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Le mareggiata di ottobre ci ha dato un assaggio: quello che noi chiamiamo Santuario dei Cetacei in realtà è il mare con una delle più alte concentrazioni di microplastiche
Isola di plastica nel Tirreno, @Francesco Alesi/ Greenpeace
Nelle scorse settimane, l’Istituto francese di ricerca sull’inquinamento del mare (Institut français de recherche pour l’exploitation de la mer – Ifmer, di Bastia) ha rilevato una concentrazione altissima di plastiche e microplastiche nel tratto di Mar Tirreno tra la Corsica e l’Isola d’Elba. Un’“isola di plastica”, come si sono affrettati a battezzarla i giornali francesi e i pochi giornali italiani che ne hanno dato notizia, con chiaro riferimento al più famoso Great Pacific Garbage Patch (o Pacific Trash Vortex) dell’Oceano Pacifico settentrionale. Una notizia che sulla sponda ligure del Tirreno non ha avuto molto seguito, passata praticamente rapidamente in archivio: eppure quello che oramai è dato empirico dovrebbe preoccuparci molto. Oggi.
L’isola scoperta nel Tirreno non ha la stessa estensione di quella oceanica e a differenza di questa, come ha spiegato il direttore dell’Ifmer François Galgani non è permanente, ma generata periodicamente dal particolare gioco delle correnti del Mediterraneo nord-occidentale, che tendono a risalire la costa italiana e poi, ostacolate dall’isola Elba e dalle altre isole dell’arcipelago toscano, ad accumulare in quell’area il materiale trasportato, con le concentrazioni maggiori lungo le coste della Corsica.
Questo però non vuol dire che il problema della plastica nel Mar Mediterraneo sia meno grave che quello nel Pacifico. Anzi. «Il Mediterraneo è un mare chiuso – spiega Stefano Pedone, dell’associazione Worldrise – e questo fa si che le concentrazioni di plastiche siano molto più elevate di quanto non accada nell’Oceano, che ha la possibilità di diluire maggiormente la concentrazione di microplastiche. Tanto che, nell’intero Mediterraneo, la concentrazione di plastica è quasi pari a quella delle isole, o “zuppe” oceaniche. Per la zona tra l’Isola d’Elba e la Corsica parliamo quindi di concentrazioni assolutamente straordinarie».
Plastica raccolta sulla spiaggia di Santa Margherita – Dicembre 2018, foto Worldrise
Isola di plastica è un termine mediaticamente efficace ma in realtà improprio: «Dà l’idea di una vera e propria isola su cui si possa camminare – spiega Pedone, che è laureato in Scienze Naturali all’Università di Genova e in questo momento sta studiando per ottenere la seconda magistrale in biologia marina – in realtà le plastiche che finiscono in mare si riducono progressivamente di dimensioni per effetto del sole, del sale e del moto ondoso, fino a diventare microplastiche e a mischiarsi con l’acqua marina. Passando con la barca in aree che chiamiamo “isole di plastica” quasi non ci se ne accorge, perché la superficie è uguale a quella di una zona normale. Le microplastiche sono invisibili a occhio nudo, in realtà, senza accorgersene, si naviga in una sorta di zuppa di acqua e plastica».
E Genova? Nel golfo ligure il particolare gioco delle correnti rende in teoria poco probabile una concentrazione in stile “isola di plastica” al largo delle nostre coste, ci racconta Pedone nel corso della nostra chiacchierata. Ciò non vuol dire, però, che nel mar ligure la plastica non ci sia: «I porti sono grandi produttori di microplastiche – spiega infatti Pedone – come confermato di recente da forti concentrazioni di microplastiche rilevate al largo del porto di Napoli». A noi, in un certo senso, non serve una sfortunata combinazione di correnti marine come quella che interessa il mare tra l’Elba e la Corsica. Basta la principale attività economica cittadina. Un’attività che, tra l’altro, ci rende di fatto esportatori netti di microplastiche che, prodotte dal nostro porto, si ritrovano poi a viaggiare per tutto il Mediterraneo: «Ovviamente non sono gli abitanti dell’Elba o delle Tremiti a produrre tutta quella plastica – sottolinea Pedone – sono in generale le città di riviera, e in particolare quelle portuali come Genova, o altri fattori come, per quel che riguarda le isole Tremiti, nell’Adriatico, il fiume Po, che riversa in mare tutte le plastiche raccolte lungo la Pianura Padana, che vengono trasportate verso sud dalle correnti superficiali finché non vengono bloccate delle Tremiti».
Se le correnti, ad oggi, ci stanno tenendo lontani dalla parte più visibile del problema, è anche vero che il contesto del Mediterraneo è soggetto a forti mutamenti, dovuti alla attività antropica e a cambiamenti microclimatici in atto da diversi decenni.
Foto di Kevin Krejci
Diversi sono gli studi scientifici che hanno certificato un aumento della temperatura media del nostro mare registrata negli ultimi decenni: un dato che può arrivare ad incidere sulle correnti e sulle quantità e qualità delle precipitazioni e dei fenomeni atmosferici. Un mare sempre più “tropicale” favorisce fenomeni altrettanto “tropicali”, con estremi inediti per le nostre coste. Fenomeni a cui non siamo preparati.
Il dibattito sui cambiamenti climatici è molto ampio e discusso, talvolta anche “tifato”ma gli eventi degli ultimi mesi ci portano sul piatto alcune evidenze, che se diventassero “strutturali” ad un rinnovato contesto appunto climatico, potrebbero non essere troppo da sottovalutare, anche nel breve periodo: la mareggiata dello scorso ottobre ne è un esempio lampante, con una altezza di onde registrata fuori dalla media. Il day after, lo ricordiamo, fu caratterizzato, oltre che dalla conta dei danni, dalla necessità di ripulire le coste da decine di quintali di rifiuti plastici spiaggiati, che il mare conservava da qualche parte e che ci ha restituito. Con gli interessi, visto la difficoltà di una bonifica quasi impossibile, se si parla di microplastiche, oramai presenza fissa e invisibile sulle nostre spiagge.
Sulla immediata costa di questo “quasi lago”, che è il Mediterraneo, vivono almeno 150 milioni di persone, ma i fiumi portano il fall-out di un bacino umano molto più ampio. Il Wwf, in uno studio del 2018 ha calcolato che la concentrazione di frammenti per chilometro quadrato è pari a 1,25 milioni, circa quattro volte quella registrata presso l’isola di plastica trovata nel nord del pacifico. Numeri estremamente sensibili alle attività umane: durante il periodo estivo, infatti, il numero di persone sulla costa praticamente raddoppia, con un aumento di immissione di plastica in mare che sale, durante i “mesi delle vacanze” del 40%. Milioni di rifiuti plastici giacciono da qualche parte sui fondali marini, in balia degli eventi, e rilasciano costantemente piccoli frammenti: una miniera ad estrazione continua che ha trasformato il nostro mare in una vera zuppa di plastica.
Sempre il Wwf ha riportato in un recente studio che nel Santuario dei Cetacei Pelagos, che comprende tutto il mar ligure fino alla Sardegna, cioè tutto il nostro mare, il 56% del plankton è contaminato da microplastiche, avendo trovato nei fanoni delle balene abituate a vivere in questa acque quantità 4 o 5 volte superiori ai livelli considerati normali. E forse, quindi, non è un caso che gli spiaggiamenti di balene e delfini morti siano sempre più frequenti nel Tirreno, spesso con le viscere piene di plastica. Un santuario che sta diventando un sepolcro.
L’inquinamento del Mediterraneo, uno dei più “abitati” e trafficati del pianeta è, quindi, per lo più invisibile, ma inequivocabile. L’isola di plastica della Corsica e dell’Elba sono solo una versione tangibile e ingombrante di un problema molto esteso, che ci coinvolge in prima persona. Anche se ad oggi le correnti ci hanno fatto da scudo di quella parte del problema maggiormente impressionante, forse dovremmo iniziare a preoccuparci seriamente della salute del nostro mare. E della nostra.
Luca Lottero, Nicola Giordanella