L'uomo con la valigia sbarca ad Amburgo, città brutalizzata durante la seconda guerra mondiale, ma che ha preservato la sua identità portuale e "mondiale"
Il tassista, un uomo polacco di mezza età visibilmente alticcio, guidava distrattamente lungo la strada che collega l’aeroporto al centro di Amburgo, voltandosi di tanto in tanto per raccontare la storia dei suoi cani da caccia e di come aveva perso il pollice della mano sinistra durante una battuta di cinghiali. Il volto sorridente di Papa Wojytila ciondolava incastonato dentro una sorta di amuleto appeso allo specchietto retrovisore, la radio, interrotta dal gracchiare del centralino, passava una canzone pop tedesca, i sedili di pelle color cammello impregnati di quel fastidioso odore di nicotina e polvere erano macchiati di caffè e rammendati come consuetudine con le maglie sgualcite.
Il termometro segnava sei gradi sotto lo zero ma il sole incendiava il cielo tramontando dietro agli alberi spogli sui cui rami si distinguevano le sagome nere dei corvi appollaiati per la notte. Il viale che conduceva al mio appartamento era illuminato soltanto dalla luce delle grandi finestre dei salotti che si mostravano in tutta la loro eleganza, quasi a voler gareggiare su quale fosse il più bello. Un bambino, dopo aver appeso gli ultimi addobbi sull’albero di natale davanti a un caminetto scoppiettante e sotto l’occhio vigile del padre, si avvicina al vetro appannato della finestra e con la manina forma un cerchio per guardare fuori. Il buio calava il suo nero mantello sulla città e il freddo coglieva l’occasione per pungere ancora più forte, il bimbo appoggiando il naso sul vetro come la punta di un compasso, ruotava gli occhi alla ricerca di qualcosa fino a quando comincia a saltare e dimenarsi lasciando il segno della bocca sulla finestra. Una bicicletta con una giovane donna bionda in sella con un elegante cappotto marrone si ferma davanti all’uscio posteggiando il mezzo, era arrivata la mamma. L’appartamento si trovava nel mio stesso palazzo, secondo le indicazioni di Jones avrei dovuto trovare le chiavi sotto lo zerbino, proprio come nei fumetti.
Sono entrato seguendo la donna e sono salito all’ultimo piano, la chiave era nascosta come da accordi, la porta vecchia e screpolata stonava con quelle blindate del condominio e la serratura girava a fatica, accolto da un gelido vento, mi sono accomodato accendendo la luce a tentativi. Jones, un amico fotografo, mi aveva lasciato gentilmente il suo appartamento per qualche giorno, era negli Stati Uniti per lavoro, ma non avendo preso accordi prima della sua partenza aveva spento il riscaldamento e dimenticato una finestra aperta. Ho seguito le istruzioni per accendere il termostato in un brogliaccio lasciato sul tavolo e sono uscito in attesa che si riscaldasse l’ambiente. La temperatura esterna invece era scesa ancora e segnava otto gradi sotto lo zero, le strade deserte e ghiacciate parevano di plastica, i canali riflettevano la luce delle finestre come tante piccole stelle mentre sui tetti il fumo dei camini saliva in alto per poi dissolversi nel vento.
La luce di un pub brillava attraverso una leggera foschia, avevo fame e quella era la soluzione più comoda e veloce per evitare l’ipotermia. Sulle pareti del locale, sopra una vecchia e ammuffita tappezzeria, erano appese le fotografie dei gruppi rock più famosi, mentre in un angolo tra due poltrone, c’era un vero e proprio santuario sui Beatles, è stato facile scegliere dove sedermi. Le persone si contavano sulle dita di una mano, oltre al barista e qualche faccia poco interessante, due anziani signori battevano il piede sulle note di “Lokomotive Breathe” dei Jethro Tull, avevano tutta l’aria di chi la sapeva lunga in fatto di musica.
Finito gli ultimi bocconi di salmone gratinato, buttato giù con un ultimo sorso di birra, ho cominciato a curiosare tra le foto e i gadget sulle pareti. Con il permesso del barman, ho preso la chitarra, cominciando a strimpellare tanto per passare il tempo nel locale semideserto, in quell’angolo non avrei dato fastidio a nessuno. Senza accorgermi ero riuscito a risvegliare i due signori anziani che sedevano al banco tanto da farli avvicinare e accomodare al tavolo con tre birre, cantavamo “Hey Jude” dei Beatles e altri pezzi tra i più famosi. Toni, uno dei due signori, dopo essersi alzato per chiedere l’ennesima pinta, era tornato con un’altra chitarra in mano presa chissà dove, abbiamo cominciato a cantare e suonare, coinvolgendo anche le poche persone presenti nel locale.
Dopo aver salutato i miei nuovi amici, con la promessa di ritrovarci per la mia ultima sera, mi sono avviato verso casa lasciando Toni e gli altri a cantare sotto gli effluvi dell’alcol. La temperatura era scesa ancora di un grado, l’aria ghiacciava nei polmoni e camminare anche per un isolato diventava estenuante e faticoso. La notte, passata senza che me ne accorgessi, sembrava non voler lasciare il posto alle prime luci del mattino, dicembre è un mese buio e freddo al nord, non adatto ai meteoropatici.
Il porto di Amburgo è una dei luoghi più visitati della città, si estende sul fiume Elba, subito dopo il controverso quartiere di St.Pauli dove tutto o quasi è concesso. Intorno agli alberi delle navi mercantili, stormi di gabbiani volano in cerchio in attesa di una preda per colazione, il rumore dei container come spari di fucile li fa volare per poi tornare al loro posto svanita la paura. Un manto di nuvole bianche e geometriche come una trapunta invernale copriva il cielo e bloccava la neve che sembrava non voler scendere mai.
Il centro era reso ancora più elegante dagli addobbi e mercatini natalizi, nascosti dietro ogni angolo, i canali ricordano lo stile olandese mentre i palazzi costruiti con i classici mattoni rossi inglesi traspirano il carattere british dei suoi abitanti. Amburgo è una città risorta dalle ceneri dell’operazione Gomorrah, il grande bombardamento avvenuto durante la seconda guerra mondiale che rase al suolo uno dei centri più industrializzati della Germania nel ‘900. Dal dopoguerra in avanti la popolazione si è saputa reinventare ricostruendo, non solo la parte architettonica della città, ma soprattutto la cultura e la mentalità di un popolo che si ritiene diverso e indipendente dal resto della nazione.
L’ultima sera, dopo aver fatto i bagagli per il mattino seguente, tornato al pub, vuoto come tutte le sere ma ricco di umanità e musica, ho chiesto di Toni al barman che, sconsolato mi dice che era ricoverato in ospedale per alcuni problemi sopraggiunti la sera prima. Con grande dispiacere nel cuore ho salutato tutti, ero già sulla porta quando il barman mi chiede di tornare indietro afferrandomi il braccio indica una cornice sulla mensola dietro al bancone, con un sorriso mi chiede se riconoscevo i due personaggi raffigurati nella fotografia.
Era un bianco e nero dei primi anni 60, su un palco di un pub stracolmo di gente riconoscevo un giovanissimo Paul McCartney imbracciare un basso con la mitica impugnatura mancina, al suo fianco un ragazzo con i capelli biondi impugnava un chitarra acustica con un inconfondibile stile rimasto intatto cinquant’anni dopo, era Toni, che accompagnava uno dei mostri sacri della musica mondiale.
Diego Arbore