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In questa puntata di Ianuenses ripercorriamo gli avvenimenti che portarono a una delle conquiste politiche e commerciali più incredibili della storia di Genova e del Mediterraneo: aver strappato Costantinopoli dalle mani dei Veneziani assicurerà secoli di prosperità commerciale a tutti i Genovesi
In tempi di golpe, golpini e golpetti, per giunta in quel d’Istànbul, che di mutamenti di governo ne conobbe, e tanti – da imperatori mutilati a sultani assassinati (e, mi vien da dire, qualcuno se l’era pure meritato: Ibrahim I, ad esempio, è rimasto noto per aver ordinato l’uccisione di tutte le 280 donne del suo harem, chiuse in un sacco e gettate in un fiume, in modo da punire l’unica colpevole d’essere stata sedotta da un estraneo) – non parrà affatto strano soffermarci sul rapporto tra Genova e le rive del Bosforo. Costantinopoli ospitò, infatti, per diverso tempo, un intero quartiere genovese; anzi, una vera e propria cittadina autonoma: Pera, situata oltre il Corno d’Oro, inglobata nella capitale soltanto dopo la conquista ottomana.
La storia dei rapporti tra Genova e Costantinopoli è costellata da numerosi episodi. Se vogliamo attenerci alla sfera del “politico”, forse quello più eclatante ebbe luogo nel 1261, allorché la città conobbe un improvviso mutamento di governo. Ma andiamo con ordine.
Dalla seconda metà del XII secolo, parte dei traffici genovesi, pisani e veneziani erano andati concentrandosi sulla costa siro-palestinese, in particolare ad Acri, la ricca capitale del regno latino di Gerusalemme. Nel 1256 (o 1257), tra le strette viuzze della cittadina siro-palestinese si verificarono ampi scontri, che portarono all’espulsione dei Genovesi dal proprio quartiere, con conseguenze perdita di beni, merci e vite umane. Si tratta della cosiddetta “guerra di San Saba”, che segnò l’inizio d’oltre un quarantennio di scontri quasi ininterrotti tra le tre potenze marittime italiane. Il conflitto costrinse i comuni a un ingente sforzo armatoriale. Nel 1257, una flotta veneziana si scontrò con alcune imbarcazioni genovesi che ebbero la peggio. Il governo della Superba allestì una seconda flotta, forte di venticinque galee e quattro navi minori, che il 24 giugno del 1258 incrociò al largo di Acri gli odiati nemici. Lo scontro fu violento ma alla fine Venezia ebbe ancora la meglio. I Genovesi perdettero quasi metà delle proprie imbarcazioni e circa 1700 uomini fra morti e prigionieri. Soprattutto, furono estromessi dal mercato acritano.
Il capitano del popolo, Guglielmo Boccanegra, allora a capo del Comune genovese, scelse d’appoggiare l’imperatore di Nicea, Michele VIII Paleologo, il quale, da qualche tempo, reclamava per sé il trono di Costantinopoli. La città, infatti, era in mano ai Veneziani dal 1202-1204; da quando, cioè, era stata conquistata dalle armate occidentali nel corso della cosiddetta “quarta crociata”. Da allora, aveva conosciuto l’instaurarsi d’un più o meno fragile Impero latino d’Oriente, che recava con sé lo spiacevole corollario di tarpare i traffici genovesi tra il Mediterraneo e il Mar Nero. Ebbene, la scelta di collegarsi con Michele VIII Paleologo rappresentava per Genova, esclusa dal maggiore porto della costa siro-palestinese, forse l’unico modo per uscire dall’impasse.
Il trattato stipulato a Ninfeo il 13 marzo del 1261, ratificato a Genova il 10 luglio – che non mancò d’attirare sui Genovesi gli strali di papa Urbano IV, vista la divisione in corso tra la Chiesa latina e quella greca – rappresenta a tutti gli effetti il capolavoro politico del Boccanegra. La convenzione si apriva affermando la cooperazione militare tra Genova e l’impero di Nicea nella guerra «cum Veneticis». L’imperatore concedeva ai Genovesi il diritto di frequentare tutte le terre e i porti in suo possesso o che avrebbe acquisito in futuro. Il commercio genovese sarebbe stato libero da ogni gravame e da qualsiasi norma riduttiva. I Genovesi avrebbero potuto installare una loggia, un palazzo, una chiesa, un bagno, un forno e un numero sufficiente di case nelle città di Adramitto, Ania, Chio e Lesbo e, una volta conquistate, a Costantinopoli, a Salonicco, a Creta e a Negroponte. Smirne sarebbe stata ceduta loro in perpetuo. Il Paleologo, inoltre, rinnovava la consuetudine di donare un pallio all’arcivescovo di Genova (si tratta di quello conservato presso il Museo di Sant’Agostino, attualmente in fase di restauro). A fronte di tali concessioni, gli impegni presi dai Genovesi si riducevano a ben poca cosa: i mercanti greci avrebbero dovuto essere accolti a Genova senza essere sottoposti a tasse o dazi di sorta; soprattutto, il Comune avrebbe dovuto fornire al Paleologo, a spese di quest’ultimo, sino a cinquanta galee da impiegare contro i suoi nemici.
Fu così che, verso la metà di luglio del 1261, dieci galee e sei navi al comando di Marino Boccanegra, fratello del capitano, salparono per la Romània. Anche Venezia, ad ogni modo, inviò una flotta di diciotto galee che non riuscì a intercettare quella genovese. Le cose, a ogni modo, presero una piega diversa. Né gli uni né gli altri giunsero in tempo sulle rive del Bosforo: la città fu, infatti, presa da Alessio Strategopulo, luogotenente del Paleologo, nella notte tra il 24 e il 25 luglio, approfittando dell’assenza della guarnigione veneziana.
Benché i Genovesi non avessero partecipato all’operazione, l’imperatore mantenne comunque i propri impegni: a suon di trombe, buccine e strumenti a corda, essi procedettero alla distruzione del palazzo dei Veneziani, trasportandone in patria alcune pietre, destinate ad adornare il nuovo palazzo della ripa (oggi Palazzo San Giorgio), edificato per ordine del Boccanegra a partire dal 1260 per ospitare la sede del governo (e, se il lettore osserva bene, potrà ancora scorgere sulla porta principale e su un lato del palazzo alcune teste leonine provenienti direttamente da Costantinopoli). La vittoria avrebbe contribuito a ridisegnare l’intera carta politica del Mediterraneo orientale. Tuttavia, di lì a poco, il Boccanegra, sarebbe stato cacciato dal governo: un golpe – questo sì – sostenuto da buona parte della cittadinanza, avrebbe riportato i nobili al potere.
Antonio Musarra