add_action('wp_head', function(){echo '';}, 1);
"Le grandi strade sembrano linee tracciate con un pennello in mezzo al verde, in fondo a una di esse una grande nube di vapore acqueo a forma di fungo saliva in cielo, come quello delle esplosioni nucleari, ero arrivato a Niagara Falls"
Una dozzina di uomini, lavoravano sul ciglio di una vecchia ferrovia avvolti da rumore e polvere, la brace di una sigaretta brillava nel pulviscolo, tanto per accorciare quella faticosa sopravvivenza. Sotto il cavalcavia, una donna dormiva sul sedile di una macchina abbandonata, la notte, noiosamente lunga, aveva lasciato solo un velo di brina sulla carrozzeria e una scritta “Dio, sono qui” impressa sul parabrezza. Un corvo, appollaiato sul cartello arrugginito “benvenuti a Rochester”, si alzava in volo al passaggio di una vecchia utilitaria con la radio a tutto volume. Il legno della chiesa era segnato dagli inverni rigidi che piombano sull’Ontario, puntuali come un orologio, in quel luogo fermo da anni, sul piccolo campanile sopra di essa. Il sacerdote con un gesto della mano saluta la famiglia che gli aveva fatto visita, i loro occhi tristi erano pieni di speranza, si sono incamminati verso quella casa che avevano imparato a odiare, ma che rappresentava l’unico punto fermo della loro vita. Il padre prende in spalla la bambina, l’elastico che teneva ferma la testa della bambola cede, ma la piccina non piange, scende, la raccoglie con naturalezza e con un sorriso sale nuovamente sulle spalle del padre, l’arte dell’arrangiarsi per lei era appena cominciata.
A differenza di Dio e delle istituzioni, il sole non si era dimenticato di Rochester, era settembre e un fascio di luce cominciava a scaldare quella fredda mattina, il vento soffiava dal lago proveniente da nord, pungeva e ululava come un lupo solitario, come tanti che passeggiavano per il paese. Era quella l’America o era quella vista pochi giorni prima a Boston, dove tutto sembra un disegno perfetto o forse è realmente quella raccontata da Steinbeck e cantata da Dylan, Woody Guthrie e Springsteen? La situazione non era dei più amichevoli, ma sono sceso comunque dall’auto per acquistare dell’acqua nel piccolo market e fare carburante, sugli scaffali i prodotti erano impolverati dal tempo, sacchetti di carne essiccata, dolciumi, riviste e gadget di ogni tipo, ordinati senza il minimo criterio. Dietro il banco, una grassa donna di colore dormiva seduta con il mento appoggiato sull’abbondante seno e una tazza di caffè stretta nella mano, davanti a lei un monitor trasmetteva le immagini del locale, in uno dei riquadri ero ripreso io davanti alla cassa in attesa del suo risveglio. Con il classico colpo di tosse attiro la sua attenzione e le allungo una banconota da venti dollari, mi sorride e con il dito mi fa segno di avvicinarmi, con un po’ di timore appoggio i gomiti sul banco e tendo l’orecchio. «Ragazzo, non ti consiglio di girare da queste parti – dice a bassa voce – ci sono luoghi più interessanti nelle vicinanze…».
…tu sei a Buffalo, qui non c’è il centro, c’è solo Buffalo
Nessun consiglio era stato mai così utile, alcune brutte facce giravano intorno alla mia macchina e mascherando la paura con una finta sicurezza ho messo in moto chiudendo le portiere dall’interno passando con il rosso al primo semaforo, solo cinque minuti dopo viaggiavo sull’highway 90 in direzione di Buffalo, una città affacciata sul lago Erie , famosa per la sua vivacità. Quella domenica mattina Buffalo aveva l’aspetto trasandato di una moglie infelice, mi sono fermato per chiedere indicazioni ai bordi di una grande rotatoria, dove un uomo con dei grossi baffoni e cappello da cow-boy fumava una sigaretta appoggiato sul cofano di una limousine, i suoi occhiali a specchio riflettevano le immagini di una coppia di sposi che si faceva fotografare vicino a una grande fontana, la sua attesa mi ha dato forza per avvicinarmi e chiedere indicazioni per il centro. Per qualche secondo sembrava non avere sentito, ma dopo aver lentamente ruotato il capo nell’altra direzione, tirando su con il naso la quantità ideale di catarro e sputandolo come una perfetta pistola ad aria compressa, mi guarda sorridendo dicendo «tu sei a Buffalo, qui non c’è il centro, c’è solo Buffalo».
Ho deciso che non avrei voluto passare la notte nell’ennesimo luogo pericoloso e con il passaporto alla mano mi sono diretto verso il Peace bridge che attraversa il fiume Niagara tra Stati Uniti e Canada. Il cielo azzurro era macchiato solo da qualche nube bianca come batuffoli di cotone, il sole era alto ma un vento fresco ne mitigava il calore, le acque del fiume scorrevano inesorabili rincorse da aironi e gabbiani che volavano a pelo d’acqua quasi per gioco. Il ponte essendo privo di grandi strutture dona quel piacevole senso di libertà e scatena l’emozione e la bellissima sensazione di volare fino a che, una fila di automobili ti riporta a terra bruscamente, un muro di bandiere canadesi ti sbarra la strada e capisci di essere arrivato alla dogana. Nonostante la severa poliziotta e un lungo interrogatorio, sono riuscito a farmi timbrare il passaporto dopo un controllo nel bagagliaio, sono entrato in Canada con un sospiro, non che avessi nulla da nascondere ma vivo sempre con una certa pressione questi momenti. Lo scenario canadese non è molto diverso da quello appena passato al confine, le grandi strade sembrano linee tracciate con un pennello in mezzo al verde, in fondo a una di esse una grande nube di vapore acqueo a forma di fungo saliva in cielo, come quello delle esplosioni nucleari, ero arrivato a Niagara Falls.
Principalmente il paese è un’attrazione turistica, una sorta di piccolo luna park situato lungo la via principale che porta nel bacino dove sfociano le tre cascate suddivise nei due versanti, canadese e statunitense. Il sole aveva cominciato la sua lenta discesa, i fumi diventati rosa sembravano zucchero filato, l’eco delle cascate superava il baccano delle giostre e una leggera pioggerellina di vapore portata dal vento mi bagnava il viso. Camminavo in direzione delle cascate quando un lampo, seguito da un forte boato, illuminava tutto a giorno, aprendo la strada a un improvviso acquazzone. Sono salito in macchina a tutta velocità, bagnato fradicio, stanco e infreddolito, era sera ormai e mi sono addormentato nel fastidioso odore di nicotina delle lenzuola, di quello sporco motel da quattro soldi. La mattina seguente il tempo era migliorato ma aveva portato il vento freddo della burrasca, il battello intanto aveva acceso i motori spaventando una coppia di gabbiani accucciati sul molo. Ero sulla prua per godere lo spettacolo in perfetta solitudine, l’acqua specchiava riflessi argentei, ricoperta da un tappeto di gabbiani, pellicani, aironi e decine di uccelli di ogni genere pronti a spiccare il volo con la puntuale cadenza di un aeroporto e passare attraverso gli arcobaleni bucando le dense nubi di vapore create dalle cascate.
il più piccolo, si è voltato con gli occhi rossi dalla commozione, asciugandosi una lacrima con il polsino della felpa si rivolge verso di me entusiasta, gridando «This is great»
La mia posizione privilegiata permetteva una visione a grandangolo del panorama, come se stessi navigando a pelo d’acqua su una zattera di un film western. Siamo entrati nella gola della cascata principale avvicinandoci a pochi metri dal fragore delle acque che cadevano da ogni lato formando schizzi che solo grazie alla cerata ho potuto evitare. Mi sentivo minuscolo di fronte a tanta imponenza, avevo il viso bagnato quando ho sentito scendere qualcosa di più denso dagli occhi, attraversare le guance fino al mento e cadere fondendosi e perdendosi nel fiume. Tornato a terra, ho voluto guardare ancora una volta quello spettacolo salendo sul ponte dal quale si possono ammirare le cascate in tutto il loro splendore, vicino a me due ragazzini erano appoggiati al parapetto osservando il panorama in religioso silenzio, il più piccolo, si è voltato con gli occhi rossi dalla commozione, asciugandosi una lacrima con il polsino della felpa si rivolge verso di me entusiasta, gridando «This is great». Il mio ebete sorriso non deve essere stata la migliore risposta, lui piuttosto ha suscitato in me la consapevolezza che il rispetto dell’ambiente deve nascere dai più giovani, l’unica speranza per il futuro di un mondo che si sta dimenticando chi comanda sul nostro pianeta, madre natura.
Diego Arbore