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Palazzo Ducale ha ospitato fino a ieri, domenica 16 giugno, la mostra Il lavoro dell’artista. Un percorso genovese 1977 - 1989: l'intervista a uno degli autori sul percorso fra arte e riflessione filosofica
Genovese, classe 1961, definisce se stesso «un’anima anfibia» fino a metà degli anni Ottanta, ossia quando decide di porre la cesura tra il suo percorso artistico e quello della ricerca filosofica, prediligendo la seconda. Le sue opere, insieme a quelle di altri artisti genovesi, sono state esposte a Palazzo Ducale nella mostra Il lavoro dell’artista. Un percorso genovese 1977 – 1989 (le opere su www.lavorodellartista.it)
Com’è nata l’idea di questa mostra?
Tutto è partito dalla personale postuma a Rolando Mignani, allestita nel 2011 a Villa Croce. Rolando, morto nel 2006, è stato una delle figure più importanti nella fase di sperimentazione tra arte e scrittura visuale, avvenuta negli anni Settanta – Ottanta. Non lo classifico come “artista” perché a quei tempi si voleva prendere le distanze dal concetto di “arte” in senso critico e accademico: si preferiva l’espressione “operatori culturali”. Non eravamo un collettivo, ma artisti di diverse generazioni – dei quali io sono il più giovane – uniti da una costellazione di valori comuni. Oltre alla mia opera e a quella di Rolando, sono qui esposti Gianni Brunetti, Italo Di Cristina, Giuliano Galletta, Vincenzo Lagalla e Piero Terrone.
Di quali valori stiamo parlando?
Ciò che accomuna le opere presenti in questa mostra, e in generale il nostro percorso di ricerca, è una riflessione metalinguistica sull’arte. Ovvero: non solo realizzare opere, ma utilizzare le opere come strumento di riflessione sull’arte, sui suoi linguaggi, sul rapporto fra l’opera e il suo pubblico. La mia opera esposta, realizzata nel 1981, è una sinestesia di diversi linguaggi: disegno, fotografia, fotocopia, “fotografia della fotografia”. Un preludio a quella che oggi si chiamerebbe multimedialità. L’immagine ha una funzione concettuale: esprime in forma visuale le teorie espresse da Jacques Lacan, Walter Benjamin, Guy Debord e altri.
Descrivici meglio la tua opera.
Si tratta della prima mia opera che è stata esposta in una mostra personale, all’epoca avevo vent’anni. La premessa è la teoria di Lacan, secondo cui l’uomo è spettatore di se stesso. Non è più lo spettatore a guardare l’opera, ma l’opera che afferra lo spettatore. In questo caso vi sono diverse tavole, che partono dall’obiettivo fotografico per indagare le dimensioni stratificate dello sguardo: la persona ritratta che guarda in macchina, poi che guarda la propria immagine fotografata, il riflesso nello specchio e così via. Nell’opera originaria, si terminava proprio con una cornice vuota, contenente uno specchio: lo spettatore, dopo aver guardato la sequenza di tavole (o meglio, “essere stato guardato” dal soggetto ritratto che lo fissa), avrebbe concluso il percorso guardando se stesso. Il riferimento è anche a un’opera di Giulio Paolini del 1967, dal titolo Giovane che guarda Lorenzo Lotto, e al fatto che in quegli stessi anni – nel cinema – Jean-Luc Godard ha sovvertito per la prima volta la regola del “non guardare la macchina da presa”.
Come mai il titolo “Il lavoro dell’artista”?
Gli anni in cui sono state realizzate queste opere sono immediatamente seguenti al Sessantotto: dopo la critica attiva dei sistemi sociali si registra la centralità del lavoro culturale, non più come una parte del settore produttivo ma come suo fondamento. Si tratta della base del postfordismo, dove il lavoro intellettuale e la tecnologia prendono il sopravvento rispetto alla produzione industriale di massa. Le nuove rifessioni sulla società, e di conseguenza su arte e cultura, partono proprio da questo cambiamento di paradigma economico.
Ci parli del testo Considerazioni inattuali?
Anzitutto voglio precisare che non si tratta di un catalogo della mostra: è un saggio prodotto per questa occasione, ma lo ritengo piuttosto un insieme di riflessioni che contestualizzano quanto esposto qui. La si può definire una “archeologia del presente”: siamo così immersi nella nostra contemporaneità che non la vediamo, il salto nel passato è qui un paradigma per comprendere meglio l’oggi. Il ‘77 è stato un anno cruciale per la riflessione artistica, da cui è partito il percorso che tra gli anni ‘80 e ‘90 è arrivato fino a oggi. L’opera contiene altri due testi, Attualità di Marx e No future, stralci di saggi scritti subito dopo il G8 del 2001. Il saggio sarà edito da De Ferrari, ma è anche possibile leggerlo in formato digitale sul sito della mostra.
Marta Traverso