoratori: «Il porto – proseguono i camalli – non è una fabbrica: qui il lavoro è fluido, in continuo movimento. Noi dobbiamo garantire una copertura 365 giorni all’anno e 24 ore al giorno con difficoltà logistiche non da poco visto che ogni scalo ha i propri orari di apertura e chiusura su cui devono essere adeguati i nostri turni».
Quelle logistiche sono proprio una delle principali difficoltà che rendono la portualità genovese e ligure, più in generale, periferica a livello europeo. «In realtà – specifica il professor Francesco Parola, docente di Economia marittima e portuale all’Università di Napoli “Parthenope” e membro di Porteconomics – si tratta di una caratteristica comune a tutta la portualità italiana. Certo, i circa 4 milioni di container movimentati ogni anno dalla Liguria possono essere considerati una periferia di lusso. Ma si potrebbe e si dovrebbe fare molto di più».
Gli spazi portuali, seppure non gestiti al meglio, sono saturi: l’unica possibilità per potenziare lo sviluppo dei porti liguri e di quello di Genova, in particolare, è estendersi verso il mare. Per questo – come analizzato nel dettaglio nel nuovo numero della rivista di Era Superba – la metà dei 2 miliardi richiesti per il finanziamento del nuovo piano regolatore del Porto di Genova serviranno a “spostare” più distante le banchine. «Va anche detto – prosegue Parola – che anche verso il mare gli spazi non possono essere infiniti: c’è, infatti, il problema della scarpata continentale che va già a piombo non troppo distante dalla riva. Non si potrà mai, dunque, realizzare qualcosa di simile da quanto avviene in Cina con la costruzione di una vera e propria isola portuale a 35 km dalla terraferma, a cui è collegata con un ponte ferroviario. Si deve, invece, lavorare tantissimo nel miglioramento della logistica con una grande velocizzazione dei tempi di attesa della merce in porto e della sosta delle navi in banchina: un obiettivo che può essere raggiunto solo con l’ottimizzazione trasportistica e il potenziamento delle linee ferroviarie, interne ed esterne al porto».
Per recuperare gli antichi splendori e provare a riprendere la scia dei grandi porti del nord Europa, Genova però non dovrà fare i conti solo con se stessa. La visita pre-elettorale del ministro Delrio ha anticipato alcuni cardini della riforma nazionale sull’organizzazione e gestione dei porti che dovrebbe essere presentata ufficialmente entro fine mese. Che cosa succederà alle concessioni dei terminalisti? Come cambieranno le Autorità portuali con la nascita dei distretti geografici a sostituire i singoli scali? Verrà aumentata l’autonomia delle realtà locali incrementando la possibilità di recuperare l’iva per investire in infrastrutture?
Intanto, Luigi Merlo ha confermato le proprie dimissioni da presidente dell’Autorità portuale. L’addio ufficiale arriverà a fine mese: ecco, dunque, liberarsi un’altra tessera di questo complicatissimo puzzle che troppi genovesi continuano a vivere come qualcosa d’altro da sé e che sul numero #60 di Era Superba (in uscita il 3 giugno) proviamo a rendere un po’ più comprensibile.
Simone D’Ambrosio