Il profumo della zuppa di crostacei fuoriesce dalle taverne, quello più acre della birra rovesciata sulle assi di legno e l’aria salubre che giunge dal mare si uniscono in un vortice di sensazioni e ricordi passati…
Guidavo attraverso il Massachusetts inghiottito dal buio, inesorabile come la materia oscura di un vorace buco nero. Il sole non aveva lasciato tracce e la luna tardava ad arrivare. La vivacità e la spensieratezza del paesaggio improvvisamente sono mutate in paure e insicurezze, salite in auto come due autostoppisti silenziosi di cui avresti fatto volentieri a meno. La strada, ridotta a singola corsia, avanzava senza fine apparente; le fronde degli alberi si muovevano come artigli, scosse da un vento che soffiava in ogni direzione trascinando pioggia, foglie e acqua di mare.
La voce e la chitarra di Neil Young, intervallate da interferenze e stazioni radio religiose, mi facevano compagnia con gli assoli di Down by the river e quel falsetto inconfondibile del rocker canadese.
Avevo da qualche ora superato Providence e stavo entrando nella penisola di Cape Cod, un lembo di terra che ricorda il dito storto di una strega e penetra nell’Oceano Atlantico come la spina di una rosa.
Il serbatoio della benzina era agli sgoccioli e la distanza stimata dal computer era inferiore a quella che dovevo percorrere, così sono uscito al primo segnale di civiltà, un piccolo agglomerato di case indipendenti, un parcheggio per roulotte e due fast food, il primo chiuso e l’altro abbandonato, di distributori neanche l’ombra. Le luci giallastre dei lampioni conferivano aria tetra a quel luogo deserto, giochi di ombre e rumori sinistri ingannavano i sensi provocando quella brutta sensazione di sentirsi osservati. Un sussurro mi ha fatto voltare e accelerare i battiti del cuore, ma non c’era nulla di cui preoccuparsi, era solo il sibilo del vento tra i rami.
La mia attenzione si era spostata su una luce immersa nel buio che distava un miglio da me. Senza pensare troppo, ho messo in moto e sono andato vicino, trovando una piccola pompa di benzina e un casottino: al suo interno, blindato come dentro una cassaforte, un piccolo uomo dall’aria impaurita che si affaccia salutandomi con un gesto della mano.
Era un tipo magro sulla quarantina, capelli attaccati alla fronte da sudore e sporcizia, indossava una camicia a quadri rossi e neri di flanella avvolto da una nube di sigarette; tuttavia, aveva occhi vispi e uno sguardo amichevole, avrei potuto scommettere che sotto la sua sedia nascondeva un fucile.
Non voleva uscire dal casottino e forse per paura ha cominciato a urlare, dalla feritoia fumante, le istruzioni per erogare benzina: la pompa era effettivamente un pezzo d’antiquariato.
Dopo aver riempito il serbatoio, mi sono avvicinato per pagare, i suoi lineamenti affusolati illuminati dal braciere della sigaretta e nascosti dal fumo, si estesero in un sorriso alla vista dei venti dollari.
Ho ripreso a guidare nel buio della notte, la tempesta si era calmata e le nubi diradate svelavano qualche timida stella, la luna rimaneva nascosta.
Avevo prenotato una stanza in un motel di Provincetown, un piccolo paese di pescatori sulla punta di Cape Cod, i gestori mi avrebbero aspettato fino alle dieci, oltre quell’orario avrei dovuto chiamare l’uomo della sicurezza per la consegna delle chiavi.
Era mezzanotte inoltrata, ai bordi della strada i cadaveri degli scoiattoli neri e dei procioni si alternavano come paletti catarifrangenti, suggerendo una guida prudente. Ormai restavo solo io e qualche grosso fuoristrada con gli abbaglianti accesi: sembravano astronavi aliene in arrivo sulla terra.
Il motel era il classico a ferro di cavallo visto in tanti film, aveva la particolarità di affacciarsi sull’oceano; in realtà, a quell’ora non si vedeva nulla ma l’odore salmastro, il vento e le strutture deteriorate dal salino ne segnalavano l’imponente presenza.
Fuori dalla struttura principale una piccola piscina sulla quale galleggiavano foglie come piccole imbarcazioni giocattolo, un’altalena spinta da un soffio di vento carico di acqua e salino cigolava assieme ai malinconici giochi per bambini.
Era l’una del mattino. Sono entrato nella hall, una fatiscente struttura ricoperta da moquette azzurra con una dozzina di divani distribuiti senza un criterio logico. Su uno di questi c’era un uomo di colore che dormiva rumorosamente. Era poco più che un ragazzo, indossava calzoni corti e infradito, un cappellino degli Yankees e una maglietta gialla della “security”; si era addormentato con una lattina di birra in mano, altre due erano vuotate e lasciate ai piedi del divano accartocciate come cartaccia. Deve essere stato un brusco risveglio il suo, forse destato da un bellissimo sogno, oppure la fine di un bruttissimo incubo, quando mi ha guardato con gli occhi rosso sangue ho dovuto sfoderare il sorriso più ebete del mio repertorio. Dopo i convenevoli, il ragazzo era di poche e incomprensibili parole, mi ha chiesto il passaporto per poi sparire con esso per una decina di minuti e tornare con la chiave della camera e un salvagente come portachiavi.
La stanza non era di certo quella di un hotel a cinque stelle ma trasmetteva comunque un certo fascino. Era un openspace con cucinotto, terrazzo e la solita moquette azzurra: odorava di umido e stantio, inevitabile con quella brezza marina. Sono crollato sul letto come un albero abbattuto dormendo fino alle luci dell’alba quando aprendo la tenda, un fortissimo chiarore mi ha abbagliato la vista.
La nebbia era bianca come latte e morbida come cotone, depositata omogeneamente su tutto il paesaggio. S’intravedeva solo la ghiaia color cappuccino, le sterpaglie e i mucchi di alghe depositati nella notte. Sono sceso sulla spiaggia in una sorta di trance calpestando gusci di conchiglie e telline, accompagnato da gabbiani e rondini di mare, spingendomi fino alla battigia a battezzare i miei piedi nudi nell’oceano. Una brezza proveniente da sud est iniziava a soffiare, separando le nuvole dal cielo, il bianco dal blu e vivacizzando i colori con i primi raggi di sole, riflettendosi sulle case di legno ancora bagnate: le faceva brillare come un luminoso presepe. Lentamente, l’oceano si ritira scoprendo le acque come un lenzuolo, banchi di sabbia si formano disordinatamente, una barca ancorata s’inclina al contatto con la sabbia e i gabbiani rincorrono i granchi impauriti, lasciando solo qualche avanzo per gli uccelli più piccoli.
Solo pochi minuti più tardi, camminavo tra i vivacissimi vicoletti e le caratteristiche case di legno di Provincetown. In quei luoghi Hermann Melville aveva immaginato l’avventura di Ismaele, del capitano Achab e il suo incubo Moby Dick, in quello che è rimasto uno dei romanzi più importanti della letteratura mondiale. Il profumo della zuppa di crostacei fuoriesce dalle taverne, quello più acre della birra rovesciata sulle assi di legno e l’aria salubre che giunge dal mare si uniscono in un vortice di sensazioni e ricordi passati.
Tra le case, separate da stretti vialetti, fotografavo il porto, notando casualmente una figura che osservava il mare, un bellissimo barboncino dal pelo marrone. Aveva l’espressione malinconica di chi voleva essere su una di quelle navi all’orizzonte o salpare sui pescherecci pronti ad affrontare la tempesta e allo stesso momento di chi ne aveva vissute tante da raccontare. Mi sono avvicinato, lui ha allungato il collo per ricevere una carezza, poi tirando su la testa si è voltato, distratto da un gabbiano sulla spiaggia e scoprendo la medaglietta con scritto “Hermann” ha cominciato a correre verso il mare.
Diego Arbore